Amo le città perché amo le loro storie. Appena metto piede in una città che non conosco, vorrei toccare con le mani le sue strade e i suoi muri, sentire la ruvidezza lasciata dal tempo che è trascorso sulle loro pietre.
Amo, dunque, le città che hanno una storia e che sembrano offrirla a chi passa, sembrano quasi spogliarsi per farsi vedere meglio e non hanno vergogna. Per questo amo le città dell’Emilia, con le loro storie, e con quelle persone, gli emiliani, che portano dentro di sé, nel loro modo di fare e di parlare, tante di quelle storie: persone che vogliono anche loro, come i luoghi dove abitano, farsi riconoscere per ciò che hanno vissuto.
Per questo il terremoto che ha colpito tante di quelle città (tante che conosco e alcune che non conosco ancora) mi ha fatto male. Ho provato dolore per i morti e per i vivi, per coloro che non ci sono più e per coloro che non hanno più quel rapporto stabile e duraturo con la loro terra che era un segno di riconoscimento, una bandiera.
E non ho dimenticate le altre città che hanno avuto, in tempi più o meno recenti, la stessa sorte. Un amico, Tullio Sirchia, dopo il terremoto del Belice, organizzò a Salemi una cosa che allora parve inutile, se non inopportuna: una mostra fotografica del paese, del paese così com’era prima. E quelle fotografie entrarono subito nel cuore di tutti gli abitanti di Salemi, per il solo fatto di rappresentare la loro storia, di aver fermato, sia pure in immagini di carta appese a una parete, un pezzo di ciò che essi stessi erano stati.
Ho richiamato il terremoto del Belice perché ricordo che allora per la prima volta, quarantaquattro anni fa, sentii parlare della necessità di fare una mappa del territorio in base al rischio sismico, di mettere in sicurezza gli edifici antichi e di verificare la stabilità di quelli moderni.
Quarantaquattro anni, più o meno mezzo secolo. Ero un ragazzo e sono un vecchio. In mezzo secolo si poteva, si doveva, fare qualcosa. La ricostruzione successiva al terremoto in Umbria del 1998 (un modello straordinario di ricostruzione del quale nessuno sembra ricordarsi) ha utilizzato metodologie e materiali di avanguardia per il recupero e la messa in sicurezza degli edifici storici. Poteva essere, trenta anni dopo il Belice, l’inizio di un lavoro di restauro da estendere a tutto il paese, insieme alla verifica degli edifici moderni.
Un poco per volta, nessuno pretende miracoli. Un poco per volta si poteva fare. Non pretendo molto. Dico: un cinquantesimo l’anno, un centesimo l’anno. Sarebbe passato mezzo secolo, tanto è passato lo stesso; sarebbe passato un secolo, e forse passerà inutilmente anche quello.
Ma bisognava cominciare. Io dico che bisogna cominciare. Lo dico inutilmente, lo so; e magari suscito in qualcuno la voglia di dirmi, a sua volta, che non ne capisco niente di terremoti e di costruzioni e che, di conseguenza, che parlo a fare? Ma lo dico lo stesso. Bisogna cominciare.
Mappe geologiche del paese già esistono. Luoghi che richiedono priorità di interventi si possono individuare. Studi per migliorare le conoscenze, per esempio, del rapporto tra fenomeni sismici e terreni sabbiosi; ecco anche nuovi studi si possono fare. Ma bisogna cominciare.
Mi occupo di letteratura, scrivo di poeti e sono poeta. Mi dichiaro incompetente in materia di terremoti. Ma conosco il tempo, il tempo delle parole e il tempo delle cose, e seguo con amore nelle strade delle città le tracce che esso lascia. Sono tracce che non possono andare perdute. Per questo ripeto: bisogna cominciare.
Lasciatelo dire a uno che ama le città.