Ignoranza digitale:
Eschilo e Dante possono aiutarci a capire

Alcuni recenti fatti di cronaca (uno molto triste, il suicidio di una donna di trentuno anni, uno decisamente salottiero se non addirittura frivolo, l’assalto di molti internauti alla giornalista Natalia Aspesi per la sua confessione di non conoscere il Foscolo) hanno spinto tanti “esperti” e “commentatori” ad affrontare di fretta un tema che merita forse una attenzione e una riflessione più distese e comunque slegate dall’attualità. Il tema è quello dell’essenza dei new media. Essa consisterebbe – riassumo e, necessariamente, banalizzo – nel fatto che questi media sono incontrollabili per la velocità della divulgazione delle informazioni e per la conseguente diffusione di queste ultime in misura esponenziale: cioè, a ogni livello della velocissima divulgazione delle informazioni, il numero di coloro che ne vengono a conoscenza non si moltiplica per due, per tre etc., ma si eleva alla seconda, alla terza potenza e così via.
Il che è vero. Ma è anche vero che nessuno si è preso la briga di insegnarci come ci si comporta in relazione a questi media. Insegnare, non dico a quelli della mia generazione (per i quali tuttavia, una volta, c’era il maestro Manzi: che nostalgia!) ma almeno a quelli che, ben dopo l’avvento di questi media, sono andati a scuola e hanno ora trenta o quarant’anni e a quelli che a scuola ci vanno adesso e ci andranno nei prossimi anni.
Veloci, e dunque incontrollabili, questi media. Anche le onde del mare in tempesta lo sono e nessuno pretende di controllarle: però è abbastanza normale che ciascuno di noi voglia uscire vivo da una imbarcazione che navighi attraverso quelle onde.
Da oltre sessant’anni, da quando McLuhan parlava di «età elettrica» della comunicazione e inventava il concetto di «villaggio globale» (ricordate: «L’elettricità ha ridotto il globo a poco più che un villaggio»[1]?), si è affermata la tendenza a vedere nella velocità il carattere specifico dei new media. Magari, nei sistemi aziendali, la velocità unita all’organizzazione[2]: ma soprattutto la velocità. Questa tendenza si è accentuata negli ultimi decenni, con il passaggio dall’«età elettrica» della quale parlava McLuhan a quella “digitale”. Ancora di più si è rafforzata da quando in questa “età digitale” sono entrati di prepotenza gli smartphone, cioè dal 2007 in poi. Ma è un errore. E questo errore non ci aiuta a capire il fenomeno: e dunque non ci aiuta, per riprendere la metafora precedente, a uscire vivi dalle onde del mare in tempesta.

La velocità della trasmissione non è affatto, di per sé, una prerogativa dei media dell’età “elettrica” o di quella digitale. Basta leggere questo brano che risale alla metà del quinto secolo a.C.:


GUARDIA
Dei ! Vi chiedo di liberarmi da questo tormento, questa guardia che dura da un anno. Dormire qui rannicchiato, sulla reggia degli Atridi, accovacciato come un cane! Ormai so riconoscere le costellazioni degli astri notturni, quali portano l’inverno, quali l’estate ai mortali: i signori luminosi del cielo, so quando tramontano, so quando sorgono.
Anche ora sto all’erta, aspettando il segnale di una fiaccola: un lampo di fuoco da Troia che porti la notizia, l’annuncio che la città è stata presa.
Questo comanda il cuore maschio della signora, questo spera. E io, nella notte inquieta, sto in questo giaciglio umido che non protegge i miei sogni – la paura, non il sonno, mi è vicina, sempre presente e non mi lascia chiudere serenamente le palpebre al sonno – e quando provo a intonare una nenia, a canterellare piano piano – così, con la musica, cerco di combattere il sonno – allora piango la disgrazia di questa casa e lamento com’era governata bene un tempo.
Ma dovrebbe arrivare finalmente la liberazione da questa fatica: dovrebbe apparire dalle tenebre la buona novella con la luce del fuoco.
Eccoti, fiaccola! Ecco il bagliore che fa splendere nella notte la luce del giorno e una lunga serie di danze, in Argo, per la grazia di questo evento.


Eschilo, Agamennone (459/458 a.C.), Atto I, scena I

Non basta? Vogliamo un’altra testimonianza? Eccola:


 Io dico, seguitando, ch’assai prima
che noi fossimo al piè de l’alta torre,
li occhi nostri n’andar suso a la cima
 per due fiammette che i vedemmo porre,
e un’altra da lungi render cenno,
tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.
 E io mi volsi al mar di tutto ’l senno;
dissi: “Questo che dice? e che risponde
quell’altro foco? e chi son quei che ’l fenno?”.


Dante Alighieri, Inferno, VIII, 1-9

Nel primo brano Eschilo ci parla della velocità e dell’efficacia del sistema di comunicazione organizzato per ricevere a Micene la notizia della vittoria dei Greci nella guerra di Troia. Nel secondo brano, Dante ci descrive un sistema sostanzialmente identico e altrettanto efficace usato dai diavoli della Città di Dite (la parte più bassa dell’Inferno) per comunicare tra loro. Scritti a circa millesettecento anni di distanza l’uno dall’altro e il più recente settecento anni fa, entrambi questi brani ci ricordano che le informazioni potevano correre alla velocità della luce (o quasi) anche molto tempo fa. Il fatto è che tanto Eschilo quanto Dante pongono l’accento, più che sulla velocità della comunicazione, su altri aspetti decisamente più importanti – allora come oggi.

Nella tragedia di Eschilo il punto della questione è l’uso che viene fatto di quella comunicazione veloce. Come è noto, essa permise a Clitennestra e a Egisto di preparare con molto anticipo l’assassinio di Agamennone e consentì loro di compiere il delitto – per così dire – con la sicurezza del risultato: cioè con il massimo dell’efficacia. Nell’ottavo canto dell’Inferno Dante ci descrive con precisione quello che potremmo chiamare “l’effetto di tracimazione” della comunicazione: nelle teorie della prima metà del Novecento, la comunicazione è stata spesso descritta come un processo che avviene dentro un canale, ma nella realtà colui che in quelle teorie veniva chiamato l’«emittente» non sa mai – mai – a chi, oltre che al destinatario designato, arriverà il suo messaggio: un messaggio necessariamente portato a tracimare dalle sponde di quel “canale”. Sulle mura della Città di Dite i diavoli si scambiano un messaggio i cui destinatari sono loro stessi e un altro diavolo (Flegiàs); tuttavia, persino in un posto non poi tanto frequentato (certamente molto meno del web ai nostri giorni), quel messaggio tracima verso due destinatari imprevisti che non riescono magari a coglierne il contenuto preciso, ma sanno che esso è stato inviato e tanto basta perché si mettano in guardia. Quando Flegiàs arriva, Virgilio, il più “esperto” dei due “destinatari imprevisti” del messaggio, è già pronto ad accogliere quel diavolo a modo suo: «Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto», gli urla (con un verso dal ritmo bellissimo, sul quale meriterebbe di fare uno studio a parte) e quello, che già godeva per la soddisfazione di traghettare sulla palude Stigia altre due anime dannate, è costretto a ricredersi:


Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegïàs ne l’ira accolta.


Dante Alighieri, Inferno, VIII, 22-24

Se dunque la velocità non è, di per sé, il fatto nuovo che rende nuovi i media “digitali” (anche a differenza di quelli “elettrici”), che cos’altro è che li rende tali?
Il fatto nuovo, rispetto al quale bisognerebbe attrezzarsi con nuove competenze, è questo: i contenuti, una volta che siano stati digitalizzati, non sono altro che “bit”[3], con tutto ciò che questo comporta, come aveva già capito nel 1995 Nicholas Negroponte:


Quando tutti i media saranno digitali – poiché i bit sono bit – si avranno immediatamente due risultati fondamentali.
Primo, i bit si possono mescolare facilmente. Si possono usare e riusare, insieme o separatamente. L’insieme di audio, video e dati viene chiamato multimedia; sembra complicato, ma non è altro che una mescolanza di bit.
Secondo, nasce un nuovo tipo di bit – un bit che ti parla di altri bit. Questi nuovi bit hanno tipicamente la funzione delle “etichette”, usate dai giornalisti per identificare i loro appunti. Esse sono normalmente usate anche dagli autori scientifici ai quali si chiede di fornire, insieme all’articolo, alcune parole chiave. Questi bit supplementari possono costituire un indice del contenuto o una descrizione sintetica dei dati che seguono. […] Questi bit non si possono né vedere né sentire, ma danno delle informazioni a voi, al vostro computer o a strumentazioni particolari[4].


In sostanza, ci fa capire Negroponte, oltre ai caratteri della immodificabilità, della riproducibilità e della “mescolabilità” (qui si aprirebbe un discorso sul concetto di multimedia, che io invece non apro affatto), il contenuto trasmesso da un medium digitale ne ha almeno altri due particolarmente importanti: quello che è espresso in sequenze di bit (byte), quindi, sempre nello stesso modo, e quello che il dato digitale può contenere al suo stesso interno un metadato, cioè un aiuto per capire di che categoria di informazione si tratta.


Si noti che la disponibilità di metadati differenti (da intendere qui come codifiche differenti) porta a differenti interpretazioni: […] la stringa di 3 byte 01000001 01000001 01000001 può essere intesa come tre caratteri alfabetici (e allora, secondo il codice ASCII, decodificata in “AAA”) oppure come i livelli delle tre luci componenti un colore (e allora, secondo la codifica RGB, decodificata in un grigio scuro)[5].


Negroponte non parla di velocità, ma di qualità delle informazioni trasmesse con strumenti digitali. C’è qualcuno che ha ragionato in questi decenni su una questione così decisiva? Forse qualche studioso, ma certo non le persone comuni che pure tutti i giorni a tutte le ore usano quegli strumenti e fruiscono delle informazioni codificate e trasmesse da quegli strumenti.

Tra le tante belle parole a vuoto scritte nei documenti dell’Unione Europea ci sono quelle con le quali la «competenza digitale» è stata inserita tra le «otto competenze chiave per l’apprendimento permanente» dei cittadini: «apprendimento permanente», quindi diritto anche di coloro che hanno la mia età. Altre belle parole a vuoto si trovano nelle “raccomandazioni” rivolte dall’Unione ai paesi membri perché questi facciano conseguire ai loro cittadini questa competenza, naturalmente insieme alle altre. Se, invece di essere parole a vuoto, fossero azioni di politica culturale e scolastica, sarebbe interessante notare quanto quelle contenute nella Raccomandazione relativa alla «competenza digitale» (la trovate qui, insieme alle altre sulle «otto competenze chiave») abbiano a che vedere con ciò che ci hanno detto, ormai un po’ di tempo fa, Eschilo e Dante.

Infatti, quando la Raccomandazione parla di «spirito critico» nell’uso delle «tecnologie della società dell’informazione», di «consapevolezza delle opportunità e dei potenziali rischi di Internet e della comunicazione tramite i supporti elettronici» e finalizza l’uso del computer a «reperire» e «valutare» le informazioni (oltre che a tutto il resto), ci fa capire che la «competenza digitale» riguarda prevalentemente, non la velocità, ma il trattamento delle informazioni. La «competenza digitale» è insomma centrata sul contenuto, su quel contenuto che nei media digitali sembra dissolversi in sequenze di bit e, invece, è sempre là, con la sua forza e – starei per dire – con la sua fisicità. La «competenza digitale» è dunque una sorta di epistemologia applicata, in quanto si occupa dei fondamenti, della natura, dei limiti e delle condizioni di validità del sapere compreso nei contenuti digitali, e, dall’altra – di conseguenza –, è una delle condizioni per la riflessione critica di chi voglia consapevolmente esercitare la propria cittadinanza.

Come avevamo già capito con la lettura di Eschilo e di Dante, il problema non è allora la velocità della comunicazione ma è – da sempre – quello della consapevolezza che abbiamo di come si usa, di perché si usa e di chi usa l’informazione in essa contenuta. Il fatto che essa sia trasmessa attraverso media digitali, se siamo “competenti”, può aiutarci a verificarne la pertinenza, la validità e a collocarla al posto giusto nel sistema – non necessariamente sequenziale, anzi preferibilmente ipertestuale (ma qui si aprirebbe un altro non facile capitolo di riflessione e approfondimento) – nel quale organizziamo tutte le informazioni che acquisiamo: quella che una volta si chiamava, senza troppe complicazioni, “conoscenza”.
Se non siamo “competenti”, può aiutarci ad affondare alla guida di una imbarcazione non adatta ad attraversare le onde del mare in tempesta.


[1] M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare (Trad. it. di Understanding media, 1964), Milano, Il Saggiatore, 19952, pag. 11.
[2] B. Gates, Business alla velocità del pensiero, Trad. it di Business @ the Speed of Thought), Milano, Mondadori, 1999.
[3] Il bit, da binary digit (‘cifra binaria’) si può definire come l’unità minima di informazione e corrisponde alla possibilità di scegliere tra due sole alternative. In informatica le due alternative vengono rappresentate da 0 e 1 e sono quindi leggibili da un circuito elettronico. Per questo motivo il sistema numerico usato per la programmazione dei computer è il sistema binario. Una serie continua di 8 bit è un byte.
[4] N. Negroponte, Essere digitali (trad. it. di Being Digital, 1995), Milano, Sperling & Kupfer, 1995, pp. 8-9.
[5] N. Rossignoli, Appunti di cultura digitale, Milano, Lampi di stampa, 2008

Il centenario della battaglia di Verdun

Nessun giornale italiano ne parla (non ho una completa rassegna stampa, ma da una rapida occhiata che ho dato in edicola, temo proprio che sia così: intanto ecco che cosa ne dice la BBC) e dunque rimedio io per i venticinque lettori di questo blog. Ecco la notizia: si celebra oggi in Francia, con un incontro tra il presidente francese Hollande e la cancelliera tedesca Merkel, il centenario della battaglia di Verdun (21 gennaio-15 dicembre 1916).
Naturalmente, domani anche i giornali italiani – e oggi i telegiornali –parleranno di questo incontro per quanto di attuale i due leader diranno in tema di economia, di migrazioni, di banche, di lavoro e di chissà che altro. Io voglio invece parlare del motivo inattuale per il quale i due leader si incontrano. Lo fanno perché, da poco più di settanta anni, in Europa di battaglie come queste non ce ne sono state più. E loro due sono tra coloro che si augurano che non ce ne siano mai più.
È vero, ci sono state altre guerre in Europa in questi settanta anni: la Guerra dei Balcani (1991-1995), con l’assedio di Sarajevo – a pochi passi dai nostri confini –, ha dimostrato a chi lo avesse dimenticato a quali atrocità può portare un conflitto armato tra popoli fino a poco prima “amici”. Ma non ci sono state battaglie atroci e sanguinose come quella di Verdun nella quale persero la vita sul campo più di quattrocentomila soldati tedeschi e francesi: quattrocentomila morti tra i quali non sono “computati”, perché non si è mai riusciti a contarli, i militari e i civili che morirono tra i circa ottocentomila avvelenati dai gas: molto più di un milione tra morti e feriti in un solo campo di battaglia!

Mi sembra opportuno ricordare con solennità questo centenario perché vedo accanto a me, in Italia e fuori d’Italia, il risorgere di partiti isolazionisti e nazionalisti oggi alleati tra loro nel volere la fine dell’Unione Europea e domani, necessariamente, pronti a scannarsi l’un l’altro (anzi pronti a mandare a scannarsi i giovani dei rispettivi paesi, mentre loro staranno a guardare) per un lembo di territorio, per un orgoglio ferito, per una alleanza non rispettata, per un migrante in più o in meno da accogliere o non accogliere.

Ho avuto la fortuna di vivere nel più lungo periodo di pace che questa parte del mondo ha conosciuto in tutta la sua storia millenaria. Per millenni, per un motivo o per un altro (spesso, nell’antichità, per risolvere problemi di esistenza), popoli vicini, tribù diverse dello stesso popolo, fazioni avverse delle stesse tribù si sono scannati senza interruzioni se non di pochi anni (al massimo poco più di una quarantina tra il 1870 e il 1914) seminando, in particolare, il territorio lungo il quale corrono oggi i confini tra Francia e Germania di una quantità incalcolabile di cadaveri: decine di milioni? No, forse centinaia di milioni. Oggi, là dove ci sono ancora certamente i resti scheletriti o solo le polveri di quei cadaveri, corrono autostrade che attraversano i confini da uno stato all’altro senza bisogno di passaporto e dove in un minuto si vedono passare auto con targhe di venti diversi paesi europei (mi sono preso il gusto di fare questo conto una volta che percorrevo l’autostrada da Baden Baden a Strasburgo): auto di persone che vanno a divertirsi, che vanno a fare affari, magari anche affari sporchi, che vanno a insegnare o a studiare, vanno a fare l’amore. Tutto, tranne che la guerra.

Ecco perché mi sembra opportuno ricordare il centenario di Verdun: non per quanto di attuale potranno dirsi oggi Hollande e Merkel, ma per quanto di inattuale c’è nel ricordo, che giustamente loro vogliono celebrare, di una guerra europea. Anche per i miei nipoti vorrei che il ricordo di una guerra europea fosse inattuale. Voi no?

Il mito siamo noi

Il 18 maggio alle 21, al teatro Porta Portese di Roma, alcuni miei testi poetici
letti attraverso una azione scenica che ne sottolinea il rapporto con il mito.

Da Giambattista Vico in poi il mito è stato considerato una forma di conoscenza, anzi la forma originaria di quel vocabolario dell’anima umana che si è venuto via via costruendo nel rapporto tra le cose e le parole che ha attraversato la storia di noi esseri pensanti, osservanti e parlanti.

Secondo Hegel, il mito fa parte, sì, «della pedagogia del genere umano, poiché eccita ed attrae ad occuparsi del contenuto», tuttavia «siccome in esso il pensiero è contaminato da forme sensibili, [il mito] non può esprimere ciò che vuole esprimere il pensiero. Quando il concetto si è fatto maturo, non ha più bisogno di miti». Ci sarà però un motivo se gli esseri umani continuano a voler conoscere attraverso il mito, anzi, spesso, vogliono conoscere se stessi attraverso il mito.

Prendiamo un caso esemplare della poesia del Novecento: Umberto Saba, qui a fianco mentre guarda il mare dalle colline di Trieste. Nel 1933, nella raccolta Parole, Saba scrive una poesia dal titolo Ulisse.


O tu che sei sì triste ed hai presagi
d’orrore – Ulisse al declino – nessuna
dentro l’anima tua dolcezza aduna
la Brama
per una
pallida sognatrice di naufragi
che t’ama?


E ora leggiamo anche il commento che lo stesso Saba ha fatto di questa poesia nella sua Storia e cronistoria del Canzoniere: «La breve poesia Ulisse – scrive Saba parlando di se stesso in terza persona –, una delle più brevi di tutto il Canzoniere e nella quale riecheggia il motivo della “Brama”, offre al lettore quello che “preso a sé” è forse il più bel verso di Saba: «pallida sognatrice di naufragi».


Ulisse al declino è probabilmente il poeta stesso. Nella figura di quell’astuto greco egli si è più volte (non sappiamo se a torto o a ragione; probabilmente più a torto che a ragione) “eroicizzato”. (vedi anche quella che, fino a oggi, è la sua ultima poesia: il componimento omonimo che chiude Mediterranee)».


Per capire il rapporto esemplare di Saba con il mito leggiamo dunque, infine, come il poeta nelle vesti di critico di se stesso ci suggerisce, questo secondo componimento intitolato Ulisse, inserito nella raccolta Mediterranee, del 1946, con la quale si chiudeva l’edizione del Canzoniere pubblicata nel 1948.


Nella mia giovanezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.


È fin troppo facile osservare che il Saba cinquantenne di Parole vede se stesso in un «Ulisse al declino» che potrebbe, lui eroe della “Brama” per antonomasia, non avere più brama «per una / pallida sognatrice di naufragi» (è vero: un verso bellissimo!). Quello di Saba è un dubbio. E da questo dubbio germina questa singolare poesia in forma di breve domanda. È altrettanto facile osservare che nella seconda splendida poesia (splendida, nel senso proprio della parola: che splende di luce marina, solare, smeraldina) il Saba di Mediterranee, di quasi quindici anni più vecchio, si riflette invece in un Ulisse tutt’altro che in declino: non a caso questa poesia è dominata, splendidamente, dalla parola rima “al-largo” che ci rimanda all’Ulisse navigatore, anzi all’Ulisse insaziabile, dantesco più che omerico.
Ma queste due facili osservazioni nascono dall’implicita persuasione che “il mito siamo noi”. Non avremmo nemmeno potuto abbozzarle nella nostra mente se non fossimo intimamente convinti che, per conoscerci, per conoscere noi stessi e la relazione che abbiamo con gli altri («il porto / accende ad altri i suoi lumi», scrive Saba con questa consapevolezza), possiamo ricorrere al mito; qualche volta dobbiamo ricorrere al mito, a quel patrimonio di immagini e racconti che qualcuno ha studiato, qualcuno no, ma che sono disponibili per l’immaginario di tutti noi da migliaia di anni, anzi sono l’immaginario di noi da migliaia di anni. Perché facciamo questo? Scrive Michail Lifšic che «nei miti il mondo reale si presenta sotto l’angolo visuale della libertà». Certo la libertà di pensare il mondo prima del λόγος: prima e anche più arditamente di quanto sia consentito al λόγος (nonostante quello che ne pensa Hegel). Ma, soprattutto, penso io, la libertà di sentire il nostro divenire come indefinito, come parte di un indefinito e infinito trascorrere nel quale ciascuno di noi conosce mentre ri-conosce e mentre si ri-conosce.

Questo è l’angolo visuale sul mondo che il mito ci dà. Guai se ce ne privassimo.
Per questo ho riunito in una “azione scenica” intitolata Il mito siamo noi la lettura di alcune mie poesie che, in modo più o meno diretto, si legano con fili fortissimi a quel patrimonio al tempo stesso così lontano e così vicino. L’ho fatto per sollecitare nuova conoscenza, ri-conoscimento di sé e degli altri.
Il 18 maggio prossimo alle 21 questa “azione scenica” sarà eseguita, nella bella Sala Brecht del teatro Porta Portese di Roma, da me, da Paola Nanni e da Monica Bianchi, accompagnati dal flauto impareggiabile di Annalisa Spadolini. Venite! E non trascurate di prenotare perché la Sala Brecht è bella, ma non contiene molti posti. Potete prenotare telefonando dalle 17.00 alle 19.00 ai numeri 06.5812395 o 371.1865004, oppure mandando a quest’ultimo numero – a qualsiasi ora – un sms con il nome e il cognome della persona che andrà a ritirare i biglietti al botteghino, il tipo (primo o secondo ordine di poltrone) e il numero dei posti che si intendono prenotare. In questo ultimo caso riceverete un sms di conferma. Affrettatevi!

La Resistenza dei ragazzi

Una decina di anni fa ho visto per caso nella libreria di una stazione ferroviaria la nuova edizione di un vecchio libro che avevo letto da ragazzo, le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (Einaudi, 2002; l’edizione che avevo letto io era quella del 1952 che mio padre conservava bene in vista nella sua monumentale libreria di mogano: libreria che, mentre scrivo queste righe, mi guarda da dietro le spalle). Dato che mancava ancora del tempo alla partenza del treno, ho preso in mano quel libro e ho cominciato a rileggere quelle pagine così belle e così forti. Le ho rilette con la mia esperienza di insegnante e, mentre quando le avevo lette per la prima volta non avevo fatto caso all’età di coloro che le avevano scritte, a distanza di quarant’anni l’età di alcuni di quei condannati a morte mi ha colpito come una stilettata: avevano – ho pensato – l’età dei miei alunni di quando insegnavo al liceo, diciassette, diciotto, diciannove anni.
Mi aveva colpito in particolare, e non l’avevo notato alla prima lettura o non me lo ricordavo, il tono di quelle lettere: niente di “eroico”; erano, sì, “ultime” parole, ma scritte come se si trattasse di una partenza, con serenità, con accettazione. La morte era nel conto delle cose possibili. Ecco: si trattava di dar conto di questa cosa ai genitori, agli amici, alla fidanzata. E coloro che avevano quella straordinaria forza d’animo erano ragazzi. Sarebbero potuti essere miei alunni.
Durante il viaggio, uno dei miei tanti Roma-Torino del quale non ricordo però la ragione precisa, ho scritto, sull’onda dell’emozione di quella rilettura, la poesia che propongo qui sotto, Alunni, che qualche anno dopo è entrata a far parte della mia raccolta di versi La mente irretita. Questa poesia è poi diventata molto cara a tanti colleghi. Uno ha voluto che fosse trascritta sulla “pergamena” di saluto che gli è stata donata dalla scuola quando è andato in pensione, altri l’hanno letta a loro volta ai loro alunni; Manuela Vico, straordinaria insegnante di francese animatrice del Premio di poesia “Inter-Alpes” (al quale partecipano alunni della provincia di Cuneo e della regione francese della Provence-Alpes-Maritimes) ha voluto farne una specie di colonna sonora delle manifestazioni nelle quali si articola questo premio e spesso la fa leggere e la commenta con sempre rinnovata emozione.

Oggi le ultime testimonianze – lettere, appunti, fogli di diario – di condannati a morte e di deportati della resistenza italiana sono conservate nel sito ultimelettere.it che consiglio a tutti di andare a visitare con l’attenzione che merita. Da questo sito (e non dal libro che ho letto e riletto) traggo le lettere di tre ragazzi di diciassette anni che mi sembra facciano capire, meglio di qualsiasi “commento”, il senso della mia poesia Alunni.

Lettera di Ludovico Ticchioni (Tredicino) a … scritta in data 17-01-1945 da Carcere


17 gennaio
Sono sicuro che oggi
sarà il mio ultimo
giorno di vita.
Non mi importa
di morire.


Lettera di Domenico Caporossi (Miguel) alla Madre scritta in data 21-02-1945


21/2/1945
Cara Mamma Vado a morire,
ma da partigiano, col sorriso sulle labbra
ed una fede nel cuore. Non star malinco=
nica io muoio contento. Saluta amici e
parenti, ed un forte abbraccio e bacioni
alla piccolo Imperio e Ilenio e
il Caro Papa, e nonna e nonno e di
ricordarsene sempre. Ciau Vostro figlio
Domenico


Lettera di Lorenzo Alberti (Renzo) ai familiari


[Fronte]

Cara Mamma, sono stato preso
da dei tedeschi a Upega e sono stato
condannato a morte.
Non stai a piangere e né a strillare non
dai colpa a nessuno. Vivi tranquilla
ci hai ancora il fratello che ti
tiene compagnia. Ti può aiutare
nella vecchiaia.
Lo so che dopo tanti sacrifici
ti trovi un figlio di meno. Non
ti arrabbiare!
Caro papà vivete tranquilli
in famiglia come principi.
Sono morto senza
torture
Caro Fratello non piangere
aiuti bene ai

[Retro]

genitori senza farli arrabbiare.
Cari famigliari salutatemi tutti
i cari conoscenti e parenti
dite a loro che il destino volle così.
Vi saluto tutti
Renzo


Ecco, Ludovico, Domenico, Renzo, e tanti altri come loro, li avrei voluti come alunni. Dedico questa poesia a tutti gli alunni che ho avuto.

Michele Tortorici, Alunni (da La mente irretita, Manni, 2008)


Rileggendo
le Lettere dei condannati a morte della Resistenza

Alunni vi avrei voluti nell’ora
che vi ha sommersi la storia,
che vi ha affrancati la vostra
temeraria purezza,
che vi ha innalzati la speranza
nella parola che s’invera
come un giuramento.

Alunni vi avrei amati per potere
imparare la fede che attraversa
la morte come un’onda
di piena penetrata
nel mare. Vi avrei cercati per dare
inaspettate risposte alle troppe
impazienti pagine che ho letto. Vi avrei
attesi perché non si chiudesse
il portone della scuola e avrei scavato
per voi macerie di futuro
in offerta d’amore.

Avreste forse anche voi
prestato la vostra fede alle parole
che ho fatto scorrere sui banchi, ai versi
di libertà, alle note a piè di pagina sull’uomo
che s’infutura e che s’india; avreste
forse anche voi bevuto l’inganno
propizio di umani simulacri
senza professione di modernità.

Alunni vi avrei abbracciati per ricevere
il vostro contagio, per raccogliere
le lettere che avete scritto e custodirle
nell’archivio della scuola. Lì
un altro insegnante, dopo secoli
d’inettitudine, avrebbe scoperto
le pagine nascoste e portato
a nuovi alunni le vostre
parole per inverarle ancora
come un giuramento.


Marco Vagnini: la forma delle idee

Marco Vagnini, lo straordinario illustratore di due mie brevi raccolte di versi, è scomparso improvvisamente a cinquantuno anni il 14 febbraio scorso. Lui scriveva di sé con modestia di essere un «industrial designer, ma anche un graphic designer e un professore di design dell’ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) di Roma». Nel ricordarlo a due mesi dalla morte, io posso dire di lui che era un creatore di bellezza.

Era un artista a tutto tondo perché la sua passione era trovare la ragione delle forme che ci stanno attorno: le forme degli oggetti e delle loro rappresentazioni, le forme che lo spazio assume se racchiuso da qualche elemento, le forme nelle quali ci si presenta, nella sua terrestrità, la materia (nella foto qui a fianco Marco Vagnini è accanto a una delle sue opere di pittura materica, che lui chiamava “artefatti naturali”) e, infine, la forma più difficile da trovare, la forma delle idee.
Che cosa vuol dire “la forma delle idee”?
Per spiegarlo devo ripercorrere un periodo bello della vita di Marco e della mia. Poco meno di vent’anni fa l’ISIA collaborava con il Ministero dell’Istruzione per la realizzazione di opere di design, dagli opuscoli per la diffusione delle novità legislative (erano gli anni dell’introduzione dell’autonomia scolastica) fino agli stand con i quali il Ministero stesso partecipava a mostre, fiere e altre situazioni di rapporto diretto con i cittadini. A lavorare per queste occasioni erano Enzo Manili, anche lui, a suo tempo professore di design all’ISIA e, appunto, Marco Vagnini, allora suo assistente. Non poche riunioni di lavoro si svolgevano nello studio di Manili in Piazza Giovine Italia. Più che riunioni di lavoro erano cantieri di idee dove si cercava in primo luogo di costruire un’idea che allora sembrava un po’ pazza: rendere “più bello” il rapporto del Ministero con i cittadini. “Più bello”, sì. Certo, quelli erano gli anni nei quali le nuove norme sulla comunicazione pubblica puntavano a qualificare il rapporto tra istituzioni e cittadino nel senso della trasparenza e della semplicità; ma proprio per raggiungere questo obiettivo, noi che ci riunivamo in quello studio (i più assidui, insieme a Manili e Vagnini, eravamo il direttore dell’allora Servizio per la Comunicazione del Ministero, Luigi Catalano, e io) pensavamo che quel rapporto dovesse essere, innanzitutto “più bello”. Via il grigiore connesso, nell’immaginario dei più, a un’istituzione come il Ministero e largo ai colori e alla fantasia. Nel corso di queste discussioni Enzo Manili, genero di Fosco Maraini e orgoglioso proprietario di una copia autografata del suo bellissimo libro di poesie nonsense La gnòsi delle Fanfole, ogni tanto leggeva alcuni di quei versi come via di fuga dalle insensatezze di vecchie norme e vecchi pregiudizi (insensatezze vere e concrete, a differenza dei nonsense di parole della Gnòsi) e poi, ripresa in mano la fidata matita momentaneamente abbandonata a favore del libro, continuava tranquillamente il suo lavoro. Una mattina spiegò in che cosa consisteva, secondo lui, il lavoro del designer: lo spiegò a noi, ma soprattutto a Marco, che comunque, ci fece capire, aveva ascoltato parecchie altre volte quella “lezione”, da allievo prima ancora che da assistente: il lavoro del designer consisteva, secondo Manili, nel «trovare la forma delle idee».

Qualunque allievo avrebbe colto il senso metaforico di quel discorso e si sarebbe fermato lì. Marco no. Marco ha sempre preso sul serio la lezione del suo maestro. Anzi, si potrebbe dire che ha voluto essere più risoluto ancora del suo maestro in quella ricerca. Qui a fianco ecco un esempio di come Marco interpretava l’insegnamento di Manili e, al tempo stesso, seguiva l’idea di rendere più bello il rapporto del Ministero con i cittadini. Non era usuale che gli uffici del Ministero avessero un logo e tuttavia fu Marco stesso a farci notare come un ufficio che nasceva con lo scopo di comunicare meglio non poteva farne a meno: doveva essere riconoscibile; l’idea che quell’ufficio rappresentava doveva avere la sua forma e lui l’avrebbe trovata. Eccola, nell’immagine qui a fianco. Questo logo, collocato in basso a destra in tutti i documenti usciti dalla Direzione generale per la Comunicazione (evoluzione del Servizio per la Comunicazione, nato insieme alle norme sull’autonomia scolastica), ha reso riconoscibile quell’ufficio più e meglio di qualunque dichiarazione o spiegazione in merito.

Non voglio dire niente qui di molte delle “grandi opere” (gli stand per esposizioni o manifestazioni pubbliche, in particolare) realizzate da Enzo Manili e Marco Vagnini, anche perché sarebbe impossibile distinguere la mano dell’uno da quella dell’altro. Non posso tuttavia fare a meno di mostrare (nella foto qui a fianco) la straordinaria “Ruota dell’autonomia”: uno stand informativo sui vari aspetti dell’autonomia scolastica presentato al ComPa 2001 e che ha ricevuto in quell’occasione il Premio del cittadino “Diritto all’informazione” attribuito, attraverso una votazione dei visitatori, allo stand migliore.
Voglio invece ricordare una iniziativa di Marco che riguarda proprio l’idea della necessità per una istituzione di essere “bella” nel suo porsi in relazione con i cittadini. Parlo degli anni a cavallo tra i due secoli durante i quali, a causa dell’avvento generalizzato dei computer, gli uffici del Ministero avevano rinunciato alla costosa – e bellissima – carta intestata stampata dal Poligrafico dello Stato (anche perché il Ministero in quegli anni aveva cambiato nome: da Ministero della Pubblica istruzione a Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) e usavano per i documenti ufficiali, dalle circolari ai decreti, normali fogli bianchi in testa ai quali stampavano, ciascuno con un carattere diverso, con un corpo diverso, qualche volta con una centratura non perfetta, la scritta istituzionale con sotto il nome dell’ufficio. Una specie di sciatteria generalizzata e, come si può immaginare, chi ama la bellezza può magari sopportare la bruttezza, ma non la sciatteria. Anche in questo caso, fu Marco a fare notare a noi della Direzione generale per la Comunicazione questo aspetto decisamente sconveniente della comunicazione ministeriale. E fu lui a porvi rimedio.
Come? In modo non facile. Ricavò, uno per uno, da una vecchia carta intestata, i bei caratteri calligrafici della scritta “Ministero della Pubblica Istruzione”; sulla base di quei caratteri, tracciò, da straordinario designer, le lettere mancanti per la nuova scritta (per esempio la U e la R maiuscole), si procurò attraverso l’apposito ufficio del Quirinale l’emblema della Repubblica e, infine, realizzò la nuova scritta, su una e su due righe (quella che vedete qui a fianco), pronta per rispondere alle diverse esigenze dei vari uffici. Dati i tempi che corrono, devo forse aggiungere che fece questo lavoro nei pochi spazi di tempo libero che aveva e che non ne ricavò alcun compenso. A noi della Direzione generale per la Comunicazione, non restò che trasmettere il file a tutti gli uffici del Ministero con la raccomandazione di usare con un semplice copia e incolla quella scritta per tutte le comunicazioni ufficiali. Naturalmente, poiché l’amore per la bellezza uno non se lo può dare, ma lo deve avere dentro di sé, allora e oggi quella raccomandazione non è stata sempre seguita.

Nessuno può meravigliarsi quindi, se, quando ho pensato di realizzare un libro di poesie illustrato, io mi sono rivolto a Marco Vagnini.
La prima volta nel 2010. Il libro è Versi inutili e altre inutilità, del quale riproduco qui a fianco la copertina, di una impareggiabile “purezza” grafica. Una purezza talmente assoluta che lo stesso grafico dell’editore, al vedere quella copertina, rinunciò ad aggiungere il nome, appunto, dell’editore per non introdurre in essa nessun elemento nuovo, che sarebbe stato di disturbo.
La seconda volta l’anno scorso. Il libro è Fine e principio e chi vuole può leggere, seguendo il link alla pagina dedicata a questo libro, insieme alle notizie sui versi che vi sono raccolti, il senso della collaborazione tra me e Marco: un senso talmente importante, ai fini stessi della comprensione del libro, che abbiamo deciso di pubblicare, in appendice alle poesie, lo scambio di email che documentava quel rapporto. Di questo libro riproduco qui sotto l’illustrazione all’ultima delle quattro poesie che vi sono raccolte e che è una elaborazione grafica di una foto (qui a fianco) della sala delle “Foglie cadute” (in ebraico “Schalechet”) dello Jüdisches Museum di Berlino.
Questa sala rievoca la Shoah in modo molto particolare (qui a destra una vista parziale della sala in una foto diversa da quella sulla quale ha lavorato Marco Vagnini). Alta e lunga, ha il pavimento ricoperto di maschere di metallo con la forma di bocche che urlano. Chi vi entra per la prima volta non sa che cosa fare, ma una hostess invita a non fermarsi e a camminare su quelle maschere di metallo fino in fondo alla sala. Appena calpestate, quelle maschere, per l’attrito dell’una sull’altra, stridono con un’eco che si ripercuote sulle pareti e che dà l’impressione di urli ripetuti. Chi esce dalla sala dopo averla percorsa fino alla fine ed essere ritornato indietro è una persona diversa da quella che vi era entrata: è come se l’intera storia dell’umanità pesasse sulle sue spalle, ma anche – almeno così è stato per me, in particolare quando ho visitato quella sala per la seconda volta – come se da quel peso potesse nascere una speranza. Nella poesia scaturita dalla mia esperienza di quella sala, Nuove progenie, ho cercato di riversare tanto il terribile peso del male della storia quanto la potente forza della speranza. Come dare forma a questa idea? Marco ha creato una prospettiva artificiale nella quale dal fondo oscuro emerge la luce, anzi, le stesse maschere di metallo diventano un elemento luminoso per chi ha il coraggio di guardarle. Una invenzione al tempo stesso bellissima e fedelissima al testo poetico del quale a lungo avevamo parlato insieme.
Alla fine dello scorso anno, proprio per il senso di speranza che porta dentro di sé ho pubblicato su questo blog la poesia Nuove progenie in un post di auguri per il 2016. Non avrei mai pensato che sarei ritornato, a distanza di qualche mese, su questi versi – come ora sento il bisogno di fare – per ricordare il mio carissimo e giovane amico Marco Vagnini, creatore di bellezza, troppo presto scomparso. Qui trovate, nel post di auguri al quale ho fatto riferimento, il testo della poesia insieme a molte notizie che aiutano a penetrarne il senso.

La musica delle parole

Il mio nuovo libro è una raccolta di saggi letterari

Il primo, quello che dà il titolo al volume, si rivolge a tutti coloro che amano la poesia, a coloro che la insegnano, a coloro che, semplicemente, vogliono provare e far provare emozione alla lettura di un testo poetico, da Esiodo ai contemporanei.

«L’iniziazione a un mistero – afferma Gilberto Scaramuzzo nella Presentazione – è quel che deve aspettarsi chi si avvia alla lettura di questo libro. Il mistero cui si viene iniziati è un mistero bello: leggere la poesia. […] L’intento di queste pagine non è quello di insegnare un sapere ma di insegnare un potere. E insegnare un potere richiede un’opera creativa.
Difficile non avvertire come l’autore voglia che chiunque legga le sue pagine arrivi a godere in proprio di uno dei luoghi più belli dell’essere umani». Nel saggio che dà il titolo a questo volume, La musica delle parole. Come leggere il testo poetico, l’autore – continua Scaramuzzo – «ha il pregio di padroneggiare la difficile arte di giungere nei luoghi semplici, e così, in questa sua opera, la poesia viene riscoperta anche come creazione di un ritmo e, grazie ai suoni delle parole, di un’armonia; quindi come ri-creazione della dimensione spazio-temporale e, perciò, come ri-conoscimento dell’eterno».

Gli altri saggi del volume costituiscono in gran parte una sorta di esemplificazione di come, concretamente, leggere specifici testi poetici. Alcuni di questi sono letti nella loro unicità e singolarità. È il caso dei saggi su Il primo canto della Commedia dantesca. Due domande impertinenti e due pertinenti risposte, Il Natale del 1833. Il problema del dolore e i dubbi del Manzoni e La poesia Gesù di Giovanni Pascoli, un testo quasi sconosciuto. Altri testi poetici sono invece letti – attraverso precise analisi ipertestuali – nel lungo e spesso tortuoso cammino che la parola poetica è capace di compiere. È il caso del saggio su La speranza fallace da Cavalcanti a Petrarca fino a Leopardi e di quello su La neve. Un’immagine leggera del confondersi di vita e morte, da Cavalcanti a Pascoli.
A questi interventi se ne affiancano altri che costituiscono vere e proprie sorprendenti incursioni critiche sul terreno della prosa: La novella di Cisti fornaio. Boccaccio inganna i suoi lettori e Lorenzino de’ Medici come Cesare Borgia? C’è da ridere.
La musica delle parole è frutto di letture svolte senza pregiudizi, con mente sgombra: di conseguenza, presenta risultati critici originali e, in qualche caso, straordinariamente innovativi rispetto a interpretazioni tradizionali spesso appiattite sul “già visto” e sul “già detto”.

Il libro, uscito oggi, 5 febbraio, dalla tipografia (per una volta ho superato la mia tradizionale lentezza e questo post è fin troppo tempestivo), sarà nelle librerie, anche quelle online, già dalla prossima settimana. Il 20 febbraio sarà presentato, nella splendida sede della Confraternita de’ Genovesi in Roma, in via Anicia 12, da Sabrina Capponi e da Valerio Marucci, con il coordinamento di Renato Mammucari.

Un 2016 di speranza. Auguri!

C’è una sala dello Jüdisches Museum di Berlino che suscita una emozione particolare. È quella delle Foglie cadute, Schalechet, una installazione realizzata dall’artista israeliano Menashe Kadishman come metafora della Shoah. Si tratta di una specie di lungo corridoio lungo il quale sono disseminate maschere di metallo le cui bocche sono dilatate, come se urlassero.
Il visitatore che entra in questa sala resta smarrito, non sa esattamente che cosa fare. Allora gli si avvicina una giovane guida – così, almeno, è capitato a me – e gli spiega che il modo di visitare quella sala consiste nel percorrere tutto il corridoio e tornare indietro: è necessario calpestare quelle maschere. Quando urtano tra loro sotto i passi del visitatore, a causa dell’attrito dell’una sull’altra, queste maschere stridono: gli urli scolpiti diventano urli reali, un suono che fa inorridire. In molti escono provati dalla visita a questa sala. Tanti hanno le lacrime agli occhi. Io le avevo.
Sin da quando ho visitato per la prima volta questa sala dello Jüdisches Museum non ho potuto dimenticare l’emozione che avevo provata. L’ho subito registrata in quella specie di diario in versi del mio soggiorno a Berlino del 2007 che è il mio libro bilingue I segnalibri di Berlino – Berliner Lesezeichen (Campanotto, 2009; la traduzione in tedesco è di Giangaleazzo Bettoni). Sono poi ritornato a Berlino (e in quella sala) nel 2011 e ho continuato a riflettere sulla potenza di quella straordinaria evocazione della Shoah. Nel frattempo avevo cominciato a rileggere le Metamorfosi di Ovidio, un testo a me particolarmente caro, e quella volta ho collegato l’emozione che provavo nella sala delle Foglie cadute con il mito di Deucalione e Pirra, il mito pagano del diluvio universale splendidamente raccontato da Ovidio nel primo libro del suo poema: a Deucalione e Pirra, gli unici due esseri umani sopravvissuti al diluvio, la dea Temi ingiunge di fare qualcosa che essi non capiscono subito:


[…] discedite templo
et velate caput cinctasque resolvite vestes
ossaque post tergum magnae iactate parentis!


Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 382-384

In realtà le ossa della grande madre (ma io ho tradotto: «colei che con magnanimità vi ha partoriti») sono le pietre della terra. La dea ha chiesto di fare due cose a Deucalione e Pirra: di ricominciare dalla terra e di gettare dietro di sé, non davanti, le pietre.
La prima richiesta era chiara: si trattava di ri-generare l’umanità a partire dalla terra. Dopo un fatto come il diluvio, così devastante per Deucalione e Pirra, allo stesso modo della Shoah per noi, le generazioni non potevano continuare come se nulla fosse stato. Era necessaria una radicale ri-generazione.
Ma questa – ecco il senso della seconda richiesta di Temi – può avvenire solo se chi è ri-generato prende alimento dal passato, da ciò che abbiamo dietro le spalle, non soltanto perché quel passato non sia dimenticato, ma perché il suo ricordo entri addirittura a far parte della nostra stessa natura, del nostro stesso esser nati.

Di diluvi, e non solo metaforici, ce ne saranno ancora. Ma un insegnamento preciso ho ricavato dal mio guardare alla sala delle Foglie cadute attraverso la lente fornita dalla lettura di Ovidio: i diluvi potremo superarli se avremo il coraggio di fare affondare il futuro delle nuove generazioni (delle generazioni nate nuovamente dalla terra, delle «nuove progenie») nel nostro e loro passato. La seconda volta che sono stato in quella sala dello Jüdisches Museum, ho guardato con questo pensiero alle Foglie cadute di Kadishman, e ho visto in quelle maschere di metallo le ossa che Temi ancora una volta ci ingiungeva di prendere per consentirci una ri-generazione. Allora avevo ancora sì le lacrime agli occhi, ma c’era in esse, oltre che la commozione, anche la speranza.

Michele Tortorici, Nuove progenie (da Fine e principio, Roma, Anicia, 2015)


Schalechet

Quando ho visto nel museo,
come foglie cadute, maschere di metallo con la forma
di urli; quando, passo
dopo passo, quelle maschere io le ho sentite stridere, è tornato
alla mia mente con chiarezza l’avvertimento di Temi: «Liberatevi
delle vesti e gettate
dietro di voi le ossa di colei
che con magnanimità vi ha partoriti». Dopo l’ultimo diluvio,
dovevamo non
continuare, una dopo l’altra, generazioni
e generazioni di uomini e di donne come se ciò che era stato
non fosse stato, ma
ricominciare nuove stirpi, fare nascere
nuove progenie dalle ossa della terra.

Schalechet

Quando ho visto nel museo,
come foglie cadute, maschere di metallo con la forma
di urli; quando, passo
dopo passo, quelle maschere io le ho sentite stridere, ho capito
l’avvertimento di Temi. Dopo l’ultimo diluvio,
quegli urli scolpiti nel ferro erano loro
le nuove ossa che la terra, con spietata
magnanimità ci offriva perché, liberati delle vesti, affrancati
dall’ostinato volere
ricordare – quelli, dico, che hanno voluto
ricordare –, le gettassimo dietro di noi per fare nascere
nuovi uomini e nuove donne.

Schalechet


A Natale tangenti sulla beneficenza
Naturalmente all’epoca di G.G. Belli

Inutile dire quanto sia lodevole l’intento di papa Francesco di risanare la Curia romana, intento da lui riaffermato con forza nell’indirizzo di auguri ai funzionari del vaticano che tradizionalmente precede le festività natalizie. Invece penso che sia utile ricordare al pontefice, soprattutto se non ha letto i sonetti del Belli, quanto le «malattie curiali» contro le quali egli vuole mettere in campo i necessari «antibiotici curiali» siano così fortemente radicate da richiedere forse, più che medicine, sia pure forti, veri e propri interventi chirurgici.

Il sonetto che segue, il 544, è stato scritto il 3 dicembre del 1832: precede quindi di 183 anni e 17 giorni il discorso del papa sugli antibiotici necessari a guarire la Curia romana. E tuttavia che cosa ci racconta? Ci racconta di percorsi burocratici che sembrano fatti apposta, tra passaggi di mano e inutili pareri, per favorire, in una qualsiasi delle tappe delle quali si compongono, l’intervento del funzionario senza scrupoli. Anzi, nello scatenato ritmo di questo sonetto (che si presenta con ben undici versi su quattordici che hanno la prima sillaba senza un accento forte e dunque, per così dire, vanno di corsa, cercano di entrarci in testa come se fossero bocce lanciate lungo un forte pendio), il Belli ci fa capire che, secondo lui, quei percorsi burocratici non sembrano, ma sono fatti apposta per consentire a chi vuole e a chi può di arraffare tangenti. Nel nostro caso si tratta di una cospicua tangente del cinquanta per cento. E di una tangente percepita con una tale naturalezza dal funzionario che eroga il sussidio di beneficenza («je se perze tra le deta», cioè: ‘gli si perse tra le dita’) da far pensare che due secoli fa quelle abitudini fossero già vecchie di chissà quanti altri secoli.

Poiché siamo sotto Natale, che cosa posso fare? Posso fare gli auguri, in primo luogo, a Papa Francesco perché riesca a sradicare dalla Curia romana abitudini così profondamente radicate. È una prospettiva di risanamento che interessa non solo i cattolici, ma tutti i laici che vivono in Italia, un paese molto – forse troppo – condizionato da ciò che accade in quella Curia. E auguri anche a tutti noi perché le riforme della pubblica amministrazione, finora senza esito, nel semplificare i percorsi dei vari procedimenti, riescano a complicare la vita anche ai tangentisti non curiali. Ricordo a chi lo avesse dimenticato che la Curia romana due secoli fa, e fino al 1870, era la pubblica amministrazione di Roma.
Infine, a tutti i lettori di questo blog, auguri, più generalmente, di Buone feste e di un 2016 che realizzi almeno alcune delle nostre aspettative pubbliche e personali, magari proprio quelle in cima al nostro elenco dei desideri, e ci aiuti in questo modo a essere più sereni e a trovare più facilmente la via della felicità.

Giuseppe Gioachino Belli, Er zussidio


 Com’è ito a ffiní cquer momoriale[1]
c’appresentai a la Bbonifiscenza[2]?
È ffinito accusí, ch’er Cardinale
prima vorze1 sentí la Presidenza2
 eppoi, doppo tornato a Ssu’ Eminenza,
lo mannò a Mmonziggnore tal’e cquale,
scrivennosce accusí: «Pe sto Natale
venti pavoli[3] all’urtima dispenza[4]».
 Monziggnore lo diede ar Deputato[5]
co sto riscritto: «Signor Emme e Zzeta,
sto sussidio che cqui vvienghi pagato».
 Ma cquanno agnedi3 a pprenne la moneta,
quer zor Emme me diede un colonnato[6],
e ll’antro je se perze tra le deta.


Roma, 3 dicembre 1832
Note dell’autore
1 – Volle.
2 – Presidenza di polizia del rione.
3 – Andai.

Note
[1] Momoriale: ‘memoriale’, qui con il senso di ‘supplica’.
[2] Bbonifiscenza: ‘Istituto per la Beneficenza’.
[3] venti pavoli: equivalenti a due scudi.
[4] dispenza: ‘distribuzione’.
[5] deputato: ‘funzionario’.
[6] un colonnato: equivalente a uno scudo, quindi la metà del sussidio.

Cop46: ci sarà mai?


Il sole è precipitato in un giorno come tanti. Eravamo
al solito occupati nelle nostre
attività quotidiane e non ci fregava niente di tutto il resto: poteva succedere
qualunque cosa e neanche
ce ne accorgevamo. […]


Con questi versi comincia la prima poesia del mio nuovo libro, Fine e principio (Anicia, Roma, 2015) «quattro poemetti – ha scritto Giorgio Bárberi Squarotti – che reinventano miti e immagini». A proposito: devo ringraziare qui il grande critico per la «ammirazione profonda» che ha dichiarato di aver provato alla lettura del libro.
Per usare le sue parole, la poesia della quale ho citato i primi versi “reinventa” il mito di Fetonte, il figlio di Apollo che, ottenuto dal padre il permesso di guidare il carro del Sole, ne causa la caduta sulla terra e, per effetto di essa, determina l’inaridimento di intere regioni.
Non sono un politico. Né scrivo versi “politici” (tipo il Misogallo dell’Alfieri, per intenderci). Tuttavia, scritta qualche anno fa, questa poesia ha una incredibile attinenza con la più stretta attualità politica, un fatto raro, forse unico, per quanto mi riguarda. È in corso, infatti, in questi giorni a Parigi la Cop21.
Sapete che cos’è? Non è una parata di capi di stato che, con la scusa del clima, parlano di terrorismo, come si è potuto capire dalle scarne notizie che ne hanno dato i media all’apertura, il 30 novembre scorso.

Una riunione della Cop21 a Parigi

Faccio un po’ di storia. La Cop21 è la ventunesima riunione della Conference of Parties che, da quando fu convocata per la prima volta nel 1995 a Berlino, ha il compito di rivedere annualmente la “Rio Convention”, il primo accordo sul clima raggiunto – come dice il nome – a Rio de Janeiro nel giugno del 1992. La Rio Declaration, frutto di quella convention, affidava agli stati nazionali, senza nessun vincolo né verifica, una serie di compiti relativi alla difesa dell’ambiente. Ci sono volute tre “Cop” per arrivare al famoso Kyoto Protocol del 1997. Ce ne sono volute altre otto per arrivare al Montréal Action Plan, del 2005, il quale non era altro se non un piano di attuazione del Kyoto Protocol. Ancora altre quattro “Cop” sono state necessarie per tentare – senza riuscirci – di superare, a Copenaghen nel 2009, il Kyoto Protocol, che nel frattempo si era rivelato del tutto insufficiente. Infine, dopo altre sei “Cop”, che sono state con tutta evidenza perfettamente inutili, in quella attuale, la Cop21, abbiamo sentito dire dai capi di stato presenti che questa è «the last chance to stop ‘Global Warming’ before it’s too late» [«l’ultima opportunità di fermare il “riscaldamento globale” prima che sia troppo tardi»].

Nessuno dei partecipanti alla Cop21, tuttavia, ha spiegato bene che cosa possa significare questo “troppo tardi”.
Ma qui è bene aggiungere un piccolo corollario: coloro che che cercano di spiegare in che cosa consista il “troppo tardi”, giornalisti o scienziati, vengono in genere accusati di essere “catastrofisti”. Da chi vengono accusati di questa nefandezza? Da altri giornalisti o scienziati i quali chiedono le “prove” che il riscaldamento globale sia realmente un effetto causato dalle attività umane e che quindi possa essere a sua volta combattuto da un profondo cambiamento di queste attività.
Un esempio? Eccolo. La Società italiana di Fisica – per la verità affiancata, anche se i media non lo hanno riportato, dalla Unione delle Accademie di Agricoltura (!) e dalla Historical Oceanography Society (!) – si è rifiutata di firmare la Dichiarazione scientifica sui cambiamenti climatici redatta a conclusione del Science Symposium on Climate, una riunione di tutte le comunità scientifiche mondiali interessate al tema, che si è svolta a Roma il 19 e 20 novembre scorsi. Forse troppe riunioni e pochi fatti sul clima di questa nostra povera Terra! Ma vado avanti. In questa Dichiarazione, il capitolo introduttivo sui principali esiti delle ricerche della comunità scientifica afferma:


Human influence on the climate system is unequivocal and it is extremely likely that human activities are the dominant cause of warming since the mid-20th Century: continued warming increases the risks of severe, pervasive, and irreversible impacts on the climate system.
[L’influenza umana sul sistema climatico è inequivocabile ed è estremamente probabile che le attività umane siano la causa dominante del riscaldamento verificatosi a partire dalla metà del XX secolo. Il continuo riscaldamento del pianeta aumenta i rischi di impatti gravi, pervasivi e irreversibili sul sistema climatico]


Ebbene, sulla parola «unequivocal» la Società italiana di Fisica ha posto, per voce della sua presidente, professoressa Luisa Cifarelli, una specie di veto: in un blog (qui) è stata riportata la posizione della professoressa sintetizzata nella lettera a un suo collega: «La Sif è un’associazione di fisici abituati a considerare leggi fisiche regolate da equazioni più o meno complesse, e risultati espressi con il dovuto livello di confidenza o di probabilità o di verosimiglianza. Questo, del resto, è il metodo scientifico». La professoressa Cifarelli, inutile sottolinearlo, ha ragione. Sul metodo scientifico, intendo.
Il metodo scientifico, per dimostrare il rapporto di causa ed effetto tra attività umane e riscaldamento globale, avrebbe bisogno di un certo numero di Terre senza presenza umana e di circa duecento anni: una volta sviluppata su una di queste Terre, per circa duecento anni, una attività antropica uguale a quella che si è storicamente realizzata nell’età industriale sull’unica Terra che abbiamo, soltanto allora, se nelle altre Terre prese a confronto non si fosse registrato nessun tipo di cambiamento climatico, si potrebbe scientificamente affermare che il rapporto di causa ed effetto tra attività umane e riscaldamento è “dimostrato”.
Questo vorrebbe dire che tale rapporto sarebbe “vero”? Certamente no: tutti sappiamo che le “verità” scientifiche hanno una certa durata storica. Dopo un certo periodo qualcuno “dimostra” che quanto era stato “dimostrato” in precedenza su un certo problema è superato da una nuova scoperta. Per essere assolutamente certi (assolutamente?) che la “dimostrazione” scientifica di cui stiamo parlando non sarà superata da una nuova scoperta, dovremmo aspettare centinaia, forse migliaia di anni. Gli scienziati che hanno firmato la Dichiarazione del Science Symposium on Climate, lo sapevano certamente meglio di me e, difatti, hanno evitato la parola «true» [vero] o altre simili e hanno usato una parola come «unequivocal» [“inequivocabile”, «detto di di cosa – afferma il Vocabolario Treccani – su cui non è possibile equivocare, che non dà luogo a equivoci, anche intenzionali»: quindi “molto chiaro”, “evidente a tutti”, ma non necessariamente “vero”], o un’espressione come «extremely likely» [“estremamente probabile”]. Questo non è bastato. La professoressa Cifarelli voleva la “dimostrazione” come richiesto dalle «leggi fisiche» che sono, in effetti, «regolate da equazioni più o meno complesse». E in attesa di questa “dimostrazione”? Ecco i catastrofisti!

Non credo di potermi annoverare tra i catastrofisti, e tuttavia, se quasi tutti gli scienziati del mondo, senza aspettare la “dimostrazione”, dichiarano come «estremamente probabile che le attività umane siano la causa dominante del riscaldamento verificatosi a partire dalla metà del XX secolo» e aggiungono che questo riscaldamento «aumenta i rischi di impatti gravi, pervasivi e irreversibili sul sistema climatico», sono portato a dar loro fiducia senza aspettare non meno di due secoli per averne la “dimostrazione”. 
Infatti, due sono i casi.
O questi scienziati hanno torto: e allora qualunque azione umana non ridurrà il riscaldamento globale e la terra cesserà di essere un pianeta abitato tra cento o duecento o trecento anni (o forse anche molto prima, dato che certi effetti prodotti dal riscaldamento globale si automoltiplicano).
Oppure questi scienziati hanno ragione: e allora è il caso di cominciare a darsi da fare subito. Da questo punto di vista, le Conferences of Parties mi sembrano uno strumento, finora, assolutamente inefficace. Riunioni di flagellanti in vena di enunciare molti buoni propositi (certo: oltretutto siamo sotto Natale!) e pronti a non rispettarne neanche uno appena gli altri flagellanti abbiano voltato le spalle. Almeno, nel medioevo, i flagellanti avevano più dignità e si flagellavano anche in privato, quando nessun altro li vedeva.
Non sono un politico. Non chiedetemi soluzioni. Direi, come suggeriscono alcuni economisti, di cominciare dai territori, cioè da pezzetti anche molto piccoli di questa unica Terra che abbiamo. I cittadini, se consapevoli, possono spingere le loro amministrazioni a “decarbonizzare” il territorio sul quale essi vivono, anche utilizzando tecnologie non poi così costose. Questi cittadini possono inoltre darsi come scadenza (deadline, “linea della morte” si dice in inglese e forse in questo caso è proprio la parola) un termine un po’ più vicino di quello del 2050 del quale si occupano le varie Cop: per esempio il 2030. La somma di tante decisioni di tanti cittadini in tanti territori potrebbe essere forse più efficace degli accordi dei governi, o potrebbe aiutare ad attuare questi accordi: insomma, potrebbe aiutare i flagellanti a essere coerenti. Il fatto che la bozza di accordo sulla quale discutono oggi a Parigi conti quarantotto pagine mi spinge a pensare che che gli stessi firmatari non pensino di rispettarla in tutto e per tutto: scrivereste un documento di cinquanta pagine se doveste dare istruzioni antincendio agli inquilini di un condominio? Naturalmente, perché i cittadini possano prendere decisioni, sarebbe necessario che fossero, come ho scritto sopra, consapevoli: cioè che sapessero. I media e la potenza finanziaria di chi ama i combustibili fossili sembrano alleati nel far sì che i cittadini non sappiano. Beh, i venticinque lettori di questo mio blog ora sanno qualcosa più di prima.


Il sole è precipitato in un giorno come tanti. Eravamo
al solito occupati nelle nostre
attività quotidiane e non ci fregava niente di tutto il resto: poteva succedere
qualunque cosa e neanche
ce ne accorgevamo. […]


Quel giorno io, comunque, non ci sarò più: penso alla nipotina che ho e agli altri nipotini che arriveranno. Se quel giorno sfortunatamente dovesse giungere, mi piace comunque pensare che i venticinque lettori di questo mio blog, i loro figli, i loro nipoti non saranno tra quelli ai quali non fregava «niente di tutto il resto: poteva succedere / qualunque cosa». A proposito: nel 2050, quando i miei e i vostri figli avranno all’incirca settant’anni e i miei e i vostri nipoti ne avranno all’incirca quaranta, ci sarà mai una Cop46?

 

Parigi: le mie «vie amiche» ferite a morte

La prima volta che sono stato a Parigi, circa mezzo secolo fa, avevo fatto nei mesi precedenti una vera e propria indigestione di romanzi di Simenon sul commissario Maigret. Così, di Parigi, senza averla mai vista, conoscevo strade, piazze, bar, locali di tutti i generi e un sacco di curiosità. Buona parte del tempo che allora vi ho trascorso sono stato in giro proprio per quei posti dei quali, attraverso le inchieste di Maigret, sapevo quasi tutto e che mi sembrava, più che di vedere per la prima volta, letteralmente, di ri-vedere. Una passeggiata senza limiti di tempo me la sono concessa a boulevard Richard-Lenoir, dove Simenon immagina che si trovi, al numero 132, la casa nella quale il commissario vive con sua moglie. Ho percorso il boulevard dalla Bastille all’incrocio con avenue de la République e poi sono tornato indietro attraverso la miriade di vie grandi e piccole (tra le prime boulevard Voltaire) che segna quella vivacissima parte di Parigi.
Dappertutto la gente affollava i locali, ma non come da noi: non per una consumazione, magari seduti a un tavolino, e via; era evidente che molti passavano lungo quelle strade la loro giornata, avevano libri, scrivevano.

Quando, pochi anni fa, sono ritornato a Parigi con mia moglie, ho condotto anche lei a boulevard Richard-Lenoir con l’intento di ritrovare i vecchi zincs, i bar con il bancone di zinco, che avevo frequentato tanto tempo prima nelle vie intorno alla Bastille (nella foto qui a fianco un vecchio zinc a due passi da boulevard Voltaire). Naturalmente di quei bar non ce n’era più quasi nessuno: alcuni sì, però, e forse ci sono ancora perché sono tornati di moda. In ogni caso, in quasi mezzo secolo non era cambiato il modo che avevano i parigini (e i molti stranieri diventati parigini di adozione) di frequentare le proprie vie: il modo è quello di abitarci. Certe vie di Parigi sono luoghi di abitazione, non di passaggio. Sto preparando in questi giorni una lezione su Ungaretti e sul suo Porto sepolto e penso adesso che è certamente più di un secolo che funziona così: Ungaretti frequentava gli intellettuali che vivevano a Parigi nel 1914, da Apollinaire a Modigliani, da Marinetti a Palazzeschi, da Boccioni a De Chirico a tanti altri, soprattutto nei caffè di quella città; forse anche un po’ a casa loro (o, meglio, nei salotti che contavano), ma soprattutto nei caffè, nelle vie. È più di un secolo che funziona così, che le vie di Parigi sono case all’aperto dove, certo, si passa, ma soprattutto si vive. La libertà e la laicità (e, per gli artisti, la creatività) a Parigi si imparano per strada ben più che sui manuali di storia.

I terroristi hanno dunque colpito nel segno: le vie, i caffè, i locali, le sale da concerto (che spesso sono caffè di giorno). Hanno colpito luoghi, non del passaggio, ma della vita dei parigini, simbolo di una libertà della vita quotidiana (non so come altro definirla) che probabilmente non ha l’eguale nel mondo. E hanno colpito anche me, profondamente, perché io stesso – e non solo a Parigi – amo le vie delle città che visito, più dei loro monumenti o musei. Lì, nelle vie, trovo la vita delle città e ne prendo un poco in prestito. In particolare, nelle vie di Parigi mi sono sempre sentito a casa. E ci tornerò per sentirmi a casa.
Nella mia ultima raccolta di poesie, Viaggio all’osteria della terra, ho raccolto le poesie che hanno per oggetto le vie delle città in una sezione intitolata Le vie amiche. Tra queste «vie amiche» ce n’è una di Parigi, rue Lepic, che si trova, per la verità, un po’ distante dalla Bastille, nel XVIII arrondissement, ma che ha molto in comune (tra l’altro, anche la frequentazione di Maigret) con le vie che convergono verso la Bastille e che incrociano boulevard Voltaire, oggetto di alcuni degli attacchi terroristici di ieri sera. La trascrivo qua sotto (nel testo originale e nella bellissima traduzione che ne ha dato Danièle Robert) per ricordare la vita di tutti coloro che si trovavano in quelle strade, in quei locali, in quelle sale da concerto: ci si trovavano come a casa loro e adesso non ci sono più.

Michele Tortorici, Rue Lepic, (da Viaggio all’osteria della terra, Manni, 2014)


Questa strada non finisce, come potrebbe sembrare, all’incrocio
con rue des Abesses. Con una specie di “u” larga fa un giro
intorno alla collina e arriva oltre
il Moulin de la Galette, comunque
non ho capito bene fino a dove. Un po’ è un inganno,
ma principalmente
è che vuole avere con te più confidenza.

strada vorrebbe esserti casa, anzi vorrebbe essere
il corridoio della tua casa, il tuo cammino intimo, la quotidiana
abitudine che hai di girare per le stanze, magari
senza far niente, forse un caffè, forse, al più, qualcosa
da sbocconcellare − piedi nelle pantofole, profumo,
a certe ore, di dopobarba, ad altre
ore, di donna.

Questa strada vorrebbe esserti compagna, mettersi
sottobraccio a te, ostentare la sua civetteria per farsi stringere
più forte − farsi toccare il seno persino, scandalizzare se ci sono
benpensanti che guardano.

Questa strada vorrebbe esserti amico, parlare di libri
e di sport, cantare per te le canzoni
che escono dalle finestre aperte, sedersi
su una panchina e ascoltare quello che dici – mettersi
a cercare se da qualche parte, appostato,
c’è ancora Maigret, chi lo sa?

Questa strada vorrebbe esserti − quello che è −
strada di mulini, prestare le sue ruote alla tua mente e farti
macinare farine delle vite
che passano sui suoi marciapiedi, andari
affrancati, alternative − che non avresti pensato, fuori da qui −
del divenire, figurazioni
della tua libertà possibile. Principalmente
è che vuole avere con te più confidenza.


Rue Lepic, nella traduzione di Danièle Robert


Cette rue ne finit pas, comme on pourrait le croire, à l’angle
de la rue des Abbesses. Dans une sorte de large “u” elle tourne
autour de la colline et arrive au-delà
du Moulin de la Galette, du reste
je n’ai pas bien compris jusqu’où. C’est un peu une ruse,
mais avant tout
c’est qu’elle veut être plus en confiance avec toi.

Cette rue voudrait être pour toi une maison, ou plutôt voudrait être
le couloir de ta maison, ton chemin intime, l’habitude
que tu as chaque jour de tourner dans les pièces, même
sans rien faire, peut-être un café, peut-être, tout au plus, quelque chose
à grignoter – les pieds dans les pantoufles, parfum,
à certaines heures, d’après-rasage, à d’autres
heures, de femme.

Cette rue voudrait être pour toi une compagne, bras dessus
bras dessous, afficher sa coquetterie pour se faire serrer
plus fort – se faire même toucher la poitrine, scandaliser s’il y a
des bien-pensants qui regardent.

Cette rue voudrait être pour toi un ami, parler de livres
et de sport, chanter pour toi les chansons
qui sortent des fenêtres ouvertes, s’asseoir
sur un banc et écouter ce que tu dis – se mettre
à chercher si quelque part, embusqué,
il y a encore Maigret, qui sait ?

Cette rue voudrait être pour toi – ce qu’elle est –
la rue des moulins, prêter ses roues à ta pensée et te faire
moudre le grain des vies
qui passent sur ses trottoirs, allures
affranchies, alternatives – auxquelles tu n’aurais pas pensé, ailleurs qu’ici –
du devenir, figures
de ta liberté possible. Avant tout
c’est qu’elle veut être plus en confiance avec toi.