Che cosa fa la poesia? [3] Oltre Esiodo:
comincio a dirvi io che cosa fa

Nei miei due precedenti interventi su questo argomento (qui si può leggere il primo e qui il secondo) sono andato a cercare la risposta a alla domanda su che cosa fa la poesia nelle origini del fare poetico. Ho quindi riletto i primi versi della Teogonia per ricavarne quello che Esiodo ci dice in proposito, in modo implicito ed esplicito. Sì, perché io penso che la poesia fa tre cose. E la prima di queste tre cose è appunto quella di cui ci parla Esiodo in quei versi.

Ma intanto è bene che io ricordi che cosa ho scritto nei miei primi due interventi. In primo luogo ho notato che, con il suono della parola, Esiodo, attraverso ciò che dicono le Muse, “nomina”, conferisce un nome a ciò che è: nel dire delle Muse, infatti, la parola poetica ha la forza di aggiungere un nome al nome degli dei, ri-definisce, ri-crea gli dei in modo che possano essere riconoscibili dagli uomini non come loro creatori, ma come loro creature. Proprio perciò il suono di questa parola è capace di esprimere per Esiodo un rapporto diretto con l’assoluto, di raccogliere «l’alito divino» e di conferire al poeta la capacità di disvelare il vero sul manifestarsi dell’essere nel tempo: il tempo degli dei («che non hanno destino di morte» e dunque sono eterni, ma anch’essi non si sottraggono a una “storia”, a un tempo, lungo il quale scorrono le loro azioni) e il tempo delle esperienze umane che, per la loro stessa natura, sono necessariamente temporali.

Ecco dunque la prima delle tre cose che la poesia fa: attraverso il suono della parola, disvela ciò che è nel suo dispiegarsi lungo il tempo.

Ma questa prima cosa che la poesia fa richiede necessariamente una precisazione e io ho difatti concluso il mio secondo intervento con una inevitabile domanda – diciamo così – secondaria, o conseguente: che differenza c’è tra il poeta e il filosofo? La risposa a questa domanda non può che essere netta: poesia e filosofia hanno sì lo stesso oggetto, ciò che è, ma l’ἐπιστήμων, il φιλόσοφος, è colui che ama contemplare la verità nella φύσις, cioè nella natura, concepita sia come il “ciò che è” originario dell’universo, sia come l’insieme di ciò che è. Per far questo, l’ἐπιστήμων verifica necessariamente l’alterità della φύσις rispetto a lui e, ponendosi di fronte a tale alterità, indaga su “che cosa è ciò che è”.
Il ποιητής fa il disvelamento di ciò che è attraverso la sua capacità di entrare nel tempo di ciò che è, fa – che lo voglia o no – il disvelamento della contraddizione insanabile tra il tempo e ciò che è, anzi precipita dentro questa contraddizione e lo fa confondendosi con il mito, con l’immagine (una delle possibili immagini) di «ciò che è e ciò che è stato» e, quindi, prestando al mito, dall’interno, il suono della sua parola.

Questo straordinario “fare” del poeta – che Esiodo afferma con assoluta chiarezza alle origini stesse della poesia – è stato poi misconosciuto nel corso dei secoli per il prevalere della posizione platonica. Platone nega infatti la possibilità che il poeta possa disvelare il vero e afferma anzi una divergenza irrecuperabile tra pensare (= cercare il vero con il ragionamento: l’unico modo possibile) e poetare (= allontanarsi dal vero attraverso una sorta di infiammato furore). Oggi questa interpretazione della concezione platonica della poesia è messa da più parti in discussione, ma non c’è dubbio che proprio questa concezione – o comunque il modo in cui la tradizione l’ha interpretata dall’antichità fin quasi ai giorni nostri – è all’origine del pregiudizio secondo il quale il pensiero (quello del filosofo) pensa e dunque può accedere alla conoscenza, mentre la poesia segue una ispirazione che è altro dalla conoscenza e ad essa non può accedere.
Naturalmente, tutto questo vale fino a Heidegger, nel quale, lungo una linea di riflessione che è già in nuce in Leopardi, il poeta ritrova la sua dignità di disvelatore – a suo modo e con i suoi peculiari strumenti – di verità e questo suo atto del disvelare non è altro dal pensiero, è, come scrive Heidegger, «pensiero poetante».

Ho concluso il mio secondo intervento con una importante considerazione a proposito di ciò che unisce e ciò che divide il poeta e il filosofo. Entrambi, come suggerisce Daniele Guastini (Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 16) citando Aristotele, partono da un’esperienza di θαύμα (meraviglia), di reazione di fronte a qualcosa che non si sa: «Chi prova un senso di dubbio o di meraviglia avverte di non sapere (per questo colui che ama il mito è in qualche modo filosofo: infatti il mito è composto da cose che destano meraviglia)».
Le parole di Aristotele citate da Guastini ci portano in realtà a vedere, non una somiglianza, ma un altro aspetto della diversità tra ποιητής ed ἐπιστήμων: il primo, in quanto tramite del rapporto tra suono, tempo ed essere, in quanto “trasferitore” di suono e di tempo, di tempo e di suono nel disvelamento di ciò che è, in quanto immerso in questo rapporto, non esce dalla meraviglia, risponde al θαύμα del non sapere con il θαύμα del disvelare; il secondo, che al contrario prende le distanze dall’oggetto della sua ricerca, risponde al θαύμα del non sapere con il λόγος, con un procedimento che, attraverso la parola, verifica il pensiero.

Proprio questo restare del disvelamento del poeta all’interno di una condizione di θαύμα ci porta alla seconda questione che voglio affrontare; θαυμάζειν, che per ora traduciamo approssimativamente con “meravigliare”, è esattamente la seconda cosa che fa la poesia.

Ma di questo scriverò in un prossimo intervento.

Centrali nucleari: vogliamo spegnerle tutte

Un quotidiano di destra, la destra seria (quella che c’era prima dell’era berlusconiana e che forse riuscirà a esserci anche dopo), titolava ieri la prima pagina con una domanda altrettanto seria: «Volete spegnerle tutte?». Si riferiva, evidentemente, alle centrali nucleari e alla paura determinata dalla situazione in Giappone. La risposta, anch’essa assolutamente seria, è: sì, vogliamo spegnerle tutte. Perché siamo uomini.

E ora vi spiego come io vedo il fatto, il perché e il per come.
I reattori attivi nel mondo – ci dice l’International Nuclear Safety Center – sono 442. Sono distribuiti in 29 paesi, alcuni dei quali dipendono dal nucleare per oltre il 50% della loro produzione energetica. Ma, complessivamente, l’energia generata da questi 442 reattori è pari al 3% di quella prodotta nel mondo.

Se si guarda al totale, si può dire allora che, facendo a meno delle centrali nucleari, il mondo continuerebbe a produrre il 97% dell’energia che gli serve. Se poi si guarda al futuro prossimo (la fine di questo XXI secolo), bisogna aggiungere che, in ogni caso, quelle centrali chiuderebbero per mancanza di materia prima. L’uranio, infatti, non è infinito. Se vogliamo essere precisi, si tratta dunque soltanto di anticipare i tempi, ciò che vale, d’altronde, anche per la produzione di energia da fonti fossili, anch’esse non infinite.
E questo è il fatto.

Ora veniamo al perché. Anzi, ai perché.
Uno. La scienza (parlo di quella per usi pacifici) si è da sempre sviluppata in un consapevole rapporto tra innovazione e rischio. Consapevole, perché il rischio è sempre stato correlato ai benefici che l’innovazione poteva comportare e ha riguardato, nella storia umana, la vita di alcune (o anche di molte, ma non innumerevoli) persone o possibili danni materiali anche prolungati nel tempo di alcuni (o anche di molti, ma non innumerevoli) anni. Nel caso dei reattori nucleari, questa correlazione si è persa. In questo caso, per quanto grandi possano essere i benefici, i rischi riguardano quantità enormi di persone in tutto il pianeta e gli eventuali danni (per esempio quelli già provocati dai vari incidenti “non gravi” avvenuti nel corso dei decenni nelle varie centrali nucleari) si estenderanno per molte decine di migliaia di anni.
Ma vi è un secondo perché: la “ordinaria gestione” delle centrali nucleari (comprese quelle di ultima generazione delle quali si prospetta l’istallazione in Italia), a causa dell’ancora irrisolto problema del riprocessamento e della conservazione delle scorie, determina conseguenze di estremo pericolo che possono arrivare a 240.000 anni e, per certi materiali, fino a circa un milione di anni. Sono rimasto molto colpito quando ho avuto notizia degli studi su come comunicare tale pericolo ai nostri discendenti, considerato che nessuna lingua umana ha mai superato la durata di qualche migliaio di anni (ammesso e non concesso che un sito di stoccaggio sia davvero sicuro per un periodo così lungo). L’ho anche accennato in una poesia del 2006, Via Retarola:


[…] Attraversare
il tempo non sarà
facile, ma avverrà, come sempre è avvenuto, e noi
non sappiamo che cosa lasciare scritto
– e in che lingua – a chi vivrà per maledirci o forse
non vivrà neppure e non potrà
profanare i nostri cimiteri e seppellire mostri
e schernire un eterno riposo tanto breve.


Infine, c’è un terzo perché. La gestione delle centrali nucleari implica un potere politico forte, in grado di impegnare una quantità enorme di risorse finanziarie per molti anni (a proposito: il quarto perché, su cui non mi dilungherò, riguarda il costo) e di tacitare in un modo o nell’altro chi solleva problemi; e un potere economico e industriale fortissimo, quello delle poche aziende al mondo – le dita delle due mani sono decisamente troppe per contarle – che sono in grado di costruirle e di mantenerle e reggono così il destino di interi popoli: un accentramento di poteri che necessariamente confligge con la democrazia e piace invece a tutte le autocrazie o aspiranti tali. Non a caso c’è spesso un massiccio strato di ideologia sotto il sostegno apparentemente “tecnico” alla soluzione nucleare del problema energetico.

Ma è tempo di passare al “per come”. Insomma, come si fa a sostituire quel 3% di energia mondiale prodotta senza distruggere né le economie dei paesi che ne dipendono (penso alla Francia: guardate la cartina!) né quelle dei paesi che dovrebbero aiutarli? In questo caso le risposte sono soltanto due.
Una. Un accordo mondiale su una exit strategy dal nucleare. Mentre sto scrivendo, Nicolas Sarkozy, dichiara che convocherà una riunione del G20 – del quale la Francia ha la presidenza di turno – per discutere delle opzioni energetiche. La mia non è dunque l’utopia di un visionario. Questo accordo mondiale dovrebbe prevedere una fase di circa dieci anni di progressiva dismissione delle centrali nella quale i paesi non nucleari esporteranno una parte dell’energia da loro prodotta per compensare la mancata produzione delle centrali in via di spegnimento.
Due. Una immediata revisione degli accordi sulle emissioni di anidride carbonica che preveda, ancora una volta a livello mondiale, un gigantesco impegno finanziario a favore della produzione di energia rinnovabile diffusa. Il principio dell’energia rinnovabile diffusa, sostenuto tra gli altri da Jeremy Rifkin, è quello della rete, molto simile a quello con cui funziona internet. Ciascuno produce l’energia che gli serve e immette nella rete quella eccedente. Sole, vento, correnti oceaniche, biomasse, idroelettrico, geotermico: tutte le fonti rinnovabili devono essere utilizzate per produrre l’energia che serve a privati e aziende e tutte le risorse della ricerca scientifica devono essere rivolte in questa direzione per raggiungere i due grandi obiettivi dello spegnimento di tutte le centrali nucleari e della fine dell’uso dei combustibili fossili. È evidente, tra l’altro, che la produzione diffusa di energia da fonti rinnovabili, per il principio della rete, difficilmente può essere messa in difficoltà da un evento naturale, per quanto catastrofico. Se da una parte venisse meno la produzione, da altri milioni di “produttori” continuerebbe a essere immessa energia nella rete.

Una prospettiva come questa ha molte buone ragioni per essere perseguita. Quelle economiche lasciano intravedere una ripresa basata su un settore destinato a toccare nel tempo tutti gli abitanti del pianeta. Quelle politiche ci dicono che, nell’ambito di una governance mondiale, questo modo di produrre energia non solo non confligge con la democrazia, ma può diventarne una struttura portante. Quelle sociali hanno a che vedere con il risparmio di energia e dunque con un modo diverso (ma chi dice che sarà peggiore?) di affrontare la questione dei consumi.

Siamo uomini. Sappiamo bene che per la natura l’intero genere umano non è necessario:


Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.


Giacomo Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese

Ma, a differenza degli altri esseri animati che popolano il pianeta, siamo capaci di guardare lontano con gli occhi della mente. E questo sguardo può abbracciare i millenni, le decine e le centinaia di millenni e può ancora vedere uomini su questo pianeta. Siamo uomini: perciò possiamo pensare gli altri uomini di un futuro anche lontanissimo; possiamo non sapere come saranno, ma possiamo pensarli. Per questo dovremmo considerare mostruoso questo mezzo secolo nel quale ci siamo lanciati nel cosiddetto “nucleare di pace”, a volte – e forse è proprio il caso dei giapponesi – in buona fede; nel quale abbiamo parlato della “sicurezza” dei reattori per nascondere il nostro odio del futuro; nel quale abbiamo deciso di vivere divorando i nostri figli. Dovremmo considerare mostruoso questo mezzo secolo nel quale abbiamo costruito centinaia di centrali nucleari.
Siamo uomini. Per questo vogliamo spegnerle tutte.

Che cosa fa la poesia? [2]
Cerchiamo una risposta ancora nei versi di Esiodo

Nel mio precedente intervento su questo tema ho cercato di spiegare perché ha senso porsi la domanda: “che cosa fa la poesia?” Vorrei aggiungere qui che ha senso, oltre che per il motivo intrinseco che ho già spiegato, anche per uno estrinseco, ma da non sottovalutare per le conseguenze che ne derivano. Questo secondo motivo consiste nel fatto che è praticamente impossibile rispondere a un’altra – purtroppo frequentissima – domanda: “che cosa è la poesia?”. Una domanda che viene posta a quasi tutti i poeti in quasi tutte le circostanze, dagli interventi del pubblico alla fine di una lettura alle interviste degli esperti.
È capitato anche a Franco Fortini di sentirsela porre in un’intervista Rai. E ha risposto come poteva, cioè in modo formale:


[…] si può dire che nel linguaggio umano c’è una funzione che tende a mettere in evidenza soprattutto, o almeno in modo particolare, il linguaggio stesso, ad attirare l’attenzione sulla forma della comunicazione. Ebbene questa è la funzione poetica.


Naturalmente Fortini precisa poi in che cosa consista esattamente questa funzione e introduce da par suo alcune importanti e nuove considerazioni. Ma resta – e non può non restare – sul piano formale. Perché la verità è che sarebbe assurdo chiedere a un falegname: “Scusi, che cos’è la falegnameria?”, cioè la sua specifica “arte del fare”, quando basterebbe chiedergli: “Scusi, ma lei, con la sua arte, che cosa fa?”. E poiché ποíησις è un fare, perché mai domandarsi che cosa è quel fare quando è tanto più semplice – e, come vedremo, più produttivo – domandarsi e domandare, appunto, che cosa fa.

Per rispondere a questa domanda (e non all’altra) sono risalito alle origini e ricorderete che ho cominciato a rileggere Esiodo, con quei suoi straordinari primi versi della Teogonia nei quali la leggerissima danza delle Muse ci parla con tutta evidenza della leggerezza della parola poetica. Leggiamo ora poco più di altri venti versi della Teogonia (si parla sempre delle Muse):


Andate via di là, dentro a una nebbia
densa camminavano insieme nella notte e lasciavano andare
la voce bellissima per levare inni
a Zeus splendido dell’egida e a Era, signora
argiva che va con calzari dorati,
e alla figlia di Zeus splendido dell’egida, Atena dagli occhi
luminosi d’azzurro e a Febo Apollo e ad Artemide che dardi
effonde e a Poseidone che possiede la terra e alla terra
causa sussulti e a Temi che dobbiamo onorare
e ad Afrodite dagli occhi
fulminanti e a Ebe dalla corona
d’oro e alla bella Dione
e a Leto, a Iapeto, a Crono dai mille raggiri,
a Eos, al grande Elio, a Selene lucente, a Gaia, al grande
Oceano, alla nera
Notte e alla sacra
stirpe di tutti coloro
che non hanno destino di morte e che sono in eterno.
Sono state loro che a Esiodo una volta
hanno insegnato come fare bei canti, mentre alle pendici
del divino Elicona portava
le pecore al pascolo. E a me prima di tutto
queste parole dissero
le dee, Muse dell’Olimpo, figlie di Zeus splendido dell’egida:
«Pastori, che vivete
nei campi e nell’avvilimento, nient’altro che stomaco, noi
sappiamo dire molte cose false che sono
simili a quelle vere, ma noi
sappiamo, quando lo vogliamo, cantare cose che il vero
disvelano».
Questo dissero le figlie del grande Zeus, dal parlare
compiuto e al posto del bastone mi offrirono un ramo
rigoglioso di alloro che avevano
appena raccolto, bellissimo; e mi ispirarono
il suono della parola che raccoglie
l’alito divino perché io celebrassi ciò che sarà e ciò che è stato
e mi ordinarono di levare inni alla stirpe
dei beati che sono in eterno,
ma cantare proprio loro per prime e per ultime, sempre.


In questi versi (9-34) Esiodo ci fa capire altre cose che si aggiungono – ma non tolgono nulla – a quell’immagine di leggerezza che ci ha così colpiti nei primi otto versi. E sono tutte cose che riguardano il “che cosa fa” la parola poetica.
In primo luogo, “nomina”, cioè conferisce un nome. Nel dire delle Muse, la parola poetica, senza cessare di essere leggera, ha tuttavia la forza di aggiungere un nome al nome degli dei. Questo nome che si aggiunge designa gli dei più del loro stesso nome proprio. È il modo attraverso il quale gli dei vengono, più ancora che ri-definiti, ri-creati, creati in modo che possano essere riconoscibili dagli uomini non come loro creatori, ma come loro creature. Ventisette secoli dopo anche Pascoli riconoscerà al poeta-fanciullino questa capacità di nominare: senza lui, cioè senza il fanciullino, «non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente». «Mette il nome», e dunque ri-crea con la parola, rubando il mestiere a Dio, se così è permesso dire.
In secondo luogo, la parola poetica trasforma chi la dice. Non importa chi egli sia. Nel momento in cui sostituisce al proprio bastone (il fare quotidiano, il fare che serve per vivere) l’alloro (il fare attraverso la parola, che non ha utilità immediata), l’uomo diventa poeta e il suo compito, il compito che lo identifica, diventa far sentire la sua «αὐδήν», il suono della voce, il suono della parola.
Infine – e qui entriamo nel vivo della questione che ci siamo posta – questo suono esprime per Esiodo un rapporto con l’assoluto, «raccoglie / l’alito divino» e conferisce per questo al poeta la capacità di celebrare «ciò che sarà e ciò che è stato».

Che cosa fa dunque, per Esiodo, la poesia? Fa – questo è il senso dei versi che abbiamo letto – qualcosa di molto simile a quello che fa la filosofia. Fa il “disvelamento” del vero riguardo a «ciò che sarà e ciò che è stato» cioè alle esperienze umane – e dunque necessariamente temporali – dell’essere. Ma, allora, che differenza c’è tra ποíησις, ed ἐπιστήμη, tra il fare del poeta e il fare del sapiente (ἐπιστήμων) ? Fanno la stessa cosa?
No. Il ποιητής fa il disvelamento del vero attraverso il racconto del mito, o meglio, attraverso il suo entrare nel mito, attraverso il suo confondersi con il mito; l’ἐπιστήμων, il φιλόσοφος, è colui che ama contemplare la verità nella φύσις (la natura, concepita come essere originario dell’universo, come l’insieme di ciò che è) e, per far questo, verifica l’alterità della φύσις rispetto a lui. Entrambi, come suggerisce Daniele Guastini (Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 16) citando Aristotele, partono però da un’esperienza di θαύμα (meraviglia), di reazione di fronte a qualcosa che non si sa: «Chi prova un senso di dubbio o di meraviglia avverte di non sapere (per questo colui che ama il mito è in qualche modo filosofo: infatti il mito è composto da cose che destano meraviglia)».
C’è, insomma, alle origini del pensiero greco un legame forte tra il fare poetico e la ricerca di τὰ εόντα (ciò che è): il poeta è colui che fa il disvelamento di τὰ εόντα attraverso la sua capacità di confondersi con il mito e, quindi, di dire il mito con il suono della sua parola.

Di tutto questo dovremo ricordarci quando vedremo in che modo questa idea del fare poetico è potuta arrivare fino a noi.
Naturalmente, continua …

L’odore della paura

Perché il Presidente del Consiglio attacca la “scuola di Stato”

La paura ha un odore. È sgradevole, come sanno bene i nostri amici cani, che giustamente se ne offendono e rispondono per le rime. La paura della libertà ha un odore ancora più sgradevole e anche noi umani, con il nostro limitato olfatto, possiamo percepirlo. Da lontano. E a distanza di tempo. È una paura che si osserva bene in chi la libertà la nomina troppo. Perché, chi non ne ha paura, la considera una condizione “normale” del vivere civile e parla di ciò che, posta questa condizione, si dovrebbe fare.

Riferiscono i media che il Presidente del Consiglio ha detto: «Libertà vuol dire avere la possibilità di educare i propri figli liberamente, e liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare principi che sono il contrario di quelli dei genitori».
Certo, c’è in questa frase un tentativo maldestro – ma non si sa mai – di accattivarsi le simpatie della Chiesa e, attraverso di essa, di quel mondo cattolico che i sondaggi indicano come sempre più lontano dal sostegno a un uomo dai costumi non propriamente irreprensibili.
Ma c’è di più: viene fuori da questa frase, senza remore, la vecchia paura che la destra più retriva ha tradizionalmente per l’istruzione di tutti. La “scuola di Stato” (oggi veramente si chiama “sistema pubblico di istruzione e formazione” e comprende le scuole statali e quelle paritarie: la frequenza di queste ultime è finanziata dallo stato) è sempre stata la garanzia che l’istruzione possa essere davvero «aperta a tutti» (art. 34 della Costituzione), e che «libero» vi sia l’insegnamento (art. 33).

Proprio di questo ha paura il Presidente del Consiglio, come sempre hanno avuto paura – ripeto – i peggiori esponenti della destra autoritaria. Naturalmente, c’è anche una destra che non ha mai avuto paura della “scuola di Stato” e che l’ha anzi difesa come presidio di laicità. Ma non è questo il caso. Ha paura il nostro (ahimè!) Presidente che i bambini e gli adolescenti possano crescere pensando con la propria testa, e non con quella dei genitori, o di altri. Ora, proprio il confronto tra opinioni diverse, tra idee diverse della vita, tra pensieri fondati su diversi presupposti culturali (quelli dei genitori e quelli dei vari insegnanti, ciascuno differente dall’altro) fa crescere liberi. E questo tipo di crescita il nostro (ahimè!) Presidente vorrebbe impedire: la sua paura della libertà riguarda l’oggi e il domani.

Viene fuori, anche, da questa frase, una concezione della scuola non statale che fa davvero impressione e che dovrebbe suscitare lo sdegno, anziché solleticare istinti favorevoli, da parte almeno delle scuole cattoliche più serie. Il discorso, infatti, si presume che riguardi principalmente queste scuole, dato che è stato rivolto a un uditorio di “Cristiano riformisti”, partito che io non conoscevo ma che si autodefinisce – ho scoperto – di «donne e uomini cristiani animati da senso civico e che credono fortemente nella possibilità di riscatto della politica solo se essa ha dei forti punti di riferimento morali».
La scuola cattolica
sarebbe dunque, per ovvia deduzione, quella che nelle teste dei giovani ‘inculca principi identici a quelli dei genitori’. E questo sarebbe, secondo il nostro (ahimè!) Presidente, il corretto sviluppo di un processo di crescita culturale: un processo ideologico autoconservativo lungo il quale, se mai dovesse realizzarsi, la storia non riuscirebbe ad andare avanti e, anzi, si incepperebbe in una involuzione raccapricciante. Raccapricciante per tutti coloro che, a destra e a sinistra, vogliono, sia pure con visioni diverse, che un futuro, comunque, ci sia.

Ha parlato a braccio, il nostro (ahimè!) Presidente, e non si è reso conto delle deduzioni che si potevano trarre da quello che diceva. Ma l’odore della paura si sente ogni volta che questa frase viene trascritta sui quotidiani o viene ritrasmessa dalle tv. È talmente sgradevole che, nonostante il freddo, mentre leggevo il giornale, ho dovuto aprire la finestra. E, da vecchio insegnante, mi son sentito di dover rispondere per le rime. Si fa così. Me lo hanno insegnato i miei cani.

Che cosa fa la poesia? [1]
Cominciamo dalle origini

In questo mio primo intervento su «Che cosa fa la poesia?» parto dalla importanza che si deve attribuire al significato originario della parola “poesia”: ποíησις è l’atto del fare, del creare. Naturalmente, non basta affatto affermare questa importanza: il problema nasce non appena cominciamo a pensare alle conseguenze di quel significato. Si ha un bel dire che ποíησις è fare: ma, allora, che cosa fa la poesia?
Una cosa è affermare che quel nome non è un caso. Ricordo di nuovo qui, per la loro chiarezza, le parole, che ho già citato a suo tempo (qui), di Franco Loi : «Perché i greci l’han chiamata ‘fare’? Potevano chiamarla composizione o elaborato o racconto ecc. Ma, come sappiamo da Socrate, le parole antiche sono le più vicine alla sostanza e al senso delle cose. La poesia agisce».
Altra cosa, e decisamente più difficile, è cercare di capire in che modo, concretamente, essa agisca. Che cosa fa?

Per rispondere a questa domanda ci vorranno molti di questi post; ma, come dico nella colonna qui a fianco, e come sa bene chi mi conosce, io non ho fretta. E voi?
Il primo passo che vorrei compiere parte da una serie di riflessioni che ho sviluppato di recente a proposito della poesia “detta”. Sono convinto infatti che il modo giusto per affrontare correttamente la questione che ho posto sia quello di partire dal fatto che l’origine della poesia occidentale come noi la conosciamo è “orale” e che la sua storia, anche quando è stata storia di testi scritti, è sempre rimasta connaturata, non alla lettura di parole scritte con qualsiasi tecnologia su un qualsiasi supporto, ma all’ascolto – magari, in tempi recenti, solo immaginato – del suono di quelle parole. Quando parlo di ciò che la poesia fa, io mi riferisco dunque a ciò che fa con il suono delle parole. Questo sarà evidente soprattutto a conclusione delle considerazioni che qui cominciano, ma sarà anche un filo rosso che mi guiderà e che di conseguenza anche i lettori dovranno cercare di non perdere.

Cominciamo dunque dalle origini.

Propongo una mia traduzione dei primi otto versi della Teogonia di Esiodo. Nella danza delle Muse, il poeta greco (vissuto tra la seconda metà dell’VIII e i primi decenni del VII secolo a.C.) crea una straordinaria rappresentazione della leggerezza della parola.


Cominciamo a cantare delle Muse che abitano
il monte grande e divino Elicona e che all’ombra
azzurra della fonte e all’altare
del potente figlio di Crono con delicati
piedi danzano. Bagnavano
i morbidi corpi nei fiumi
Permesso e Ippocrene e nel divino
Olmeio e riempivano di danze la cima
dell’Elicona: belle e desiderabili sui piedi
velocemente ondeggiavano.


Qualche verso più avanti, però, Esiodo ci insegna che, proprio con quella parola così leggera, la poesia può fare molto. Che cosa fa, dunque, Esiodo con la parola poetica? Ne riparleremo.

Che ciascuno di noi faccia qualcosa

Una poesia di Saba per capire come è (o dovrebbe essere) cambiato
l’immaginario della donna per gli uomini del ventesimo e del ventunesimo secolo

«Che ciascuno di noi faccia qualcosa, perché la somma di questo fare è un grande valore» ha detto Oscar Luigi Scalfaro nell’invitare a sostenere l’appello di Libertà e Giustizia per le dimissioni del Presidente del Consiglio. Ho aderito all’appello, considero giusto e importante quello che ha detto Scalfaro e faccio l’unica cosa che so fare bene. Parlare di letteratura, anzi di poesia. E cercare, così, di capire quello che succede.

Sono passati poco più di cento anni da quando Umberto Saba ha scritto le poesie della piccola raccolta Casa e campagna. Appena cinque poesie scritte tra il 1909 e il 1910 e, tra queste, una che lo stesso Saba riconosce essere la sua più nota e comunque – aggiunge parlando di sé in terza persona nella Storia e Cronistoria del Canzoniere – «se di questo poeta si dovesse conservare una sola poesia, noi conserveremmo questa».

Si tratta della poesia A mia moglie.

Umberto Saba, A mia moglie


Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio.
Così, se l’occhio, se il giudizio mio
non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun’altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.

Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la sua carne.
Se l’incontri e muggire
l’odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l’erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t’offro quando sei triste.

Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d’un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.

Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l’angusta
gabbia ritta al vederti
s’alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?

Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest’arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere:
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un’altra primavera.

Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l’accompagna.
E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun’altra donna.


Anche in questa poesia così “nuova” rispetto alla tradizione italiana Saba subisce tutti gli stereotipi sulla donna propri del suo tempo, in particolare quello della devozione. Ma fa qualcosa che nessun poeta aveva mai fatto. Strappa il velo angelico che dallo stilnovo in poi la poesia colta italiana aveva posto sulla donna – esaltandola, ma al tempo stesso travisandola – e dichiara che lei avvicina a Dio per se stessa, come «tutte / le femmine di tutti / i sereni animali». Non perché è un angelo, insomma, ma perché è una donna, perché appartiene al regno degli esseri “viventi”, prima ancora che “umani” (il «genus omne animantum» del Proemio del De rerum natura di Lucrezio). È nella donna stessa, nel suo fisico “essere viva”, la sua capacità di relazione con l’assoluto.
Che cosa cambia, con ciò?
Dal punto di vista della storia letteraria va a rotoli una plurisecolare tradizione tipicamente italiana che aveva separato l’immagine della “donna poetica” (e la lingua con la quale questa immagine veniva rappresentata) da quella della “donna vera”, in carne e ossa. Non che qualcosa non si fosse mosso anche prima: la donna di A se stesso, in Leopardi, è ben diversa dalla «donzelletta» del Sabato del villaggio. E, nel Natale del 1833, il Manzoni si ribella addirittura con violenza a quell’assoluto (il Dio cristiano, per lui) che ha consentito il venir meno della presenza fisica della moglie Enrichetta dal suo fianco (leggi qui). Ma sono episodi. Piccoli vortici. La corrente andava in un’altra direzione. Ora, con Saba, la corrente viene deviata da una diga. La poesia A mia moglie fa scandalo. La moglie stessa di Saba, in un primo momento, se ne offende. Benedetto Croce la legge con orrore e rimprovera a Saba (senza degnarlo di una lettera, ma scrivendogli una cartolina postale) che le sue poesie «mancano di qualunque elaborazione formale».

Il fatto è che intanto stava cambiando il mondo, oltre che dal punto di vista politico (la crisi degli imperialismi), anche da quello antropologico. Cominciava così a cambiare, tra l’altro, la prospettiva dalla quale l’uomo guardava all’immagine della donna. Qui non si parla dei poeti (certo, durante Stilnovo, l’immagine della donna angelo serviva a proiettare verso il più alto livello possibile l’idea stessa del fare poesia, era una scelta di politica culturale), ma si parla del senso comune. Ebbene, nel senso comune, la figura angelica della donna era servita e continuava a servire come alibi. La donna finiva facilmente per sdoppiarsi nell’immaginario maschile: da una parte l’angelo, la donna che (al contrario di quanto accadeva per i poeti: ecco dunque la necessità di distinguere) prima o poi si sarebbe sposata, ma non si toccava fino al matrimonio e si toccava poco anche dopo. Dall’altra, il diavolo, colei che soddisfaceva gli istinti, fosse l’amante “stabile”, come accadeva per gli strati più alti della società, o la prostituta del postribolo, che “serviva” un po’ a tutti.

La poesia di Saba è un primo – provvisorio e ambiguo, ma certo – sintomo di questo cambiamento del punto di vista. Non c’è nessun angelo. E dunque non è necessario nessun diavolo. Le vicende esistenziali del poeta, che verranno dopo, sembrano smentire questa nuova prospettiva, ma non è così. In quella pollastra, giovenca, cagna, coniglia, rondine, pecchia si avverte proprio il cambiamento in corso. Non cambia ancora la storia degli atti personali, forse, ma certamente quella dell’immaginario collettivo di una parte del mondo.
Il cambiamento che allora cominciava appena ad avvertirsi nell’aria si è poi sviluppato nel Novecento. Tanto che oggi non c’è più nessuna cultura che consideri “normale” il fatto che il buon padre di famiglia, per non offendere i sentimenti e il pudore dell’angelica moglie, si tolga qualche sfizio al bordello dove, chi ci andava, andava con gli amici, faceva conversazione, non aveva timore di mostrarsi. Oggi, chi lo fa, lo fa di nascosto. Se c’è un gruppo di persone che lo fa senza che ciascuno abbia timore di farsi vedere dagli altri, il senso comune le considera depravate.
Ma, si sa, la storia non va diritta per la sua strada: fa strade tortuose e a volte torna indietro. Ad Arcore è tornata indietro, si dimostrino o no reati e pagamenti (ma la vicinanza al potere una volta ripagava di per sé: non c’era bisogno di ragionieri). La storia del modo in cui l’uomo entra in rapporto fisico e di idee con la donna è purtroppo tornata indietro da tempo in mille tv, o comunque in quelle contano, nelle quali la “donna-diavolo” occhieggia con il corpo bene in mostra e sottintende che da qualche parte, proprio lì, davanti ai televisori, qualche “donna-angelo” sta facendo la sua parte di brava moglie mentre il marito sbava e sogna di essere lui il padrone della tv che certamente, o prima ha messo, o dopo metterà le mani su quei corpi e potrà così allontanare la sua ossessiva paura della morte. Questo è il danno peggiore che il paese riceve da un circolo vizioso di potere, media, soldi, cortigianeria. Questo è il danno peggiore perché il senso comune è trascinato all’indietro da chi dovrebbe governare, oltre che le istituzioni e l’economia, anche la cultura. Ogni giorno che passa è dunque un passo indietro. È un rogo di saperi e pensieri che pensavamo fossero consolidati, non di destra o di sinistra, ma semplicemente nostri, appartenenti al nostro patrimonio di idee. Tali da costituire, per ciò stesso, una base di speranza. Ogni giorno che passa con questo Presidente del Consiglio è dunque un passo indietro della speranza. Ne siamo tutti, uomini e donne, mortificati e offesi. Ma molti, per fortuna, ne sono anche indignati.

Dieci anni di Wikipedia

Mi unisco alle celebrazioni per i dieci anni di Wikipedia, di cui sono un piccolo ma convinto “donor”, con la citazione di una similitudine tanto bella quanto convincente di Kevin Driscoll, dj ed esperto di new media:


L’unica cosa che, nella mia esperienza di vita, posso pensare in un certo modo simile a Wikipedia fuori da internet è quando capita che voi andiate sulla spiaggia e che lì vi sia un gruppo di persone intente a fare un castello di sabbia. E voi potete giusto aggiungervi e cominciare a fare un’altra parte del castello e poi collaborare insieme con tutti. E allora altri possono pensare qualcosa come “oh quei tipi stanno facendo un enorme castello di sabbia”. E allora anche loro si lasciano coinvolgere e la situazione finisce per ingigantirsi tanto che voi non potete più chiedere i nomi delle persone. Intanto continuate a lavorare al castello tutti insieme. E nessuno è il proprietario di quel castello di sabbia. Voi lo costruite tutti insieme e tutti ne siete orgogliosi. E tutti voi beneficiate ciascuno del lavoro dell’altro così che potete realmente ciascuno contare sull’aiuto di ciascun altro. E Wikipedia è come quel castello di sabbia, salvo il fatto che nessuna onda dell’oceano arriverà per cancellare Wikipedia.


Due poesie di Pascoli

La neve: un’immagine “leggera” del confondersi di vita e morte

Passati i giorni di Natale e Capodanno, passati i giorni della neve, propongo la lettura di due poesie di Giovanni Pascoli che dalla neve prendono spunto, Ceppo e Orfano, tratte dalla raccolta Myricae pubblicata nel 1891 (sono la seconda e la quarta poesia della sezione Creature). Non sono versi di festa. Hanno anzi al centro il tema della morte. Ma questo tema si intreccia con quello del sogno e con alcuni inconfondibili simboli della vita, il giardino fiorito e il fuoco. Il senso di queste due poesie si sposta perciò su un piano diverso.

L’uso della neve come immagine del confondersi di vita e morte, cioè del divenire intorno a noi, è ben più antico di queste poesie: la sua origine è nei bellissimi versi conclusivi del primo capitolo del Triumphus mortis di Francesco Petrarca. Eccoli:


 Pallida no, ma più che neve bianca
che senza venti in un bel colle fiocchi,
parea posar come persona stanca:

 quasi un dolce dormir ne’ suo’ belli occhi,
sendo lo spirto già da lei diviso,
era quel che morir chiaman gli sciocchi:

 Morte bella parea nel suo bel viso.


Come è noto, questa immagine petrarchesca richiama a sua volta un verso di Guido Cavalcanti (nel sonetto Biltà di donna e di saccente core): «e bianca neve scender senza venti»; verso ripreso, prima che da Petrarca, da Dante nel XIV canto dell’Inferno (v. 30): «come di neve in alpe sanza vento». Di questi due versi apparentemente quasi identici, Italo Calvino ha ricordato a suo tempo (1985), nel testo sulla Leggerezza delle sue Lezioni americane, la profonda diversità. Il secondo, con il «come» che lo introduce, «rinchiude tutta la scena nella cornice d’una metafora, ma all’interno di questa cornice essa ha una sua realtà concreta, così come una realtà non meno concreta e drammatica ha il paesaggio dell’Inferno sotto una pioggia di fuoco, per illustrare il quale viene introdotta la similitudine con la neve». Nel verso di Guido Cavalcanti, invece, «l’aggettivo “bianca”, che potrebbe sembrare pleonastico, unito al verbo “scendere”, anch’esso del tutto prevedibile, cancellano il paesaggio in un’atmosfera di sospesa astrazione». È il linguaggio della «leggerezza» che Cavalcanti, nella lettura di Calvino, ha donato alla nostra letteratura.

Ora, i versi di Petrarca riprendono la leggerezza del verso di Cavalcanti e proprio per questo la neve viene usata per confondere nel lettore la percezione della vita e della morte: non si sa più, nel divenire intorno a noi, se quella di cui leggiamo sia vita o sia morte. Ma una cosa è certa: nelle parole di Petrarca si tratta di «quel che morir chiaman gli sciocchi». E noi non vogliamo essere «sciocchi».

Pascoli, dicevo, conosce bene questa storia dell’immagine della neve associata a «quel che morir chiaman gli sciocchi». Anzi, vuol farci sapere che la conosce. E dunque, nella prima delle due poesie riportate, Ceppo, richiama, con le due penultime rime, le rime del Triumphus mortis petrarchesco (bianca/stanca – stanca/bianca). Chi non se ne fosse ancora accorto, a questo punto, alla fine della poesia, deve capirlo. La Madonna che, con Gesù in braccio, la notte di Natale visita una madre che muore – anzi, mentre muore – si colloca su un discrimine che solo un’immagine di leggerezza può additare (non “descrivere”, solo “additare”) in una commistione di realtà e sogno persino dichiarata nell’ultimo verso della poesia. Anche l’orfano, per opera delle parole della vecchia, si colloca in quel discrimine. E anche per lui realtà e sogno si mischiano nella leggerissima immagine del giardino.

Ecco allora le due poesie, nel testo tratto dall’edizione: Giovanni Pascoli, Poesie, Oscar Classici, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1974, III edizione.

Giovanni Pascoli, Ceppo


È mezzanotte. Nevica. Alla pieve
suonano a doppio; suonano l’entrata.
Va la Madonna bianca tra la neve:
spinge una porta; l’apre: era accostata.
Entra nella capanna: la cucina
è piena d’un sentor di medicina.
Un bricco al fuoco s’ode borbottare:
piccolo il ceppo brucia al focolare.

Un gran silenzio. Sono a messa? Bene.
Gesù trema; Maria si accosta al fuoco.
Ma ecco un suono, un rantolo che viene
di su, sempre più fievole e più roco.
Il bricco versa e sfrigge: la campana,
col vento, or s’avvicina, or s’allontana.
La Madonna, con una mano al cuore,
geme: Una mamma, figlio mio, che muore!

E piano piano, col suo bimbo fiso
nel ceppo, torna all’uscio, apre, s’avvia.
Il ceppo sbracia e crepita improvviso,
il bricco versa e sfrigola via via:
quel rantolo… è finito. O Maria stanca!
bianca tu passi tra la neve bianca.
Suona d’intorno il doppio dell’entrata:
voce velata, malata, sognata.


Giovanni Pascoli, Orfano


Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca.
Senti: una zana dondola pian piano.
Un bimbo piange, il piccol dito in bocca;
canta una vecchia, il mento sulla mano.
La vecchia canta: Intorno al tuo lettino
c’è rose e gigli, tutto un bel giardino.
Nel bel giardino il bimbo s’addormenta.
La neve fiocca lenta, lenta, lenta.


Di questa poesia, nella Nota alla sesta edizione (1903), Pascoli cita la traduzione di «un gentile amico, Domenico Mosca. In che lingua? In una lingua fraterna», dunque nel dialetto romagnolo.


La naiv, dadora, flocca flocca flocca:
taidla: üna chüna in stüva va vi e nan.
Un pitschen crida, cul daitin in bocca;
la nonna chanta, cul misun sül man.
La nonna chanta: Intuorn a teis lettin,
da rosas, gilgias es ün bel zardin.
Nel bel zardin il pitschen ‘s drumanzet.
Dador la naiv flocca planet planet.


Auguri!

A tutti i lettori di questo blog faccio gli auguri con le parole di un messaggio che ho ricevuto da Pedro Pablo Gutiérrez González, docente di Comunicazione audiovisiva all’università di Vigo e amico di scrittori e poeti spagnoli e italiani.


Auguri speciali per la felicità in questi giorni, rinnovabili automaticamente per il resto della vostra vita.
Che nel 2011 nessuna cosa possa togliere la voglia di stare bene insieme, di fronte a un buon vino.
Non smettete di sognare. La gioia arriva sempre.


La poesia non è sull’Aventino

Alcuni amici si sono meravigliati del fatto che i miei Versi inutili, a leggerli, non corrispondono all’idea che se ne erano fatta, prima ancora di leggerli, in base al titolo. Pensavano a testi di ripiegamento e di rinuncia, a una sorta di mio ritiro sull’«Aventino» in attesa di tempi migliori.
E invece mi scrivono di aver trovato un testo «impegnato» contro certi perversi meccanismi economici e di potere del mondo contemporaneo. Spero di aver ben sintetizzato quello che pensano. E comunque li ringrazio. Non credo, comunque, di aver sbagliato titolo.

Né credo che la parola «impegnato» corrisponda all’intenzione di questo libro. Non perché sia una cattiva parola (onore a chi pratica l’impegno in letteratura), ma perché io non sono affatto dispiaciuto che la (mia) poesia sia inutile. Ho già scritto in questo blog che l’inutilità è per me una prospettiva “forte” dalla quale guardare il mondo e dunque non la concepisco davvero come una collinetta (sia pure amena come l’Aventino romano) nella quale starmene tranquillo ad aspettare che qualcun altro abbia a cuore un mondo migliore e si batta per realizzarlo. Sia chiaro: non sono affatto tranquillo.

Già nel 1975 Montale, quando individuava nell’inutilità il carattere proprio della poesia, ne cancellava al tempo stesso quel senso di inadeguatezza, di insufficienza e di inettitudine che a suo tempo aveva contrassegnato l’autoflagellazione dei crepuscolari e lo presentava come un «titolo di nobiltà». E, in questi anni, sempre più il valore dell’inutilità è stato ipso facto, cioè per il fatto stesso di essere tale, una contraddizione tanto nobile quanto insanabile rispetto alla presuntivamente utile e produttiva “normalità” quotidiana; una contraddizione guardata con così grande sospetto dagli interessati custodi di questa “normalità” da spingerli a tener fuori la poesia dall’orizzonte stesso dei generi della scrittura contemporanea e a relegarla in una sorta di controllata nicchia da poche centinaia di copie di tiratura. Un esilio, e neanche dorato: questo è certo. Un esilio che non tocca, tutti lo vedono, la letteratura o la saggistica «impegnate».

Il fatto è che il valore dell’inutilità contraddice in particolare, per la sua natura stessa e in modo totale, le cosiddette “regole del mercato” e più ancora tutti quei poteri economici e politici che di esse si fanno scudo per trasformare gli stati in rappresentanti di tornaconti particolari anziché dell’interesse generale, garanti dei dividendi anziché di “regole” diverse. A guardar bene, si scopre una cosa che, se non fosse tragica, sarebbe divertente: la rinuncia non è quella di chi scrive «versi / come sempre, come è / nella loro essenza, / inutili»; è quella degli stati, o meglio, per non essere qualunquisti, di quei governi che hanno messo gli stati sull’Aventino dell’economia e ne hanno fatto impotenti vedette di quello che succede, salvo naturalmente a farli scendere di corsa da quello stesso Aventino quando tornaconti e dividendi soffrono qualche malanno.

In Italia c’è qualcosa di più. La notte che stiamo attraversando è determinata qui dal fatto che questa sostanziale rinuncia dello stato si mischia a una ridente ostentazione sia dei tornaconti privati sia degli stessi privati costumi (i latini dicevano mores). Ridente, ma certi ghigni di cartapesta dimostrano che quel riso è forzato. Questi costumi, che si pretenderebbero riservati, vengono invece appositamente fatti vedere – e non solo dal buco della serratura – per essere presentati come desiderabili ai più e non goduti solo da chi non può permetterseli perché ahilui, fuori dal mercato e dal potere: il massimo della sfiga. E il guaio è che tanti di coloro che non possono permettersi questi costumi si sentono davvero sfigati.

Perciò viviamo in una notte e non in un qualsiasi travagliato e difficile giorno. E perciò l’inutilità della poesia assume, qui e ora, nel «buio che s’intorbida» ogni minuto di più, un carattere di contraddizione ancora più radicale di quello che ha sempre avuto anche in altri tempi e in altri luoghi.

La poesia è la contraddizione.
Chi vuole uscire da questa notte provi a far tornare la poesia dall’esilio.
Amici, fatelo voi.