16 ottobre 1943: quel bambino sono io

Quello che mi colpisce, nel ricordo che quest’anno si è fatto della deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma, è il fatto che sono state raccolte e pubblicate le foto dei bambini che furono portati via. Sono state pubblicate in un libro a esse dedicato, 16.10.1943 Li hanno portati via, a cura del Progetto “Storia e memoria” della Provincia di Roma, e si possono trovare, insieme ad altre foto di adulti, nel sito realizzato dal Cdec (Centro di documentazione ebraica contemporanea), I volti della memoria.
Intendo dire che queste foto mi colpiscono in modo assolutamente particolare, così come credo colpiscano tutti quelli che hanno la mia età, poco più, poco meno: diciamo i nati negli anni Quaranta del secolo scorso. Già perché nelle foto degli adulti di quegli anni, noi che adulti lo siamo stati dagli anni Sessanta o Settanta in poi, è difficile riconoscerci. O meglio, ci riconosciamo fratelli di quegli adulti per un giudizio che diamo sulle responsabilità individuali nella storia, per un impegno morale che abbiamo preso da quando è nata in noi la coscienza di essere persone umane in una società di altre persone umane, insomma, per un atto della volontà, per una scelta valoriale.

Ma coloro che hanno la mia età sono fratelli di quei bambini prima di ogni volontà e di ogni scelta. Anzi, neanche fratelli, sono loro, si confondono con loro.
La fotografia di Claudio Mieli, nato a Roma nel luglio del 1939 (e che quindi aveva quattro anni quando è stato deportato), è una mia fotografia. Quel bambino sono io. La ricordo perfettamente quella foto. I miei mi raccontavano, quando ero ormai più grande e ripassavamo insieme qualche album di famiglia, che per farmi quel boccolo in testa avevano dovuto tenermi fermo in tre. La parrucchiera, per così dire, era stata una zia di mia madre. I tre che si erano incaricati di tenermi fermo per ottenere quel risultato particolarmente gradito dai fotografi dell’epoca erano stati mio padre, mia madre e un’altra sua zia. Sembra comunque, sempre stando ai racconti dei miei, che, una volta fatto il boccolo, quando dopo mille capricci fui accompagnato dal fotografo, mi misi addirittura in posa con l’aria di dire: «Sono bello. Guardatemi!».
E la foto di Gianna di Segni, nata a Roma nell’agosto del 1941 (aveva quindi due anni quando fu deportata), è la foto di mia sorella Cati. Mia sorella, che ora non c’è più, aveva i capelli ricci e biondi, anzi, quando era piccola, fino ai dieci o dodici anni, li aveva biondissimi. Era una bambina dalle guance piene, come si vede dalla foto, e si usava molto allora, negli anni Quaranta appunto, fare scendere i boccoli d’oro sulle guance, così una cosa metteva in risalto l’altra, e così pure si usava fermare i capelli sulla testa con un fiocco. Anche questa foto la ricordo benissimo: era tra le prime negli album di famiglia. Dico album per dire. In realtà si trattava di scatole che avevano però un qualche ordine, deciso da mio padre.
Siamo noi in quelle foto. Chi potrebbe negarlo? Io sono di luglio. Mia sorella di agosto.
Il 16 ottobre di sessantanove anni fa, poiché non eravamo ancora nati, non potevamo essere al Portico d’Ottavia. Eppure, questo è il fatto, in quelle foto siamo noi.
E oggi, scomparsa mia sorella (che non poche domande, anzi non pochi tormenti, ha sempre avuto a proposito degli orrori di quegli anni), sono io a chiedermi, come ho imparato a fare da Primo Levi: perché è toccato a loro? che diritto abbiamo avuto noi di sopravvivere? Una domanda sbagliata, lo sapeva anche Primo Levi che però non riuscì mai a togliersela dalla testa. E io questa domanda la faccio non per una scelta della ragione e dell’etica, ma perché quel bambino sono io.