Acqua bene comune. È una espressione che di recente ha avuto fortuna. Ma questo è accaduto, purtroppo, perché il principio che essa afferma è continuamente minacciato.
Il principio è antichissimo, è connesso alle origini stesse dell’umanità e, per quanto riguarda l’Occidente, alla fondazione della sua cultura e del suo immaginario attraverso il mito greco. È Ovidio che, ricavandolo da una più antica versione di Esiodo, ci racconta in modo molto dettagliato nelle Metamorfosi questo mito, legato alla figura di Latona, madre di Apollo e di Artemide. Nel poema ovidiano Latona è amata da Zeus quando questi è già marito di Era. Ciò determina l’ira della legittima – e gelosissima – sposa del re degli dei e la necessità per Zeus di allontanare dall’Olimpo Latona, già gravida dei due gemelli. Nonostante l’inimicizia di Era, Latona riesce a partorire sull’isola di Delo e da lì si reca nella Licia, sulle coste dell’Asia minore.
Qui si svolge l’episodio che attesta l’affermazione, già nelle origini mitiche dell’umanità, del principio dell’acqua bene comune. La cosa che impressiona, nei versi di Ovidio, è che il poeta latino, per definire questo principio usa parole del gergo giuridico il cui senso è inequivocabile: «usus communis» e «publica munera». Ne vedremo qui di seguito la traduzione (che è mia), ma veniamo al fatto. Latona, mentre attraversa la Licia con in braccio i gemelli che «avidamente bevono dalle sue poppe piene di latte», stanca e assetata, si avvicina a un piccolo lago dove alcuni contadini stanno raccogliendo vimini e giunchi.
Si avvicinò la figlia di Titano e appoggiò a terra il ginocchio
per potere attingere l’acqua gelida e berla, ma glielo impedisce
la folla dei contadini e la dea a coloro che glielo impedivano disse:
«Perché mi allontanate dall’acqua? L’uso dell’acqua è dovuto a tutti;
la natura non ha dato in proprietà né il sole né l’aria
né l’onda leggera: ed ecco io sono davanti a un bene che è pubblico
e tuttavia vi rivolgo una preghiera perché me lo diate. […]».
Ovidio, Metamorfosi, Libro VI, vv. 346-353
Come in altri episodi del mito, la dea non si fa subito riconoscere come tale. Latona si presenta come una donna qualsiasi, una puerpera che ha bisogno di acqua e che, umilmente, è disposta a chiedere con una preghiera ciò che potrebbe reclamare come un diritto. La conclusione dell’episodio è rapida e significativa: i contadini continuano a negare l’acqua a Latona, anzi smuovono persino le acque del lago per renderle fangose. Fino a che la dea, esercitando alla fine il suo potere, li trasforma tutti in ranocchie.
Questo racconta Ovidio. E usa, per raccontare questo episodio, come ho già sottolineato, due parole, «munus» e «communis» che in realtà hanno la stessa radice e significano la stessa cosa, tranne il fatto che «munus» è un nome e «communis» un aggettivo. La loro radice comune deriva dal sanscrito e in sanscrito indicava il dono, o meglio lo scambio di doni, che sanciva il dovere dell’ospitalità, sacro per gli antichi abitatori del Mediterraneo. «Munus» è dunque l’impegno che non può essere disatteso e spesso si lega, come nella frase di Ovidio, all’aggettivo «publicum» che vuol dire “proprio del popolo” prima ancora che “dello Stato”. «Communis» è dunque la qualità di un solenne impegno scambievole e mi è sembrato dunque opportuno tradurre «usus communis aquarum est» con «l’uso dell’acqua è dovuto a tutti».
Una cultura antichissima, una straordinaria poesia del divenire degli uomini e degli dei e una eccezionale sapienza giuridica si congiungono in questa prima affermazione dell’acqua come bene comune e ci spingono a ricercare ancora oggi in questo aggettivo “comune” quel senso del dono scambievole, dell’impegno sacro che, nel travaso delle lingue dal sanscrito a noi non si deve smarrire, ma rafforzare. Da quella cultura, da quella poesia, da quella sapienza giuridica discende in modo incontrovertibile che la proprietà privata dell’acqua è negata sia dalla natura (che, dice Ovidio, non consente la proprietà dei suoi beni, come l’aria e il sole) sia dalla storia, almeno da quella storia della quale tutti dovremmo riconoscerci come figli.