Come promesso, continuo con la pubblicazione su questo blog di versi che ho scritto a proposito di città che ho via via incontrato nella mia vita.
Tra queste, Bologna mi è particolarmente cara: sia perché i momenti di lavoro che vi ho trascorso sono stati particolarmente belli e – come forse non si dice più – soddisfacenti; sia perché vi ho presentato spesso i miei versi (spesso aiutato da straordinari compagni di lettura) e ogni volta ho avvertito una intensa partecipazione emotiva del pubblico.
A questo si aggiunge che a Bologna si trovano amiche e amici carissimi, di quelli che vedi raramente e che, ogni volta, è come se li avessi lasciati il giorno prima.
Tutto questo non basta? E va bene: a Bologna ho mangiato alcuni dei piatti più buoni della mia vita, in particolare, oltre a quelli serviti in tanti ristoranti e trattorie, quelli cucinati dalla mamma di Laura, una delle amiche del gruppo che ho appena detto.
Infine, perché non dirlo? Bologna mi è cara per la sua bellezza: qualche anno fa, quando i suoi portici sono stati dichiarati patrimonio mondiale dell’Unesco ho pubblicato su queste pagine la poesia intitolata, appunto, Sotto i portici, che avevo scritto parecchio tempo prima (senza aspettare l’Unesco): la trovate qui.
Per tutto questo, la pubblicazione qui di questi miei versi, mentre Bologna si riprende dopo l’alluvione che l’ha invasa, va considerata come una carezza a una persona alla quale si vuol bene.
Michele Tortorici, La piazza rosa, da: La mente irretita (Manni, 2008)
La piazza rosa
Piazza San Petronio a Bologna
Nella piazza rosa attraversata
dal suono di una piccola band con il suo jazz
d’annata che si spande
e suscita ogni tanto brevi applausi
filtrano pochi raggi che la fanno
infinita e le pietre grezze lentamente
si accendono di universi che non vedi.
Angeli affaticati vestono forse forme
d’uomini e non sai
riconoscere il divino e l’umano che il selciato
umido trattiene disegnando
orme d’ansia, impronte
di un comune vagare senza meta
un po’ per gioco, un poco
per cercare ombre di senso mentre imbrunisce
il rosa e si fa buio
e la notte incomincia e sai che deve
durare ancora, fare
vivere nuovi angeli e insieme vecchi
demoni fino alla fine che non giunge
aspettata mai e si improvvisa nuovo giorno.
Sono dunque sensi umani
– mani, braccia, sudori
sonno, stanchezza, desiderio –
tracce di quel divino che la piazza
rosa accoglie e dimentica e trascorre
tra suoni e colori nel momento che le pietre
grezze imbeve e riconosce
già sentite tormentate eccitazioni. Sono
dunque sensi umani – miei sensi, sensi di altri,
sguardi, passi – confini vivi
misure delle cose. Sono, siamo
un universo che ci fa
vivere tutti i giorni come uomini.
Inutile aggiungere che le città delle quali voglio parlarvi con i miei versi sono molte. Aspettatevi altre “fermate”.
Ho scritto la poesia Fermate di cittàpoco più di venticinque anni fa. Non considero mai importante il contesto biografico nel quale nasce un testo poetico, ma posso aggiungere, per soddisfare la curiosità di qualcuno dei circa venticinque lettori di questo blog, che allora facevo il pendolare tra Velletri e Roma e che la quantità di tempo che passavo sui mezzi pubblici costituiva una parte consistente della mia vita. È trascorso, dunque, poco più di un quarto di secolo, non faccio più il pendolare, ma le cose che ho scritto allora in questa poesia a proposito del tempo passato sui mezzi pubblici di Roma mi rappresentano ancora perfettamente.
Fermate di città è stata pubblicata nella raccolta La mente irretita, pubblicata da Manni nel 2008 e il suo titolo è diventato anche il titolo di una sezione di quel libro nel quale erano riunite le poesie dedicate ad alcune città che avevo attraversato per un tempo più o meno lungo. Ecco, ora mi è venuto in mente di pubblicare su questo blog, dopo un lungo silenzio, alcune delle poesie che, in quella raccolta e in altre, ho dedicato alle città. Inutile dire che non potevo avviare questo nuovo percorso del blog se non con quei versi scritti poco più di un quarto di secolo fa. Eccoli, qui sotto.
È un grano della mia quotidiana
stanchezza questo salire sull’autobus e aspettare
in piedi senza occhi, stretto
dalla calca, fermate di città e sentire scorrere
il selciato come pensieri logorati dal continuo
ritornare e poi da una memoria che li lega e così
li trattiene al di qua della possibile
dissipazione. Un poco sarà la quotidiana
routine di attraversare
posti sconosciuti, riconoscibili
però dai segni sempre uguali che ritrovo, sarà
il richiamo del sempre uguale tempo che separa
luoghi e luoghi e cieli visti
attraverso pareti di palazzi con le loro spie
di intonaco malato e di ringhiere
arrugginite, ma queste fermate di città
perseveranti, ogni giorno
ripetute, sono i confini
che conosco, i contorni della mappa che mi sono
costruita e che percorro
come – ricordo – le caselle
numerate della campana con i segni
di gesso tracciati sul marciapiedi e le ragazzine
che li saltavano. Sono – queste fermate – le pareti
che ritrovo anche al buio, la mia casa che si slarga
fino a qui, fino – ogni volta –
a un riconoscimento di me,
piuttosto che per chi o per come, per dove
mi trovo. Mi trovo
lungo piccole strade, binari
stretti da strisce gialle e mi attraversano
piccoli eventi che non saprei neppure
dire quando sono accaduti e chi c’era e chi
era passato prima ed era già altrove perché tutti
coloro che ho visto non ho mai saputo
chi erano. Sarà proprio per questo che ogni giorno
alle fermate riconosco
ciò che ritorna e ciò che passa e ombre e luci
e la città diventa mia.
Come al solito, e come è chiaramente detto nel saluto ai lettori di questo blog, non sarò un fulmine, ma, vi assicuro, tornerò presto con altri versi su altre città.
Se l’inchiostro è finito è un romanzo scritto in prima persona, ma non è un’autobiografia. Chi si dedica a questo genere letterario ha passato almeno un po’ del suo tempo a scrivere diari, a conservare lettere, a classificare vecchi documenti. Io, che non ho mai scritto diari e non sono capace di conservare neanche le bollette pagate, mi sono basato sulla mia memoria. Un’ottima memoria – non lo nego – che però qui si riferisce a un periodo, quello dai quattro agli undici anni, dal quale, per chiunque, emergono ricordi necessariamente sfocati.
Mi è sembrato naturale usare la prima persona: i fatti che racconto di me stesso mi sono effettivamente capitati e a essi hanno realmente partecipato, nel modo in cui racconto, mia sorella, mia madre, mio padre, i nonni, le cugine, gli zii e tutti i parenti dei quali parlo. Tuttavia, devo confermare che Se l’inchiostro è finito è un romanzo: l’ho concepito e l’ho scritto come un romanzo e non come una autobiografia. Tra l’altro, non so chi possa pensare che la mia biografia sia degna di essere raccontata. Nell’intreccio tra realtà e finzione, quest’ultima riguarda i personaggi che non fanno parte della mia famiglia. Di questi, ho cambiato qualche nome e qualche cognome. L’ho fatto a volte per il motivo più banale: da tempo non ricordo più quelli veri o, addirittura, non li ho mai saputi. Altre volte l’ho fatto perché, pur ispirandomi a una persona reale, volevo accentuare un particolare aspetto del suo carattere e renderlo più funzionale alla narrazione o più esemplare in relazione alla storia di quegli anni: quindi non sarebbe stato corretto identificare quella persona con i suoi veri dati anagrafici. Altre volte, infine, ho cambiato nomi e cognomi per appianare lo svolgimento del racconto: ho mischiato infatti in un unico personaggio le storie e, insieme a esse, le qualità o i difetti di due o più persone reali che, se tratteggiate una per una, avrebbero richiesto pagine e pagine di descrizioni.
Ciò che importa, tuttavia, è che in questo romanzo è fedelmente rappresentata, soprattutto in alcuni aspetti oggi del tutto dimenticati, la vita vissuta dalla gente in Italia negli anni Cinquanta del secolo scorso, quelli durante i quali il nostro Paese si riprese dalle ferite della Guerra. Nella Avvertenza per il lettore spiego così i caratteri di quel periodo:
[…] in quegli anni, i nuovi modi di vita determinati da un urbanesimo incontrollato spinsero quasi tutti gli italiani ad abbandonare da un giorno all’altro abitudini secolari, in qualche caso millenarie. Quelle abitudini, buone o cattive che fossero, derivavano da una cultura materiale talmente antica che aveva lasciato impressi i suoi segni, come marchi più che come tatuaggi, nella carne viva di un numero incalcolabile di generazioni e generazioni di uomini e di donne. Nell’Italia di quegli anni vi fu una corsa frenetica a cancellare quei segni.
Per una serie di singolari coincidenze ho vissuto una parte della mia vita di bambino nel mondo nuovo, dove tutti partecipavano a quella corsa frenetica, e un’altra parte dentro il mondo vecchio, dove quei segni ognuno se li portava addosso ben visibili e senza scandalo.
Questo libro parla di quei due mondi che coesistevano mentre si negavano a vicenda e che, in quel coesistere e in quel negarsi, hanno rappresentato un momento decisivo della storia d’Italia nel ventesimo secolo.
Insomma, Se l’inchiostro è finito è un libro che mi riguarda, ma riguarda soprattutto un periodo delicato – e decisivo – della storia d’Italia. Per questo secondo motivo vorrei che lo leggeste.
Devo aggiungere, oggi 4 gennaio 2024, che proprio per questo secondo motivo sono felice che Se l’inchiostro è finito sia stato scelto come “Libro da leggere” per questo mese di gennaio dal giornale online EzRome: qui un commento al libro e un’intervista a me a cura di Donata Zocche, che ringrazio di cuore.
Cinque favole di vita quotidiana e tre cronache sulla «bomba»
Esce oggi il mio nuovo libro di poesie.
Lo presento qui sotto con il testo che compare sul risvolto anteriore della copertina, risvolto nel quale, in modo certo non usuale, è l’editore stesso a raccontare la storia del libro, da quando gli ho presentato il progetto, che conteneva solo la prima parte, le Cinque favole di vita quotidiana, fino a quando è stato effettivamente realizzato con una seconda parte intitolata Tre cronache sulla “bomba”: e nessuno può dubitare di che bomba si tratti né dell’urgenza che mi ha spinto (si potrebbe dire costretto) ad aggiungere questi nuovi versi.
Un’urgenza tale che già il 30 aprile scorso ho deciso di pubblicare su questo blog (qui), mentre era ancora inedita, la poesia che costituisce ora la prima delle Tre cronache.
Ecco dunque che cosa racconta l’editore nel breve spazio del risvolto di copertina.
Questo libro stava per nascere come una raccolta di favole in versi, favole un po’ speciali, così come spiega ai lettori una breve premessa con le Istruzioni per l’uso.
Sono, infatti, favole che
«[…] non raccontano
malefici di streghe o crudeltà
di orchi che mangiano bambini, non trattano
di principi né di principesse e nemmeno
di animali fantastici o parlanti […].
Sono favole, insomma, «di vita quotidiana». Le Istruzioni per l’uso precisano:
«[…] ciò che raccontano,
magari, qualche volta, così come diceva
una canzone un po’ di tempo fa,
sarà capitato anche a voi».
Questo libro stava per nascere come una raccolta di favole in versi e basta. Favole, cioè racconti d’immaginazione, con al centro un argomento che all’autore sta molto a cuore: il tempo. Anzi, il tempo e i tempi, tanto è vero che l’ultima favola si intitola Il presente, il passato e il futuro.
Ma, a un certo punto, è arrivata la guerra. Qualcuno, dopo decenni, ha ricominciato a parlare concretamente di “bomba”, di quella “bomba”: sul tempo e sui tempi le favole non sono bastate più; ormai si trattava di cronaca. È nata così la seconda parte del libro, nella quale l’autore si dichiara pessimista:
«Pessimista? Sì, pessimista. Avviluppato,
però, in un groviglio dentro al quale
posso pensare
di scrivere parole sulla fine
con l’illusione che non finiranno».
L’editore non ha potuto che accompagnare il divenire dell’ispirazione dell’autore e, oggi, non può che condividere la sua «illusione», nel momento in cui consegna al lettore questo libro sul tempo e sui tempi: L’ultima àncora.
Da oggi il libro si può acquistare nelle librerie fisiche (con un ordine che verrà evaso più o meno in una settimana) e in quelle online. Meglio ancora se lo si acquista nella libreria dell’editore, a Roma, in via S. Francesco a Ripa 67 (dove, ovviamente, l’ordine verrà evaso sul momento), o sul suo sito, qui.
In un post che compie tra qualche giorno dieci anni (qui) invitavo i miei lettori a regalare per Natale un libro di poesia. Allora mi affrettavo a precisare che non parlavo soltanto dei miei libri. Qui vorrei suggerirvi di regalare per Natale ai vostri amici proprio questo mio libro: si tratta, infatti, di un libro che mi sento di definire “urgente”.
Quando ho sistemato il mio giardino
non ho previsto la possibilità di una guerra atomica
Ho pubblicato quattro anni fa, con l’editore Campanotto, un volumetto di versi, Piante del mio giardino (qui trovate tutte le notizie e qui una bella recensione di Anna Santoliquido), nel quale, come è chiaro dal titolo, ho descritto il rapporto con le mie piante e la sistemazione del mio giardino.
Ora, in questi tempi di guerra, in questi tempi durante i quali in troppi dichiarano continuamente che la guerra atomica non ci sarà, mi è venuto in mente che allora, come giardiniere, non avevo neppure lontanamente previsto che si potesse parlare di una guerra atomica, sia pure per dire che “non ci sarà”: pessimo segno, quest’ultimo, come sanno tutti gli esperti di comunicazione.
I versi che trascrivo qui sotto sono una ritrattazione: ritrattazione che non riguarda tutto il mio lavoro di giardiniere, ma gli effetti su di esso di questa mancata previsione. Nel titolo uso la parola «Palinodia»: scusate questo arcaismo che risale, attraverso Leopardi, autore di una Palinodia al marchese Gino Capponi (1835), a Stesicoro (638 ca. – 555 ca. a.C.), autore di un poemetto di condanna di Elena (perduto) e di una successiva Palinodia, della quale restano pochi versi, ma che è bastata a creare un topos letterario. Si tratta di versi inediti, scritti una ventina di giorni fa e conosciuti, finora, solo dalla dedicataria, Manuela Vico. In questo caso, mi è sembrato che fosse opportuno venir meno alla riservatezza che dedico sempre a ciò che scrivo: riservatezza che dura fino a che non ho apportato l’ultima correzione sull’ultima bozza del paziente editore di turno.
Inutile dire che, mentre pubblico questi versi, non smetto di curare il mio giardino: nelle scorse settimane ho potato le rose, che ora mi ripagano con una fioritura stupenda; e oggi dovrei finire il lavoro di estirpazione delle erbe infestanti. Tutto come al solito.
Michele Tortorici, Palinodia del giardiniere imprevidente (testo inedito)
A Manuela, persona di buona volontà e a tutte le persone come lei. Che la loro forza possa scongiurare ciò che il mio pessimismo prefigura.
Delle piante del mio giardino ho scritto
tempo fa. Ho scritto
di come le ho curate per far sì
che fosse la loro crescita più lieta. Ho scritto
che le mie piante e io sappiamo bene
di appartenere, senza
poi troppi distinguo, alla progenie
di tutto ciò che vive e muore e che ci piace
proprio per questo condividere
il tempo mentre scorre e il susseguirsi, dentro
a quel suo scorrere, delle stagioni. Ho scritto
delle conversazioni che con le mie piante
ho l’abitudine di fare. Discorsi seri: ho detto loro
per esempio dei baccanali che accompagnano,
come ci ha spiegato tanto tempo fa
Euripide, la decapitazione
del futuro, accompagnano
la madre che uccide il figlio e che ne porta
la testa mozzata sulla picca. Discorsi seri
sulle nostre generazioni che decapitano
il futuro delle generazioni che verranno.
Quello che non ho scritto è che, fra tutte
le piante del mio giardino, manca
proprio quella che oggi, aprile appena
cominciato del duemila e ventidue, più di ogni altra
vorrei avere. Parlo
del ginkgo biloba. È vero
che il mio giardino è piccolo e che un albero
come il ginkgo biloba rischia,
una volta cresciuto, di coprirlo
del tutto. È vero anche, tuttavia, che io
non avevo, nel disporre a suo tempo il mio giardino,
considerato il rischio
di una guerra atomica che avrebbe
ridotto me e il mio giardino in cenere.
Già, la cenere. Quello che si sa di ciò
che è successo là dove le bombe
atomiche sono state, quasi
ottant’anni fa, scaraventate è che le uniche
creature viventi capaci
di rinascere dalla cenere appestata
di radiazioni furono
i ginkgo biloba. Goethe aveva visto bene, dunque,
a definirli “Lebensbäume”, “alberi
della vita”, a considerarli
tutt’uno con la “Urpflanze”, la “pianta
primordiale” che porta a unità
ciò che è diviso. Goethe aveva visto bene e il giorno
che la Terra sarà cenere a causa
di una guerra atomica, il fatto
che possano qua e là nascere piante e
da qualche altro pianeta il nostro,
chissà quando, chissà da chi,
possa essere visto, anziché tutto grigio, almeno
con qualche macchiolina verde mi consolerebbe
persino del fatto di essere io
parte di quel grigio.
Pessimista? Sì, pessimista. Avviluppato,
però, in un groviglio dentro al quale
posso pensare
di scrivere parole sulla fine
con l’illusione che non finiranno.
Pessimista o no, che posso farci adesso
se, a suo tempo,
non ho pensato proprio che una bomba, quella
potesse prima o poi
bruciare, insieme a tutto il resto
della Terra, il mio giardino? Oggi, aprile appena
cominciato del duemila e ventidue, mi rendo conto
di essere stato imprevidente, ma qui
per un ginkgo biloba
di posto non ce n’è davvero. Chi ha giardini
più grandi del mio ne pianti più che può. Sarà,
chissà quando, chissà
da quale altro pianeta, chissà
per chi, meglio vedere
qualche macchiolina verde
anziché tutto grigio, grigio e basta.
Il 28 luglio scorso i Portici di Bologna sono stati inscritti nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco.
Tutte le volte che sono stato a Bologna (tante), camminare sotto quei portici, soprattutto di sera, ha sempre provocato in me emozioni forti. Poco meno di venti anni fa ho scritto su queste emozioni una poesia, Sotto i portici, poi inserita nella raccolta La mente irretita (Manni, 2008).
Mi sembra che questi versi possano affiancarsi degnamente, oggi, alle motivazioni (qui) che hanno spinto i Commissari dell’Unesco a prendere la loro storica decisione.
Non credo che ci sia altro da aggiungere, se non una dedica speciale ai tanti amici che ho a Bologna.
Michele Tortorici, Sotto i portici, da: La mente irretita (Manni, 2008)
È quasi ancora piena questa sera
la luna, ma sotto i portici
del cielo non si sa nulla o quasi; c’è appena una memoria
che si attarda come a un appuntamento
controvoglia. Qui si vedono
soltanto luci fioche che diffondono nell’aria
scie giallastre di uomini in cammino. E il cielo
è là, appena una memoria
lontana: c’è tanta terra
qui, ci sono pavimenti di pietre sminuzzate, infiniti,
logori di passi, di tempo, del continuo
rincorrersi di voglie, di pensieri, di intenzioni
e rapprendersi di orme, di passaggi. Una lentezza
concreta ti resiste accanto
e tu la senti perché è resa oggetto
dal trascinarsi in mezzo agli archi, dallo scivolare
piano sopra le tessere che lega
scompostamente una malta rossastra qua e là
frantumata. C’è un peso in più che hai
addosso sotto questi portici e ti copre
e ti scalda come un vecchio plaid e puoi vivere
tutta la vita senza
il rimpianto di non avere visto questa sera
la luna già un poco calante
nell’alone che l’ha fatta diventare più grande
e l’ha portata vicino e l’ha posata lì sopra la piazza
Otto agosto così grande
anch’essa, così pronta
ad abbracciare il nulla luccicante nel suo vuoto
notturno. Quanto a te, ti accontenti della volta bassa
che ricopre i tuoi umani passi, ti arrendi
all’indolente specchiarsi di ciò che sei
in ciò che ti racchiude. Non avrai bisogno
di altro perché qui è così piccolo il mondo
che basteranno poche parole dette con indifferenza
per farti vivere e lasciare nell’aria la tua scia
giallastra, un filo che permetta il ritorno
o il ricordo almeno, una traccia: come se la pietra
assorbisse di te un memento, anzi come se tu
– insensata Medusa – fossi capace di impietrire
il tuo respiro per fare
rimanere una traccia nel mondo che attraversi.
È quasi ancora piena questa sera
la luna, ma sotto i portici senti il moto delle cose
che scorre adagio e che ti sfiora piano
e sei certo che continuare a vivere è possibile
come forse non avresti creduto se fossi stato solo
sulla piazza grande con quella grande luna
opaca a penetrarti di nulla come penetra ora
le pietre del selciato e ne disegna
i contorni neri in una fuga che non sai dove finisce.
Il canto di Ulisse, il XXVI dell’Inferno, è uno dei più conosciuti della Commedia. Di questo canto il verso «fatti non foste a viver come bruti» è, a sua volta, il più conosciuto e – secondo una recente indagine – il più citato tra tutti i versi del poema dantesco.
Tante volte si trova buttato là nel contesto leggero di una citazione su Facebook o su Twitter dove, comunque, viene letto di corsa. Qualche volta capita invece che questo verso venga citato nel contesto di straordinarie riflessioni sull’uomo. È il caso di un capitolo del romanzo Se questo è un uomo di Primo Levi. Il capitolo è intitolato proprio Il canto di Ulisse e l’autore vi racconta il suo tentativo di insegnare l’italiano a un giovane francese. In questo brano, il prigioniero Primo Levi ricava dai versi di Dante l’idea della conoscenza come strumento di salvezza, come ciò che può salvare l’uomo, anche l’uomo che si trovi nella sua condizione di internato, proprio perché la conoscenza è una dote propriamente umana contrapposta alla vita da «bruti» alla quale gli aguzzini del campo di concentramento vorrebbero ridurre lui e tutti gli altri prigionieri.
È una qualità propria dei capolavori quella di suggerire interpretazioni in ambiti anche assai lontani, nel tempo e nello spazio, da quello nel quale sono stati concepiti.
Ma torniamo all’origine: al XXVI canto della Commedia e alla situazione che vi è descritta. Dante e Virgilio si trovano nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio dell’inferno. Qui coloro che in vita furono consiglieri fraudolenti scontano la loro pena eterna, che consiste nell’essere racchiusi dentro una fiamma.
In una fiamma con due punte sono puniti insieme, così come insieme hanno peccato, Ulisse e Diomede. Quando Dante viene a saperlo, chiede a Virgilio di poter parlare con una delle due anime. Virgilio, che ha capito che cosa Dante vuol sapere e da chi, si rivolge a Ulisse e gli chiede «dove per lui perduto a morir gissi», cioè dove egli sia andato a morire una volta perduto; oppure, dove sia andato a morire e al tempo stesso si sia dannato, se quel «perduto», va letto in senso morale, come è probabile a causa dell’accento assai forte con il quale questa parola è sottolineata nel verso.
Ulisse non si fa pregare. Il «maggior corno» di quella duplice fiamma comincia a scuotersi e poi, oscillando da una parte e dall’altra «come fosse la lingua che parlasse, / gittò voce di fuori e disse: “Quando / […]». Questo «Quando», posto in fine di verso, è dotato, attraverso la pausa che lo segue, di una forza eccezionale: una forza accentuata dal fatto che è l’ultima delle tre rime concatenate e che si trova nell’ultimo verso della seconda terzina che contiene quelle tre rime. Con la forza eccezionale di questa parola comincia il racconto di un viaggio. Quale viaggio? Quello compiuto da Ulisse dopo aver lasciato Circe? No, quello che Dante, al quale – come vedremo meglio tra poco – i poemi di Omero sono del tutto sconosciuti, immagina sia stato compiuto da Ulisse. Nella prima parte del racconto l’eroe greco afferma di avere scelto, una volta allontanatosi da Circe, di non tornare in patria. A spingerlo a questa scelta era stato “l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore», un «ardore» che aveva prevalso sugli affetti familiari. Ecco dunque Ulisse e i suoi compagni attraversare luoghi più e meno noti del Mediterraneo. Infine, una volta arrivati alle “Colonne d’Ercole” (oggi lo stretto di Gibilterra), cioè al punto dove «dov’ Ercule segnò li suoi riguardi / acció che l’uom più oltre non si metta», ecco un nuovo desiderio, un nuovo «ardore», spingere Ulisse a oltrepassare quei limiti. Per farlo, deve convincere i suoi compagni.
Dante Alighieri, Inferno, vv. 112-142
“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli [1] siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia [2] d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza [3]:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”. Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino [4],
che a pena poscia li avrei ritenuti [5]; e volta nostra poppa nel mattino [6],
de’ remi facemmo ali al folle volo [7],
sempre acquistando dal lato mancino. Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ‘l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo [8]. Cinque volte racceso e tante casso [9]
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo, quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna. Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo [10] nacque
e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque, infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.
Prima di cominciare a esporre alcune mie riflessioni su questi versi, è necessario che io rivolga al lettore alcune avvertenze.
La prima riguarda il fatto che su questo canto c’è una sterminata letteratura critica. Sarebbe inutile in questa sede cercare di riferirne, anche solo in parte. Però è possibile indicare un luogo dal quale partire per orientarsi nell’enorme intrico di strade che questa letteratura critica ha percorso. Si tratta del commento alla conclusione di questo canto a cura di Nicola Fosca [11]: commento che, per gentile – e preziosa – concessione dell’autore e dell’editore, si trova anche all’interno del Dartmouth Dante Project ed è quindi leggibile on line (a partire da questa pagina).
Naturalmente, la parte del XXVI canto che precede quella trascritta qui sopra contiene elementi essenziali per la comprensione anche dei versi dei quali mi occupo. In particolare si può notare che, in quella prima parte del canto, le notizie su Circe e sulla permanenza di Ulisse presso di lei sono proprio – e soltanto – quelle che Dante poteva ricavare da Virgilio (VII libro dell’Eneide) e da Ovidio (libri XIII e XIV delle Metamorfosi). Questo dipende dal fatto che Dante non aveva letto quasi niente di Omero e dei suoi poemi. Non aveva la minima cognizione della lingua greca, neanche traslitterata [12]. Conosceva, sì, il nome di Omero, lo venerava, e poco più. Non sapeva nemmeno in che epoca esattamente collocarlo se non in un indefinito e lontano inizio della poesia tramandata prima del quale c’era solo la mitica figura di Orfeo. Nelle opere di Aristotele che Dante poteva leggere (tradotte in latino, ovviamente) non vengono mai affrontate questioni di contenuto dei poemi omerici. Da Orazio, da Cicerone e da altri Dante poteva aver tratto le notizie sulla eccellenza di Omero che trapelano nel quarto canto dell’Inferno. Dalla traduzione latina dell’Etica di Aristotele eseguita nel 1260 da Guglielmo di Moerbecke, aveva certamente ricavato altre notizie che usa nella Vita nuova.
Il fatto che Dante ignorasse del tutto la struttura e il contenuto preciso dei poemi omerici pone una serie problemi non secondari sul racconto che egli fa della fine di Ulisse. Una delle più interessanti ricerche su questo tema è contenuta nel volume Dante e Omero. Il volto di Medusa, di Giovanni Cerri[13]. Si tratta di una ricerca che dimostra almeno due cose. La prima è che ai tempi di Dante alcune traduzioni latine di brevi brani dei poemi omerici, sia pure completamente scollegati tra loro, circolavano almeno negli ambienti dei giuristi (e in quelle che possiamo chiamare con termine moderno “aule giudiziarie”), anche se non si trovavano nelle biblioteche: Dante, potrebbe averne avuto notizia, ma certo da uno di quei brani non sarebbe mai potuto risalire al contenuto completo dell’Iliade o dell’Odissea. La seconda è che, almeno in un caso, quello di Inferno, IX, 52-54, c’è una corrispondenza innegabile tra il senso dei versi danteschi e quello di alcuni versi omerici (Odissea, XI, 633-635). Essa riguarda la possibilità che l’effetto pietrificante del volto di Medusa possa impedire lo svolgimento del viaggio nell’oltretomba: per Dante si tratta del proprio stesso viaggio; per Omero si tratta di quello di Ulisse. Una corrispondenza così stringente farebbe pensare a un rapporto diretto tra i due testi. Tutti avranno notato che io ho usato qui il condizionale. L’autore della ricerca non sarebbe d’accordo, ma altri studi su Dante e Omero, condotti da un altro studioso, Lino Pertile, portano ad avere molta cautela. «In effetti – afferma Pertile –, qualsiasi variante dell’Odissea che contempli la morte di Ulisse prima che ritorni a Itaca mina la struttura stessa del poema omerico; non è quindi una mera variante, compatibile con il poema, ma piuttosto una riscrittura o versione ‘altra’, di cui non rimane traccia nella storia della letteratura greco-romana semplicemente perché non esiste e non è mai esistita. La soluzione più economica del dilemma è che Dante conosca di seconda mano e in forma riassuntiva alcune delle avventure di Ulisse (le Sirene, Circe, Polifemo, qualcosa sul viaggio agli inferi), ma che le conosca come avventure individuali, non collegate tra loro nella sequenza dell’Odissea»[14].
Per quanto mi riguarda, posso aggiungere alle riflessioni dei due studiosi un’altra straordinaria coincidenza che essi non hanno notato – e che non mi pare che sia mai stata sottolineata da altri – ma che invece mi ha sempre colpito e affascinato e che credo debba essere rimarcata. Essa riguarda un verso del XXVI canto appena poco meno famoso di quello al quale è intitolato questo intervento: «de’ remi facemmo ali al folle volo». Nella nota 7 avevo accennato che ne avremmo riparlato.
Ecco di che si tratta.
La relazione tra una imbarcazione e l’immagine delle ali presente nel verso «de’ remi facemmo ali al folle volo» non è nuova: Dante non è il primo a usarla, anzi essa si può considerare uno di quei fili che annodano tra loro poesie di tempi e luoghi diversi: fili che gli amanti della cultura digitale chiamano, nel loro insieme “ipertesto” e che una volta si chiamava semplicemente “collegamento fra testi”.
Dante aveva letto di sicuro almeno il passo del III libro dell’Eneide in cui Enea, nel raccontare a Didone la sua fuga da Troia dice: «velorum pandimus alas» (v. 520) cioè ‘aprimmo le ali delle vele’. Non ci vuole molto a notare, però, che in questo verso virgiliano, quasi sempre citato nei commenti danteschi, la metafora è meno ardita: il fatto che le vele possano somigliare ad ali è un’esperienza comune. Anche il «remigium alarum», cioè il “remigare delle ali” che Virgilio riferisce a Dedalo (Eneide, VI, 19) è un’immagine molto diversa da quella dantesca, anzi, si potrebbe dire che è un’immagine opposta.
Più vicino al testo della Commedia è un verso di Properzio, poeta dell’età augustea contemporaneo e amico di Virgilio. In una delle cosiddette Elegie romane, cioè di quelle dedicate all’antica e recente storia di Roma, l’Elegia IV, 6, parlando della battaglia di Azio, Properzio fa dire da Febo ad Augusto di non aver paura di una flotta che «centenis remiget alis» (v. 47), cioè che “remi con centinaia di ali”. Properzio, però era assai poco noto nel medioevo [15] e non è mai citato da Dante. Insomma, anche se qui il legame con i versi danteschi sembrerebbe diretto, non c’è nessuna prova che Dante avesse letto quel verso di Properzio e difatti sono pochissimi i commentatori che lo citano (tra questi, il Tommaseo).
Virgilio, no. Properzio, no. C’è però un verso di Omero che fa proprio al caso nostro: è quello che finora, come accennavo, mi sembra che non sia stato notato e che ci fa tornare a quella che ho chiamato qui sopra «una straordinaria coincidenza». Non si tratta, infatti, di un verso qualsiasi: siamo nell’XI libro dell’Odissea, quello nel quale Ulisse, su indicazione di Circe, effettua il suo viaggio nel regno dei morti. Qui, lo spirito dell’indovino Tiresia spiega a Ulisse il destino che lo attende dopo essere tornato a Itaca e gli profetizza che, dopo il ritorno in patria, dopo aver riconquistato il potere e superato la violenza dei Proci, dovrà compiere un altro viaggio, un ultimo viaggio, finché – leggo nella traduzione di Aurelio Privitera – … «finché arrivi da uomini che non mangiano cibi conditi col sale, / che non conoscono navi dalle gote purpuree / né i maneggevoli remi che sono per le navi ali». Dopo avere offerto sacrifici a Poseidone, aggiunge Tiresia, «torna a casa e sacrifica sacre ecatombi / agli dei immortali che hanno il vato cielo, a tutti con ordine. Per te la morte verrà / fuori dal mare, […]»[16].
Qui le cose si complicano: rispetto ai pochi e improbabili fili che collegano ad altri versi il verso di Dante «dei remi facemmo ali al folle volo», beh, rispetto a quei pochi fili, questo sembra, senza paragone, il più diretto dal punto di vista del rapporto tra remi e ali. Ma c’è di più. Molto di più. Questo filo collega l’immagine dantesca, non a un verso qualsiasi di Omero, ma proprio a un verso che riguarda Ulisse, che riguarda la discesa agli inferi di Ulisse, che riguarda la profezia sull’ultimo viaggio dell’eroe greco. Non ho torto, se parlo di una «coincidenza straordinaria». Già: coincidenza! Non risulta in nessun modo, infatti, che quel verso potesse essere noto a Dante. Come risolvere l’enigma? Le spiegazioni possibili sono due, molto diverse tra loro.
La prima è che Dante avesse letto quel verso o quei versi in una citazione che li conteneva o in qualche breve brano dell’Odissea tradotto in latino (magari proprio uno di quelli dei quali parla Giovanni Cerri), ma poi perduto e del tutto sconosciuto a noi. Se questo fosse vero, da quella citazione o da quel brano (l’una o l’altro interrotti prima della profezia del ritorno definitivo «a casa»), oltre al rapporto tra remi e ali, sarebbe venuta a Dante l’idea dell’ultimo viaggio. Non esiste, non dico nessuna prova, ma neanche il minimo indizio che ciò possa essere accaduto.
La seconda ipotesi è che, a proposito dello stesso personaggio, Ulisse, a proposito del suo ultimo viaggio (che comunque per Omero non era verso la morte), a Omero e a Dante, a poco più di duemila anni di distanza e senza che il secondo sapesse niente del primo, sia venuta in mente la stessa immagine.
Beh, credo proprio che certe volte, di fronte agli enigmi che la poesia ci presenta, ci si debba fermare. E io mi fermo.
Mi fermo, sì, ma per tornare all’insieme dei versi che ho trascritto qui sopra e, in particolare, a quei due versi «fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza» il primo dei quali sembra essere il più citato del poema dantesco. Vero e proprio fondamento ideale di questo episodio della Commedia, le parole di questi due versi sono state spesso considerate un inno alla virtù e alla conoscenza, o meglio un inno alla virtù della conoscenza.
È vero. Queste parole, tolte dalla bocca di Ulisse e dal contesto nel quale vengono pronunciate (non soltanto il contesto narrativo, cioè l’Inferno, ma anche quello determinato dalle parole che precedono, «considerate la vostra semenza»), queste parole, prese così, chi può dire che non siano un inno alla virtù della conoscenza?
Tuttavia, consideriamo il contesto.
Siamo nell’inferno; più precisamente, quasi nel fondo dell’inferno. Colui che parla è un dannato che si trova lì in quanto è stato un consigliere fraudolento, cioè: è uno abituato a ingannare, a ingannare con le parole. Nei versi precedenti, questo dannato aveva raccontato a Dante de «l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore» e gli aveva spiegato che proprio per quell’«ardore», non era ritornato a casa, dal vecchio padre, dal giovane figlio e dalla moglie Penelope, ma «misi me per l’alto mare aperto / sol con un legno e con quella compagna / picciola da la qual non fui diserto».
Invece (attenzione, “invece”, non “di conseguenza”), dopo essersi aggirato per il Mediterraneo in posti e tra popoli non poi così sconosciuti, soprattutto dai Fenici, già all’epoca della guerra di Troia (ma Dante non lo sapeva), Ulisse racconta di aver deciso di andare a visitare il «mondo sanza gente» dove certamente non poteva accrescere la sua conoscenza «de li vizi umani e del valore». Aggiunge che con una «orazion picciola» è riuscito a convincere i compagni, anzi addirittura a far desiderare loro questa avventura, che va in direzione opposta a quanto progettato in precedenza.
In effetti, questa orazione, benché «picciola», è un capolavoro dell’arte della persuasione. Ulisse si rivolge ai compagni chiamandoli «frati», fratelli, quindi senza più nessuna differenza di grado; ricorda i pericoli attraversati insieme – e superati –; usa la formula delle due negazioni, «non vogliate negar», che è più attenuata non solo di un consiglio, ma persino di una preghiera cortese; e infine li esorta con un appello a considerare la «semenza» dalla quale provengono, cioè il loro stesso appartenere al genere umano, ben diverso da quello animale, da quello dei «bruti», i quali ultimi sì, avrebbero tutto il diritto di tornarsene a casa senza seguire «virtute e canoscenza». Insomma, questa «orazion picciola» avrebbe meritato gli applausi dei più grandi oratori della storia, da Demostene a Cicerone.
Tuttavia, questo dannato che sta nell’inferno per espiare il peccato di aver dato consigli fraudolenti, con le parole che ha rivolto ai suoi compagni, ha compiuto la sua ennesima frode. L’ennesima, ma anche l’ultima. Questa tesi, pur non gradita alla maggioranza dei commentatori, è stata però autorevolmente sostenuta, soprattutto nel corso del Novecento [17]. E io credo che sia l’unica spiegazione di questi versi coerente con il mondo della Commedia, con il mondo interno alla Commedia. Pensiamo alla frase che precede l’esaltazione della conoscenza, quella in cui Ulisse ricorda ai compagni la loro appartenenza al genere umano. Ve ne ho parlato a proposito del contesto. Davvero l’appartenere al genere umano spinge coloro che hanno questa «semenza» ad allontanarsi gli uni dagli altri per seguire virtute e canoscenza? Oppure è vero il contrario? Non è forse vero, infatti, che sia la morale pagana, con Aristotele che proclama l’uomo “animale sociale”, sia la morale cristiana che pone al suo centro la communitas, l’ecclesia, escludono questa idea dell’individuo solitario alla ricerca del sapere? E allora, anche questo appello a considerare la «semenza» non si rivela forse un espediente retorico, il colpo di teatro finale, indirizzato soltanto a convincere compagni vecchi, stanchi e incerti?
Ma entriamo nel merito di quella che Ulisse definisce «canoscenza». Nell’Etica Nicomachea, un’opera che Dante, nella traduzione latina di Guglielmo di Moerbecke, conosceva praticamente a memoria, Aristotele esalta la sapienza come la più alta delle virtù del pensiero. Ma la sapienza della quale parla Aristotele è ben altro. Essa si fonda sulla saggezza, cioè sulla capacità di operare scelte finalizzate alla vita virtuosa. Senza il perseguimento di quel fine, non c’è sapienza. L’Ethica Nicomachea comincia con una affermazione che non lascia dubbi: «Ogni arte e ogni ricerca scientifica e similmente ogni azione ed ogni scelta deliberata tende a un bene; perciò a giusta ragione si è dichiarato che il bene è ciò a cui tutte le cose tendono».
È necessario ricordare qui che l’Ethica Nicomachea è l’opera pagana alla quale i padri della Chiesa, fino a san Tommaso, hanno fatto riferimento per dare una sistemazione teorica alla stessa morale cristiana. Ma c’è di più: quell’opera, è posta da Dante alla base dell’ordinamento dell’inferno ed è esplicitamente citata da Virgilio quando questi spiega a Dante, nell’XI canto, i criteri di quell’ordinamento. Quell’opera che Dante (d’accordo con la Chiesa) considerava la più alta della filosofia morale pagana, quell’opera che a Dante aveva ispirato il modo stesso con il quale i dannati sono puniti e distribuiti nei vari cerchi infernali, ebbene anche quell’opera, ancor prima della venuta di Cristo, negava che la scelta deliberata di Ulisse fosse vera sapienza, vero frutto di una, sia pur estrema e rischiosa, ricerca scientifica. Già per la morale pagana, già per il mondo morale al quale, nella visione dantesca, Ulisse apparteneva, quella scelta deliberata non è dettata dall’amore per la «canoscenza»: questo amore è soltanto l’ultimo argomento retorico addotto per convincere i suoi compagni con una orazione tanto «picciola» quanto, diciamo pure la parola, fraudolenta.
Ecco allora che la scelta di Ulisse si rivela dettata, invece che da desiderio di conoscenza, da una personale volontà di superamento del limite umano: chi è mai andato al di là dei confini posti da Ercole al mondo abitato? Nessun essere umano. Dante stesso raggiungerà sì, guidato da Virgilio, le coste della montagna del purgatorio e ciò avverrà proprio poco dopo quell’incontro nell’inferno con Ulisse. Ma i due non ci arriveranno per mare, bensì seguendo il raggio della terra lungo una «natural burella», un cunicolo, che li conduce lì non senza far sentire a Dante tutte le difficoltà e il peso e i limiti del suo corpo umano. Dante arriva lì in questo modo, che è umano e limitato, nonostante la guida di Virgilio e nonostante il fatto che per quel suo viaggio la Vergine stessa abbia invocato il “frangersi”, il venir meno, delle eterne leggi di Dio [18]. Bene, nonostante tutto questo, Dante arriva sulla costa della montagna del purgatorio, letteralmente, con i suoi mezzi, con i suoi mezzi umani e limitati. E, proprio da lì, guardando il mare che circonda quella montagna, nel I canto del Purgatorio, Dante ricorda che quel lito diserto, è lo stesso «che mai non vide navicar sue acque / omo, che di tornar sia poscia esperto». Ma Ulisse, quello che voleva essere «del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore» (l’uso dantesco nei due diversi passi della stessa parola, «esperto», non può essere casuale) e che poi invece decide di andare dove non ci sono esseri umani, nel «mondo sanza gente», beh, Ulisse era convinto di essere al di sopra di chiunque altro. E, per soddisfare la sua volontà di superamento di un limite che nessun altro aveva superato, inganna i suoi compagni fino a non poterli nemmeno più trattenere.
Se, nel corso della sua vita, Ulisse era stato fraudolento per ragioni storiche, che non lo giustificavano, ma che potevano comunque spiegarne il comportamento, in questo caso è fraudolento per ragioni che possiamo ben chiamare metastoriche: al di sopra e al di là della storia. Quali sono, infatti, queste ragioni? Al di sopra e al di là della storia c’è lui, Ulisse. E basta. Non ci sono altre ragioni.
Per questo, l’anima che Dante incontra là, quasi nel fondo dell’inferno, non è quella di un eroe della conoscenza, ma, vista anche attraverso un metro morale pagano, è quella di un traditore che, a causa della sua superbia, non si ferma davanti a niente.
Vale la pena di ricordare che un altro come lui si trova, lì nell’inferno, poco più sotto: è Lucifero. Anche lui, come è noto a tutti, superbo e orditore di frodi, guarda caso, proprio a proposito della conoscenza.
Note
[1]per cento milia perigli: ‘dopo avere attraversato tantissimi pericoli’. [2]questa tanto picciola vigilia … rimanente: ‘questa piccola parte di vita che ci rimane’. [3]la vostra semenza: ‘la vostra origine’, ‘la vostra comune appartenenza al genere umano’. [4]aguti … cammino: ‘fortemente desiderosi di continuare il viaggio’. [5]ritenuti: ‘trattenuti’. [6]volta … nel mattino: ‘rivolta la poppa a oriente’; quindi, con la prua verso occidente. [7]dei remi … volo: ‘navigammo a tutta forza verso l’ignoto, verso dove era folle navigare’ Su questo verso ritornerò di seguito nel testo. [8]Tutte le stelle … suolo: ‘la notte’, soggetto astratto al posto di “noi durante la notte”, ‘vedeva già le stelle della calotta celeste dell’emisfero australe; a sua volta, l’altra calotta appariva molto vicina alla linea dell’orizzonte’. [9]casso: ‘spento’; il lume della luna acceso e spento cinque volte misura cinque mesi lunari, circa centoquaranta giorni. [10]turbo: ‘turbine’. [11]Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, a c. di Nicola Fosca, Aracne, Canterano, 2018. [12]In Occidente, qualche parola di greco comincerà a conoscerla (e male) il Boccaccio, qualcuna in più (e un po’ meglio) il Petrarca, ma la lingua greca e gli autori greci saranno conosciuti solo nel XV secolo dagli umanisti. [13]Giovanni Cerri, Dante e Omero. Il volto di Medusa, Argo Editrice, Lecce, 2006. [14]Vd. Lino Pertile, Dante, la morte di Ulisse e la rovina dell’Odissea, in: “Letteratura Italiana Antica”, 20 (2019), pp. 171-189. L’altro studio di questo autore al quale faccio riferimento, Dante, Ulisse e l’altro viaggio (Inf. I 91), in: “DANTE, Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri”, IV (2007), si può leggere qui. [15]«All’epoca di San Girolamo [Properzio] cominciava a non essere più conosciuto. Nel sec. XIII la Francia già lo conosceva, come conosceva Tibullo; e in Francia lo conobbe il Petrarca»Ettore Paratore, Storia della letteratura latina, Sansoni, Firenze, 1962, p. 485. [16]Virgilio, Eneide, trad. di Aurelio Privitera, Fondazione Lorenzo Valla, Milano, 1981. [17]Si veda il commento di Nicola Fosca che ho citato più sopra. [18]Beatrice dichiara a Virgilio nel II canto dell’Inferno: «Donna è gentil nel ciel che si compiange / di questo ‘mpedimento ov’io ti mando, / sì che duro giudicio là sù frange» (il corsivo è, ovviamente, mio).
L’altro ieri è stata la “Giornata mondiale della terra”: la terra, questo strano «angolo dove / fortuitamente nell’universo si scioglie / la vita» (così come ho scritto nella poesia Hai ragione, Bruno, che i libri, ne La mente irretita, Manni, 2008). Ieri i giornali erano pieni di articoli su quanto l’altro ieri era stato detto (molto) e fatto (niente). Oggi non se ne parla più, o quasi. Certe volte la mia lentezza è vantaggiosa.
Tra tutto quello che è stato scritto, un articolo di Stefano Mancuso su “Repubblica” è stato, finalmente, chiaro. Mancuso ci avverte che, con le attuali politiche, «[…] se anche tutto andasse per il verso giusto e riuscissimo a convertirci in un tempo incredibilmente breve in esseri del tutto ecologicamente transitati, non avremmo affatto diminuito la concentrazione di CO2 nell’atmosfera, bensì ne avremmo soltanto ridotto la velocità con la quale aumenta». Subito dopo Mancuso fa un esempio straordinariamente semplice e comprensibile a tutti e arriva a una constatazione terribile e, al tempo stesso, a una proposta piena di speranza. Cito qui la conclusione del suo articolo.
Stefano Mancuso Cominciamo dagli alberi, su “Repubblica”, 23 aprile 2021
Permettetemi un esempio per chiarire questo punto. Se vogliamo ridurre il livello di acqua all’interno di una vasca, le azioni che idealmente dovremmo effettuare sono aprire lo scarico e chiudere il rubinetto. Nessuno penserebbe mai di ridurre il livello dell’acqua nella vasca, lasciando lo scarico chiuso e riducendo la portata del rubinetto. In questo caso il livello dell’acqua continuerebbe a crescere, seppure più lentamente. È esattamente questo il massimo del risultato che possiamo attenderci qualora tutto andasse per il verso giusto: che la CO2 nell’atmosfera aumenti più lentamente. È lo stesso approccio che è stato adottato da tutte le Cop succedutesi negli anni. Con quale risultato? Che la CO2 nell’atmosfera è cresciuta nell’ultimo decennio (2010-2020) ad una velocità quasi doppia di quanto non sia cresciuta nel decennio precedente (1990-2000). Forse sarebbe il caso di aprire lo scarico se davvero vogliamo ridurre la CO2. Come? Sottraendola all’atmosfera con l’unica cosa in grado di farlo: gli alberi. Non sarà molto tecnologico, ma state certi che funzionerà. È già successo nella storia del pianeta.
«Non sarà molto tecnologico», è vero, ma è la cosa che io ho fatto da tanto tempo e che continuo a fare. Ogni volta che mi sono trovato a possedere un pezzetto di terra, anche sapendo che dopo qualche anno quel pezzetto di terra non sarebbe stato più mio, ho piantato alberi, arbusti, le piante più diverse che avevano però in comune una cosa: erano in grado di sottrarre CO2 all’atmosfera. E portavano bellezza.
Ho parlato di questa mia vera e propria mania nel poemetto Piante del mio giardino (Campanotto, 2018), ma anche in molte poesie sparse in varie raccolte. Qui, proprio in omaggio a Stefano Mancuso, voglio trascrivere una poesia che già nel titolo ricorda la sua proposta. Pubblicata nel 2008, questa poesia è stata scritta nel 2002 e, dopo di allora, ho piantato alberi in molti altri posti rispetto a quelli dei quali parlo qui. Quelli che ho piantati (e che continuo a piantare tutti gli anni) «nell’isola piatta / dove il vento e il mare li hanno piegati / su pietraie di arenaria», cioè a Favignana, ora costituiscono una straordinaria macchia mediterranea, si sono alzati dalle «pietraie di arenaria» e i più grandi, sicuri di sé, sfidano il mare e il vento da altezze notevoli. Non saprei dire quanta CO2 hanno sottratto all’atmosfera, ma posso dire che sono un incanto.
Michele Tortorici Ho fatto crescere alberi (da La mente irretita, Manni, 2008)
Ho fatto crescere alberi come sentimenti, li ho piantati
dove il terreno soffice li ha fatti attecchire alti su colline
che con pacatezza lentamente declinano
verso il Tevere e nell’isola piatta dove il vento
e il mare li hanno piegati
su pietraie di arenaria. Molti
li ho dimenticati e ora
non saprei riconoscerli. Forse si saranno
disseminati come amori di adolescenti, come febbri
che mani e mani avvertono stringendosi, come sospiri
raccolti sotto possibili cieli vicini, quasi toccati.
Ho fatto crescere alberi che d’ombre
coprono luoghi perduti, su strade
che non percorro più, che non saprei
ritrovare nel viaggio attraverso paesi ogni giorno
nuovi, ogni volta inaspettati
ammassi, magazzini
saccheggiati di memorie; paesi dove il tempo
corre all’impazzata e infiniti ritorni
segnano orme incerte. Non ho altra patria:
ho quelle radici infossate che consumano
sedimenti e così vivono. È questa la ragione per cui voglio
essere pellegrino, affrontare cammini consacrati, attraversare
santuari di roccia vivi. Non c’è strumento che riveli tracce
di questi disordinati passaggi. Il suolo è a volte una leggera
boa dove s’abbarbica la speranza come muschi
salati, uno scoglio dove semi
di acacia giungeranno con la prima alluvione.
Ora, se tiro le somme in questa – o forse in un’altra –
vita, le mani sono radici, rami che spazi celesti
trascinano. Anche la memoria che s’attarda
tra superflui gesti o sogni o tempi precipita grumi
di cielo, granelli di luce che tornano
polvere, ma accendono
tutto ciò che è vivo o che ha vissuto.
Ho fatto crescere alberi come libere macchie o piuttosto
come imprecisate storie. Ciascuno con il suo
regno penetrato nel profondo e nell’alto, come se fosse
possibile sostare in una piaga del tempo voluta
− o tollerata − dalla divina gelosia. Storie che un sacrario
potrebbe raccogliere ma che non hanno segni
di umane identità: nomi, volti, oggetti posseduti
− e i possessori −; storie, insomma, accadute, ma non si sa
a chi, o perché.
Ho fatto crescere alberi ma ho poi dimenticato
di prendere coordinate e punti
di riferimento, di marcare il terreno, di segnare
contorni, livelli, tutto ciò
che individua un luogo e la sua storia, gli uomini
che vi sono passati gli atti, i meriti, le colpe. Li ho fatti
crescere, ma senza aspettare giudizi. Alberi
soltanto.
Se provassimo ad ascoltare quello che la natura ci dice?
Chi ha anche soltanto sfogliato uno dei miei libri di versi sa benissimo che io seguo da sempre con attenzione e con amore la vita delle piante. Quando ho pubblicato la raccolta Piante del mio giardino (Campanotto, 2018), nella Premessa, ho scritto: «Tutti quelli che mi conoscono sanno che io parlo con le mie piante. Penso che la giudichino una piccola stravaganza, ma che l’accettino senza problemi forse perché sanno che, comunque, non nuoce». In effetti, chiacchierare con le piante non nuoce: anzi, è utile soprattutto se, tra una conversazione e l’altra, si ascoltano le comunicazioni che le piante stesse scambiano tra loro e con l’ambiente circostante.
È talmente utile che, pur se storicamente non documentata – gli storici hanno altro a cui pensare –, questa è stata probabilmente un’occupazione non banale dell’umanità per gran parte della sua esistenza su questa terra, approssimativamente, da qualche centinaio di migliaia di anni fa a circa due o trecento anni fa: un bel po’ di tempo.
Tra le altre, le piante di lentisco ci dicono molto con la loro stessa forma. Basta guardarle, anche mentre si va di fretta in macchina lungo una via litoranea. Non ci vuole molto a capire la cosa semplice che vogliono comunicarci: quanto è bello ascoltare ciò che dice il vento, ciò che dice il mare!
E se anche noi provassimo ad ascoltare quello che la natura ci dice? Evito di rispondere con formule “catastrofiste”. Dico soltanto che, se ci provassimo, potremmo riuscire a evitare parecchi guai.
Michele Tortorici Le piante di lentisco (da Il cuore in tasca, Manni, 2016)
Le piante di lentisco crescono a schiere lungo i litorali,
spesso disposte in fila lungo la strada, e brillano,
in primavera soprattutto, per le foglie
lucide e dure che hanno. Certo che le avete viste anche se non sapete
magari come si chiamano. Bene. Prendono
le piante di lentisco, dovunque capiti loro di crescere, le forme
che stabilisce il vento e assomigliano
di solito a cupole verdi, asimmetriche, disposte
una a fianco dell’altra sul terreno: già questo è il punto. Il punto
è che queste cupole non hanno
sotto di sé edifici
che le sorreggano o ai quali possano loro, in qualche modo essere
opportunamente di copertura. Ecco, non tanto cupole
sembrano, piuttosto – come mai, mi domando,
non ci ho pensato prima? – assomigliano ai dammusi: quelli
che si vedono sorgere
anch’essi, proprio allo stesso modo, dalla terra, sull’isola
di Pantelleria. Sono costruzioni,
i dammusi, di lontanissima origine, di un tempo, forse, nel quale
anche l’uomo seguiva, nel disporre
le pietre, quello che a lui diceva il vento,
quello che a lui diceva il mare, avvertimenti
proferiti in una lingua
che, in quel tempo, diligentemente ascoltata, veniva
senza nessuna difficoltà compresa. E le piante
di lentisco questo
fanno: diligentemente
ascoltano, di giorno in giorno
e poi di notte in notte, quello che dicono
il mare e il vento e volentieri accettano
una ubbidienza nella quale non vedono
sottomissione, ma che considerano piuttosto un utile,
e perciò assennato, partecipare alla discorde concordia che è perenne
alimento del divenire.
Auguro a tutti un anno durante il quale gioiosamente partecipare alla «discorde concordia che è perenne / alimento del divenire»: proprio come fanno le piante di lentisco; naturalmente, con in più la razionale consapevolezza che dovrebbe essere propria di noi umani.
La “veccia” del topo di Orazio arriva al Novecento
«Tante storie, va bene! Ma forse troppe per un topo!» potrebbe dire qualcuno dei miei venticinque lettori ironizzando sul titolo di questo intervento e sul fatto che esso è la terza tappa (la prima si trova qui, la seconda qui) di un lungo e tortuoso viaggio letterario. È vero, le mie letture, dopo aver preso le mosse da quella che poteva sembrare una favoletta senza troppa importanza, hanno fatto parecchia strada. È stato sufficiente che, di quella favoletta, io traducessi la parola ervum con ‘veccia’, per mettere in moto una serie di relazioni tra testi letterari che nei miei interventi precedenti ho paragonato, a causa del loro andamento a zig-zag, ai movimenti della pallina di un flipper.
Finora ho seguito quei movimenti dalla Satira II,vi di Orazio e dalla traduzione che ai primi dell’Ottocento ne ha dato Antonio Pagnini, fino ai Promessi sposi del Manzoni, non senza passare da un sonetto del Burchiello e da una satira dell’Ariosto. Ora il traguardo è vicino. Ma, prima di raggiungerlo, devo passare (o meglio: mi piace passare) attraverso la lettura de Le avventure di Pinocchio: ciò che, del resto, avevo già preannunciato nel precedente intervento, quando avevo parlato delle tracce importanti lasciate dalla parola ‘veccia’ nella storia letteraria del XIX secolo. Non c’è dubbio, infatti, che Le avventure di Pinocchio siano un testo importante di quella storia.
Carlo Collodi (1826-1890; pseudonimo di Carlo Lorenzini) pubblicò questo libro nel 1883, rimaneggiando e riadattando la storia del burattino di legno che aveva già pubblicato a puntate nel 1881 sul «Giornale per i bambini». Riproduco i brani qui sotto dalle pagine della prima edizione del libro (Firenze, Paggi, 1883). Essi si riferiscono al momento in cui Pinocchio è alla ricerca di Geppetto il quale, a sua volta, si era messo in mare per cercare lui. Come giungere al mare? Pinocchio trova un aiuto insperato in un colombo che, niente meno, se lo carica sul dorso.
Cap. XXIII
Volarono tutto il giorno. Sul far della sera, il Colombo disse:– Ho una gran sete!– E io una gran fame! – soggiunse Pinocchio. – Fermiamoci a questa colombaia pochi minuti; e dopo ci rimetteremo in viaggio, per essere domattina all’alba sulla spiaggia del mare. Entrarono in una colombaia deserta, dove c’era soltanto una catinella piena d’acqua e un cestino ricolmo di veccie. Il burattino, in tempo di vita sua, non aveva mai potuto patire le veccie: a sentir lui, gli facevano nausea, gli rivoltavano lo stomaco: ma quella sera ne mangiò a strippapelle, e quando l’ebbe quasi finite, si voltò al Colombo e gli disse:– Non avrei mai creduto che le veccie fossero così buone! – Bisogna persuadersi, ragazzo mio, – replicò il Colombo, – che quando la fame dice davvero e non c’è altro da mangiare, anche le veccie diventano squisite! La fame non ha capricci né ghiottonerie!
Poco dopo, dopo una notte passata a nuotare, sempre alla ricerca di Geppetto, approdato miracolosamente su un’isola e, qui, arrivato nel “Paese delle api industriose”, Pinocchio è ancora una volta morso dalla fame:
Cap. XXIV
Intanto la fame lo tormentava; perché erano oramai passate ventiquattr’ore che non aveva mangiato più nulla: nemmeno una pietanza di veccie.
Le avventure di Pinocchio sono un testo tanto importante quanto popolare: è da escludere che il suo autore abbia voluto usare una parola rara. Al contrario, qui la parola ‘veccia’ compare proprio perché popolare. Il Collodi ha forse un vago ricordo della traduzione che il Pagnini aveva fatto della Satira II,vi di Orazio? È probabile. Le ‘vecce’ hanno per Pinocchio la stessa funzione che hanno per il topo di quella satira: placare la fame senza «capricci né ghiottonerie»; sono proprio il cibo povero del quale il topo di campagna si accontenta pur di vivere tranquillo. Come tanti altri intellettuali suoi contemporanei, anche il Collodi può aver letto Orazio nella traduzione del Pagnini; anzi, magari lo avrà studiato a scuola dato che aveva frequentato cinque anni di seminario a Colle Val d’Elsa e aveva completato il suo percorso di istruzione alle Scuole pie S. Giovannino di Firenze: istituti nei quali i testi del padre carmelitano Pagnini dovevano essere tra quelli più accreditati per la formazione linguistica (in latino e in italiano) e morale dei giovani. Il Collodi aveva certamente letto i Promessi sposi. E tuttavia, sia che avesse letto entrambe le opere sia che ne avesse letto una soltanto, c’è, a mio parere, un indizio che ci avverte di come l’autore di Pinocchio abbia voluto segnare una differenza rispetto a esse: l’uso della forma «veccie». Avete visto qui sopra che io ho sempre usato ‘vecce’ come forma plurale di ‘veccia’; e così pure hanno fatto, a suo tempo, il Pagnini e il Manzoni (trovate qui le rispettive citazioni). La forma ‘vecce’ è coerente con l’uso ortografico che si è venuto affermando tra Otto e Novecento e che è stato infine fissato come norma nel 1949[1]. Ma Carlo Collodi, nella prima edizione del suo Pinocchio[2], scrisse «veccie». Nessuno ha pensato finora che l’uso di questa forma fosse il frutto di una scelta stilistica. Ma, domando: se non fosse stata una scelta stilistica, perché il Collodi avrebbe scritto in quel modo? Perché era ignorante? Niente affatto. Anche per effetto della solida formazione della quale ho detto qui sopra, era un dotto cultore della lingua italiana ed era ben conosciuto come tale. Nel 1868, infatti, il ministro dell’Istruzione pubblica Emilio Broglio, quando formò una commissione di studiosi con l’incarico «di preparare tutti i provvedimenti e i modi coi quali si possa aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua», inserì il Lorenzini come «membro straordinario della giunta che avrebbe avuto il compito di compilare il vocabolario dell’uso fiorentino» [3]. Il Collodi sapeva perfettamente qual era l’uso considerato regolare per l’ortografia di quel plurale. Tanto è vero che, in quella stessa prima edizione de Le avventure di Pinocchio, rispettò quell’uso scrivendo «bucce» (parecchie volte, pp. 32 e 33), «figuracce» (p. 63), «risatacce» (p. 136). Allora, una sola conseguenza si può trarre, anche se finora non mi risulta che nessuno ci abbia pensato: che egli abbia scritto «veccie», con singolare e consapevole perseveranza, per distinguere le sue ‘veccie’ veramente popolari dalle ‘vecce’ che aveva trovato nella traduzione oraziana del “letteratissimo” sacerdote Pagnini, che pur parlava soltanto dell’alimento di un topo, e da quelle che aveva trovato nel romanzo del non meno “letterato” Manzoni, che pure aveva attribuito i discorsi in cui esse compaiono a personaggi appartenenti al popolo. Guardate dove ci porta il nostro viaggio in compagnia del topo di Orazio!
A queste considerazioni bisogna aggiungere il fatto che Carlo Collodi non fu il solo, in quel periodo, a usare la forma plurale «veccie». Niente affatto. Una ventina di anni dopo la pubblicazione de Le avventure di Pinocchio, a usare quella stessa forma fu, niente meno, un professore: professore al liceo dal 1882 e all’Università dal 1896: parlo di Giovanni Pascoli.
Siamo alla fine del 1903. Proprio all’inizio di quell’anno, il Pascoli, già molto noto per la sua raccolta Myricae (1891; arrivata nel 1996 alla terza edizione), aveva pubblicato i Canti di Castelvecchio. La sua fama non era certo inferiore a quella del suo maestro Carducci. Nel 1897 aveva pubblicato una raccolta, Poemetti, che raccontava (con molte divagazioni), in terzine dantesche, le vicende di una famiglia di contadini, padre, madre e quattro figli, due maschi, Nando e Dore, e due femmine, Rosa e Viola: una famiglia come tante altre nelle campagne tra la Toscana e la Romagna. Dopo avere già incrementato quella raccolta in una seconda edizione nel 1900, il poeta aveva deciso di ampliarla in modo consistente tra la fine del 1903 e l’inizio del 1904, modificandone anche il titolo in Primi poemetti perché aveva già in mente di aggiungere a essa una successiva raccolta di Nuovi poemetti (che sarebbe uscita nel 1909), sempre imperniata sulle vicende di quella immaginaria – ma realistica – famiglia. Una delle aggiunte ai Nuovi poemetti fu la sezione Le armi, dedicata, non agli ordigni bellici, ma agli strumenti del lavoro contadino[4]. In questa sezione si fa sentire con particolare insistenza l’intenzione del poeta di riprodurre i linguaggio popolare, intenzione già chiara nelle precedenti sezioni nelle quali, per esempio, il padre di quella famiglia colonica viene spesso chiamato «il capoccio». La sezione Le armi comincia con un verso che è già esemplare in questo senso: «”Nando!” al su’ omo disse il babbo “Nando! / […]”», dove il «su’ omo» è ‘il suo figlio maggiore’. Ma, ecco, nei versi dedicati alla «frullana», termine doppiamente popolare, se così si potesse dire[5], il riferimento a coloro che, già «prima dell’aurora» tagliano tutte le erbe del prato, di qualunque tipo esse siano:
[…]È gente
che falcia; taglia tutto, paleino,
loglio, trifoglio, veccie, timi, mente.
In questo caso l’intenzione popolareggiante del Pascoli è evidente in tutto il brano e la forma ‘veccie’ traduce quella intenzione certamente meglio di ‘vecce’, forma ortografica della quale il professor Pascoli era certamente ben informato: tanto è vero che in altri versi della stessa raccolta scrive «brecce» e «frecce» (e così fa anche altrove). È bene aggiungere almeno tre informazioni. La prima: il Pascoli era uno che, quando si trattava di poesia latina, non aveva bisogno di traduzioni; ma non si può escludere che nei suoi studi filologici avesse letto la traduzione che delle Satire oraziane aveva fatto il Pagnini. La seconda: tanti indizi inducono a pensare che avesse letto Le avventure di Pinocchio, anche se era già trentenne quando era uscito il libro di Collodi. La terza: certamente aveva letto i Promessi sposi. Queste «veccie» derivano da qualcuna delle sue letture oppure dalla diretta conoscenza che il Pascoli aveva di tante piante, una conoscenza forse meno “professionale”, ma certo non meno approfondita di quella che, nel precedente intervento, abbiamo riscontrato nel Manzoni “fattore” della tenuta di Brusuglio? Purtroppo a questa domanda è quasi impossibile rispondere, ma il dubbio che le letture abbiano, per così dire, rinforzato la conoscenza diretta delle piante è, almeno, legittimo. Così come è legittimo pensare che anche il Pascoli, come il Collodi, abbia voluto segnare una differenza rispetto a quei precedenti e che lo abbia fatto con l’uso di una forma ortografica antiquata, sì, ma proprio per questo “popolare”.
Tutto questo sembrerebbe confermato dal fatto che il Pascoli insiste. Di «veccie» ci parla anche in un’altra opera, i Poemi conviviali, pubblicati in quello stesso 1904. In questa raccolta egli reinterpreta o rivisita, in endecasillabi sciolti, alcuni grandi miti. In particolare, nei Poemi di Psyche racconta la prima delle prove alle quali la fanciulla Psiche fu sottoposta, secondo il racconto di Apuleio (125 ca – 180 ca)[6], dopo la sua forzata separazione da Amore. Il compito al quale attende è quello di separare gli uni dagli altri vari semi mischiati in un unico grande mucchio (vd. la nota 6):
E tu devi, d’un mucchio alto di semi,
far tanti mucchi, e sceverare i grani
d’orzo, i chicchi di miglio, le rotonde
veccie, i bislunghi pippoli di rena.
E come fine polvere di ferro
sparsa per tutto il mucchio è la semenza
dei papaveri. E tu, Psyche, tu gemi
[…].
E piangi, ed ecco vengono le figlie
dell’alma Terra, frugole e succinte,
dalla pineta dove a Pan selvaggio
frangean tra gli aghi dei pinastri il suolo.
Non so chi disse alle operaie nere
di Pan la cosa. Ma si fa d’un tratto
un brulichìo per l’odorata selva;
e sgorgano esse a frotte dai minuti
lor collicelli, mentre Pan nell’ombra
s’addorme al canto delle sue cicale.
E salgono alla casa, onda su onda,
fila incessante di formiche, ed opre[7]
vengono a te; ma prima i grani d’orzo,
pesi, e i bislunghi pippoli di vena
portano, due di loro uno di quelli;
fanno le veccie di tra il biondo miglio,
poi fanno il miglio minimo, poi vanno.
E resta a te la polvere di semi,
di cui ciascuno dal suo nulla esprima
un lungo stelo e il molle fior del sonno.
Anche qui, in un’opera nella quale, in generale, non indulge al linguaggio popolare, tuttavia il Pascoli, quando parla di erbe, lui che, come ho già ricordato, le conosceva bene e le amava, tende a indicarle con quelli che chiamerei affettuosi richiami ai modi di dire popolari: non si può considerare altrimenti una espressione come «i bislunghi pippoli di vena» che sostituisce, addirittura con un vocabolo “infantile”, «gli allungati chicchi di avena». Per questa ragione, anche nei Poemi conviviali, come nei Primi poemetti (opere, d’altronde, pubblicate quasi contemporaneamente) le «veccie» appaiono nella loro forma plurale ortograficamente non aggiornata, ma, come ho già detto, più corrispondente a un modo “popolare” di pensarla scritta.
Che viaggio abbiamo compiuto! Ma non siamo ancora arrivati al traguardo. Dobbiamo seguire un ultimo zig-zag di questa parola povera e umile come il legume che indica, eppure capace di attraversare senza stancarsi secoli di letteratura. L’ultimo zig-zag ci porta – l’avevate capito sin dall’inizio? – a Eugenio Montale.
Montale usa la parola «veccia» in una delle sue poesie più belle e famose, Meriggiare pallido e assorto, pubblicata nella prima edizione degli Ossi di Seppia (Torino, Gobetti, 1925), ma uscita in realtà già nel 1924 (nella rivista «Il Convegno»). Dato che il poeta usa «veccia» al singolare, qui non si tratta più di stabilire se il poeta abbia voluto farci vedere la forma popolare di una parola che indica un’erba: tra l’altro, l’insieme del componimento indica piuttosto chiaramente la sua volontà di usare parole rare; il contrario della scelta stilistica del Collodi e del Pascoli. Quello che importa, rispetto all’uso montaliano di questa parola, è stabilire se per caso il poeta, mentre la scriveva, non abbia avuto presente uno dei tanti testi che ho citato fin qui nei miei tre interventi sul topo di Orazio.
Partiamo da una data: il 1916. Il poeta stesso ha affermato [8] di aver composto Meriggiare pallido e assorto nel 1916. Siamo appena dodici anni dopo l’uscita dei Primi poemetti e dei Poemi conviviali del Pascoli. Proprio in quel 1916 Montale, subito dopo il suo diploma di ragioniere (1915), aveva cominciato a frequentare le biblioteche di Genova insieme a (e, forse, con la guida di) sua sorella Marianna, che stava per iscriversi alla facoltà di Lettere e Filosofia. Inutile dire che, a parte Gozzano[9], i due poeti più famosi alla cui lettura il ventenne Montale poteva pensare di dedicarsi in quelle biblioteche erano D’Annunzio e Pascoli: entrambi amanti, è bene ricordare (soprattutto il primo), del nome “meriggio” e del verbo “meriggiare”. Ma, prima di continuare, leggiamo Meriggiare pallido e assorto.
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Non mi soffermo qui sull’intera poesia (potete ascoltare in questo video un mio intervento in proposito). Quello che importa, arrivati al traguardo del mio lungo viaggio a zig-zag, è verificare se la «veccia» che compare in questi versi deriva soltanto dalla osservazione che Montale fa del paesaggio e dalla sua conoscenza delle piante (che, per quanto ne sappiamo, non era minimamente paragonabile a quella del Manzoni o del Pascoli) o se invece non risenta in qualche modo di un rimbalzo proveniente da uno dei testi che abbiamo seguito fin qui.
In questo caso è il poeta stesso, il ventenne Montale imbevuto di recenti letture, a darci un indizio decisivo. La sua «veccia» ha qualcosa in comune con le «veccie» del Poema di Psyche: «le file di rosse formiche». Formiche che, nei versi pascoliani erano nere, va bene, ma che, proprio come in quei versi, sono colte nell’atto di uscire tutte insieme (Pascoli scrive: «a frotte»; Montale sottolinea le «file») da quei piccolissimi monticelli di terra che segnano il punto di accesso di un formicaio. Quei piccolissimi monticelli il Pascoli li chiama, con parola “popolare” «collicelli» e il Montale, con termine desueto e coltissimo, «biche». Ma la scena è la stessa.
Si possono avere dubbi? In questo caso non direi. Montale, forse, ha davvero visto la veccia in qualche prato incolto, ma la «veccia» che compare nei suoi versi gli viene da Pascoli, e le formiche, rosse o nere che siano, camminano, «a frotte» o in «file», niente meno, da L’asino d’oro di Apuleio. Se e così – e credo proprio che sia così – la poesia di Montale Meriggiare pallido e assorto la possiamo considerare l’ultimo bersaglio colpito da quella pallina di flipper partita quasi duemila anni prima dai versi di Orazio.
L’ultimo bersaglio? Ma no. Quella pallina sbatterà ancora chissà dove, chissà quando, chissà quante altre volte. Che bellezza! _____