Fatti non foste a viver come bruti

Scusate, non sarò breve.

Il canto di Ulisse, il XXVI dell’Inferno, è uno dei più conosciuti della Commedia. Di questo canto il verso «fatti non foste a viver come bruti» è, a sua volta, il più conosciuto e – secondo una recente indagine – il più citato tra tutti i versi del poema dantesco.
Tante volte si trova buttato là nel contesto leggero di una citazione su Facebook o su Twitter dove, comunque, viene letto di corsa. Qualche volta capita invece che questo verso venga citato nel contesto di straordinarie riflessioni sull’uomo. È il caso di un capitolo del romanzo Se questo è un uomo di Primo Levi. Il capitolo è intitolato proprio Il canto di Ulisse e l’autore vi racconta il suo tentativo di insegnare l’italiano a un giovane francese. In questo brano, il prigioniero Primo Levi ricava dai versi di Dante l’idea della conoscenza come strumento di salvezza, come ciò che può salvare l’uomo, anche l’uomo che si trovi nella sua condizione di internato, proprio perché la conoscenza è una dote propriamente umana contrapposta alla vita da «bruti» alla quale gli aguzzini del campo di concentramento vorrebbero ridurre lui e tutti gli altri prigionieri.
È una qualità propria dei capolavori quella di suggerire interpretazioni in ambiti anche assai lontani, nel tempo e nello spazio, da quello nel quale sono stati concepiti.

Ma torniamo all’origine: al XXVI canto della Commedia e alla situazione che vi è descritta. Dante e Virgilio si trovano nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio dell’inferno. Qui coloro che in vita furono consiglieri fraudolenti scontano la loro pena eterna, che consiste nell’essere rac­chiusi dentro una fiamma.
In una fiamma con due punte sono puniti insieme, così come insieme han­no peccato, Ulisse e Diomede. Quando Dante viene a saperlo, chiede a Virgilio di poter parlare con una delle due anime. Virgilio, che ha capito che cosa Dante vuol sapere e da chi, si rivolge a Ulisse e gli chiede «dove per lui perduto a morir gissi», cioè dove egli sia andato a morire una volta perduto; oppure, dove sia andato a morire e al tempo stesso si sia dannato, se quel «perduto», va letto in senso morale, come è probabile a causa dell’accento assai forte con il quale questa parola è sottolineata nel verso.

Dante, Virgilio, Ulisse e Diomede in una miniatura del XIV secolo

Ulisse non si fa pregare. Il «maggior corno» di quella duplice fiamma comincia a scuotersi e poi, oscillando da una parte e dall’altra «come fosse la lingua che parlasse, / gittò voce di fuori e disse: “Quando / […]». Questo «Quando», posto in fine di verso, è dotato, attraverso la pausa che lo segue, di una forza eccezionale: una forza accentuata dal fatto che è l’ultima delle tre rime concatenate e che si trova nell’ultimo verso della seconda terzina che contiene quelle tre rime. Con la forza eccezionale di questa parola comincia il racconto di un viaggio. Quale viaggio? Quello compiuto da Ulisse dopo aver lasciato Circe? No, quello che Dante, al quale – come vedremo meglio tra poco – i poemi di Omero sono del tutto sconosciuti, immagina sia stato compiuto da Ulisse. Nella prima parte del racconto l’eroe greco afferma di avere scelto, una volta allontanatosi da Circe, di non tornare in patria. A spingerlo a questa scelta era stato “l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore», un «ardore» che aveva prevalso sugli affetti familiari. Ecco dunque Ulisse e i suoi compagni attraversare luoghi più e meno noti del Mediterraneo. Infine, una volta arrivati alle “Colonne d’Ercole” (oggi lo stretto di Gibilterra), cioè al punto dove «dov’ Ercule segnò li suoi riguardi / acció che l’uom più oltre non si metta», ecco un nuovo desiderio, un nuovo «ardore», spingere Ulisse a oltrepassare quei limiti. Per farlo, deve convincere i suoi compagni.

Dante Alighieri, Inferno, vv. 112-142


“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli [1] siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia [2]
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza [3]:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino [4],
che a pena poscia li avrei ritenuti [5];
e volta nostra poppa nel mattino [6],
de’ remi facemmo ali al folle volo [7],
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ‘l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo [8].
Cinque volte racceso e tante casso [9]
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo [10] nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.


Prima di cominciare a esporre alcune mie riflessioni su questi versi, è necessario che io rivolga al lettore alcune avvertenze.
La prima riguarda il fatto che su questo canto c’è una sterminata letteratura critica. Sarebbe inutile in questa sede cercare di riferirne, anche solo in parte. Però è possibile indicare un luogo dal quale partire per orientarsi nell’enorme intrico di strade che questa letteratura critica ha percorso. Si tratta del commento alla conclusione di questo canto a cura di Nicola Fosca [11]: commento che, per gentile – e preziosa – concessione dell’autore e dell’editore, si trova anche all’interno del Dartmouth Dante Project ed è quindi leggibile on line (a partire da questa pagina).

Dante e Virgilio di fronte alla duplice fiamma con Ulisse e Diomede. Illustrazione di Gustave Dorè (1861).

Naturalmente, la parte del XXVI canto che precede quella trascritta qui sopra contiene elementi essenziali per la comprensione anche dei versi dei quali mi occupo. In particolare si può notare che, in quella prima parte del canto, le notizie su Circe e sulla permanenza di Ulisse presso di lei sono proprio – e soltanto – quelle che Dante poteva ricavare da Virgilio (VII libro dell’Eneide) e da Ovidio (libri XIII e XIV delle Metamorfosi). Questo dipende dal fatto che Dante non aveva letto quasi niente di Omero e dei suoi poemi. Non aveva la minima cognizione della lingua greca, neanche traslitte­rata [12]. Conosceva, sì, il nome di Omero, lo venerava, e poco più. Non sapeva nemmeno in che epoca esattamente collocarlo se non in un indefi­nito e lontano inizio della poesia tramandata prima del quale c’era solo la mitica figura di Orfeo. Nelle opere di Aristo­tele che Dante poteva leggere (tradotte in latino, ovviamente) non vengono mai affrontate questioni di contenuto dei poemi omeri­ci. Da Orazio, da Cicerone e da altri Dante poteva aver tratto le notizie sulla eccel­lenza di Omero che trapelano nel quarto canto dell’Inferno. Dalla tra­duzione latina dell’Etica di Aristotele eseguita nel 1260 da Guglielmo di Moer­becke, aveva certamente ricavato altre notizie che usa nella Vita nuova.
Il fatto che Dante ignorasse del tutto la struttura e il contenuto preciso dei poemi omerici pone una serie problemi non secondari sul racconto che egli fa della fine di Ulisse. Una delle più interessanti ricerche su questo tema è contenuta nel volume Dante e Omero. Il volto di Medusa, di Giovanni Cerri [13]. Si tratta di una ricerca che dimostra almeno due cose. La prima è che ai tempi di Dante alcune traduzioni latine di brevi brani dei poemi omerici, sia pure completamente scollegati tra loro, circolavano almeno negli ambienti dei giuristi (e in quelle che possiamo chiamare con termine moderno “aule giudiziarie”), anche se non si trovavano nelle biblioteche: Dante, potrebbe averne avuto notizia, ma certo da uno di quei brani non sarebbe mai potuto risalire al contenuto completo dell’Iliade o dell’Odissea. La seconda è che, almeno in un caso, quello di Inferno, IX, 52-54, c’è una corrispondenza innegabile tra il senso dei versi danteschi e quello di alcuni versi omerici (Odissea, XI, 633-635). Essa riguarda la possibilità che l’effetto pietrificante del volto di Medusa possa impedire lo svolgimento del viaggio nell’oltretomba: per Dante si tratta del proprio stesso viaggio; per Omero si tratta di quello di Ulisse. Una corrispondenza così stringente farebbe pensare a un rapporto diretto tra i due testi. Tutti avranno notato che io ho usato qui il condizionale. L’autore della ricerca non sarebbe d’accordo, ma altri studi su Dante e Omero, condotti da un altro studioso, Lino Pertile, portano ad avere molta cautela. «In effetti – afferma Pertile –, qualsiasi variante dell’Odissea che contempli la morte di Ulisse prima che ritorni a Itaca mina la struttura stessa del poema omerico; non è quindi una mera variante, compatibile con il poema, ma piuttosto una riscrittura o versione ‘altra’, di cui non rimane traccia nella storia della letteratura greco-romana semplicemente perché non esiste e non è mai esistita. La soluzione più economica del dilemma è che Dante conosca di seconda mano e in forma riassuntiva alcune delle avventure di Ulisse (le Sirene, Circe, Polifemo, qualcosa sul viaggio agli inferi), ma che le conosca come avventure individuali, non collegate tra loro nella sequenza dell’Odissea»[14].

Per quanto mi riguarda, posso aggiungere alle riflessioni dei due studiosi un’altra straordinaria coincidenza che essi non hanno notato – e che non mi pare che sia mai stata sottolineata da altri – ma che invece mi ha sempre colpito e affascinato e che credo debba essere rimarcata. Essa riguarda un verso del XXVI canto appena poco meno famoso di quello al quale è intitolato questo intervento: «de’ remi facemmo ali al folle volo». Nella nota 7 avevo accennato che ne avremmo riparlato.
Ecco di che si tratta.
La relazione tra una imbarcazione e l’immagine delle ali presente nel verso «de’ remi facemmo ali al folle volo» non è nuova: Dante non è il primo a usarla, anzi essa si può considerare uno di quei fili che annodano tra loro poesie di tempi e luoghi diversi: fili che gli amanti della cultura digitale chiamano, nel loro insieme “ipertesto” e che una volta si chiamava semplicemente “collegamento fra testi”.
Dante aveva letto di sicuro almeno il passo del III libro dell’Eneide in cui Enea, nel raccontare a Didone la sua fuga da Troia dice: «velorum pandimus alas» (v. 520) cioè ‘aprimmo le ali delle vele’. Non ci vuole molto a notare, però, che in questo verso virgiliano, quasi sempre citato nei commenti danteschi, la metafora è meno ardita: il fatto che le vele possano somigliare ad ali è un’esperienza comune. Anche il «remigium alarum», cioè il “remigare delle ali” che Virgilio riferisce a Dedalo (Eneide, VI, 19) è un’immagine molto diversa da quella dantesca, anzi, si potrebbe dire che è un’immagine opposta.
Più vicino al testo della Commedia è un verso di Properzio, poeta dell’età augustea contemporaneo e amico di Virgilio. In una delle cosiddette Elegie romane, cioè di quelle dedicate all’antica e recente storia di Roma, l’Elegia IV, 6, parlando della battaglia di Azio, Properzio fa dire da Febo ad Augusto di non aver paura di una flotta che «centenis remiget alis» (v. 47), cioè che “remi con centinaia di ali”. Properzio, però era assai poco noto nel medioevo [15] e non è mai citato da Dante. Insomma, anche se qui il legame con i versi danteschi sembrerebbe diretto, non c’è nessuna prova che Dante avesse letto quel verso di Properzio e difatti sono pochissimi i commentatori che lo citano (tra questi, il Tommaseo).
Virgilio, no. Properzio, no. C’è però un verso di Omero che fa proprio al caso nostro: è quello che finora, come accennavo, mi sembra che non sia stato notato e che ci fa tornare a quella che ho chiamato qui sopra «una straordinaria coincidenza». Non si tratta, infatti, di un verso qualsiasi: siamo nell’XI libro dell’Odissea, quello nel quale Ulisse, su indicazione di Circe, effettua il suo viaggio nel regno dei morti. Qui, lo spirito dell’indovino Tiresia spiega a Ulisse il destino che lo attende dopo essere tornato a Itaca e gli profetizza che, dopo il ritorno in patria, dopo aver riconquistato il potere e superato la violenza dei Proci, dovrà compiere un altro viaggio, un ultimo viaggio, finché – leggo nella traduzione di Aurelio Privitera – … «finché arrivi da uomini che non mangiano cibi conditi col sale, / che non conoscono navi dalle gote purpuree / né i maneggevoli remi che sono per le navi ali». Dopo avere offerto sacrifici a Poseidone, aggiunge Tiresia, «torna a casa e sacrifica sacre ecatombi / agli dei immortali che hanno il vato cielo, a tutti con ordine. Per te la morte verrà / fuori dal mare, […]»[16].
Qui le cose si complicano: rispetto ai pochi e improbabili fili che collegano ad altri versi il verso di Dante «dei remi facemmo ali al folle volo», beh, rispetto a quei pochi fili, questo sembra, senza paragone, il più diretto dal punto di vista del rapporto tra remi e ali. Ma c’è di più. Molto di più. Questo filo collega l’immagine dantesca, non a un verso qualsiasi di Omero, ma proprio a un verso che riguarda Ulisse, che riguarda la discesa agli inferi di Ulisse, che riguarda la profezia sull’ultimo viaggio dell’eroe greco. Non ho torto, se parlo di una «coincidenza straordinaria». Già: coincidenza! Non risulta in nessun modo, infatti, che quel verso potesse essere noto a Dante. Come risolvere l’enigma? Le spiegazioni possibili sono due, molto diverse tra loro.
La prima è che Dante avesse letto quel verso o quei versi in una citazione che li conteneva o in qualche breve brano dell’Odissea tradotto in latino (magari proprio uno di quelli dei quali parla Giovanni Cerri), ma poi perduto e del tutto sconosciuto a noi. Se questo fosse vero, da quella citazione o da quel brano (l’una o l’altro interrotti prima della profezia del ritorno definitivo «a casa»), oltre al rapporto tra remi e ali, sarebbe venuta a Dante l’idea dell’ultimo viaggio. Non esiste, non dico nessuna prova, ma neanche il minimo indizio che ciò possa essere accaduto.
La seconda ipotesi è che, a proposito dello stesso personaggio, Ulisse, a proposito del suo ultimo viaggio (che comunque per Omero non era verso la morte), a Omero e a Dante, a poco più di duemila anni di distanza e senza che il secondo sapesse niente del primo, sia venuta in mente la stessa immagine.
Beh, credo proprio che certe volte, di fronte agli enigmi che la poesia ci presenta, ci si debba fermare. E io mi fermo.

Mi fermo, sì, ma per tornare all’insieme dei versi che ho trascritto qui sopra e, in particolare, a quei due versi «fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza» il primo dei quali sembra essere il più citato del poema dantesco. Vero e proprio fondamento ideale di questo episodio della Commedia, le parole di questi due versi sono state spesso considerate un inno alla virtù e alla conoscenza, o meglio un inno alla virtù della conoscenza.
È vero. Queste parole, tolte dalla bocca di Ulisse e dal contesto nel quale vengono pronunciate (non soltanto il contesto narrativo, cioè l’Inferno, ma anche quello determinato dalle parole che precedono, «considerate la vostra semenza»), queste parole, prese così, chi può dire che non siano un inno alla virtù della conoscenza?
Tuttavia, consideriamo il contesto.
Siamo nell’inferno; più precisamente, quasi nel fondo dell’inferno. Colui che parla è un dannato che si trova lì in quanto è stato un consigliere fraudolento, cioè: è uno abituato a ingannare, a ingannare con le parole. Nei versi precedenti, questo dannato aveva raccontato a Dante de «l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore» e gli aveva spiegato che proprio per quell’«ardore», non era ritornato a casa, dal vecchio padre, dal giovane figlio e dalla moglie Penelope, ma «misi me per l’alto mare aperto / sol con un legno e con quella compagna / picciola da la qual non fui diserto».
Invece (attenzione, “invece”, non “di conseguenza”), dopo essersi aggirato per il Mediterraneo in posti e tra popoli non poi così sconosciuti, soprattutto dai Fenici, già all’epoca della guerra di Troia (ma Dante non lo sapeva), Ulisse racconta di aver deciso di andare a visitare il «mondo sanza gente» dove certamente non poteva accrescere la sua conoscenza «de li vizi umani e del valore». Aggiunge che con una «orazion picciola» è riuscito a convincere i compagni, anzi addirittura a far desiderare loro questa avventura, che va in direzione opposta a quanto progettato in precedenza.
In effetti, questa orazione, benché «picciola», è un capolavoro dell’arte della persuasione. Ulisse si rivolge ai compagni chiamandoli «frati», fratelli, quindi senza più nessuna differenza di grado; ricorda i pericoli attraversati insieme – e superati –; usa la formula delle due negazioni, «non vogliate negar», che è più attenuata non solo di un consiglio, ma persino di una preghiera cortese; e infine li esorta con un appello a considerare la «semenza» dalla quale provengono, cioè il loro stesso appartenere al genere umano, ben diverso da quello animale, da quello dei «bruti», i quali ultimi sì, avrebbero tutto il diritto di tornarsene a casa senza seguire «virtute e canoscenza». Insomma, questa «orazion picciola» avrebbe meritato gli applausi dei più grandi oratori della storia, da Demostene a Cicerone.
Tuttavia, questo dannato che sta nell’inferno per espiare il peccato di aver dato consigli fraudolenti, con le parole che ha rivolto ai suoi compagni, ha compiuto la sua ennesima frode. L’ennesima, ma anche l’ultima. Questa tesi, pur non gradita alla maggioranza dei commentatori, è stata però autorevolmente sostenuta, soprattutto nel corso del Novecento [17]. E io credo che sia l’unica spiegazione di questi versi coerente con il mondo della Commedia, con il mondo interno alla Commedia. Pensiamo alla frase che precede l’esaltazione della conoscenza, quella in cui Ulisse ricorda ai compagni la loro appartenenza al genere umano. Ve ne ho parlato a proposito del contesto. Davvero l’appartenere al genere umano spinge coloro che hanno questa «semenza» ad allontanarsi gli uni dagli altri per seguire virtute e canoscenza? Oppure è vero il contrario? Non è forse vero, infatti, che sia la morale pagana, con Aristotele che proclama l’uomo “animale sociale”, sia la morale cristiana che pone al suo centro la communitas, l’ecclesia, escludono questa idea dell’individuo solitario alla ricerca del sapere? E allora, anche questo appello a considerare la «semenza» non si rivela forse un espediente retorico, il colpo di teatro finale, indirizzato soltanto a convincere compagni vecchi, stanchi e incerti?
Ma entriamo nel merito di quella che Ulisse definisce «canoscenza». Nell’Etica Nicomachea, un’opera che Dante, nella traduzione latina di Guglielmo di Moerbecke, conosceva praticamente a memoria, Aristotele esalta la sapienza come la più alta delle virtù del pensiero. Ma la sapienza della quale parla Aristotele è ben altro. Essa si fonda sulla saggezza, cioè sulla capacità di operare scelte finalizzate alla vita virtuosa. Senza il perseguimento di quel fine, non c’è sapienza. L’Ethica Nicomachea comincia con una affermazione che non lascia dubbi: «Ogni arte e ogni ricerca scientifica e similmente ogni azione ed ogni scelta deliberata tende a un bene; perciò a giusta ragione si è dichiarato che il bene è ciò a cui tutte le cose tendono».
È necessario ricordare qui che l’Ethica Nicomachea è l’opera pagana alla quale i padri della Chiesa, fino a san Tommaso, hanno fatto riferimento per dare una sistemazione teorica alla stessa morale cristiana. Ma c’è di più: quell’opera, è posta da Dante alla base dell’ordinamento dell’inferno ed è esplicitamente citata da Virgilio quando questi spiega a Dante, nell’XI canto, i criteri di quell’ordinamento. Quell’opera che Dante (d’accordo con la Chiesa) considerava la più alta della filosofia morale pagana, quell’opera che a Dante aveva ispirato il modo stesso con il quale i dannati sono puniti e distribuiti nei vari cerchi infernali, ebbene anche quell’opera, ancor prima della venuta di Cristo, negava che la scelta deliberata di Ulisse fosse vera sapienza, vero frutto di una, sia pur estrema e rischiosa, ricerca scientifica. Già per la morale pagana, già per il mondo morale al quale, nella visione dantesca, Ulisse apparteneva, quella scelta deliberata non è dettata dall’amore per la «canoscenza»: questo amore è soltanto l’ultimo argomento retorico addotto per convincere i suoi compagni con una orazione tanto «picciola» quanto, diciamo pure la parola, fraudolenta.
Ecco allora che la scelta di Ulisse si rivela dettata, invece che da desiderio di conoscenza, da una personale volontà di superamento del limite umano: chi è mai andato al di là dei confini posti da Ercole al mondo abitato? Nessun essere umano. Dante stesso raggiungerà sì, guidato da Virgilio, le coste della montagna del purgatorio e ciò avverrà proprio poco dopo quell’incontro nell’inferno con Ulisse. Ma i due non ci arriveranno per mare, bensì seguendo il raggio della terra lungo una «natural burella», un cunicolo, che li conduce lì non senza far sentire a Dante tutte le difficoltà e il peso e i limiti del suo corpo umano. Dante arriva lì in questo modo, che è umano e limitato, nonostante la guida di Virgilio e nonostante il fatto che per quel suo viaggio la Vergine stessa abbia invocato il “frangersi”, il venir meno, delle eterne leggi di Dio [18]. Bene, nonostante tutto questo, Dante arriva sulla costa della montagna del purgatorio, letteralmente, con i suoi mezzi, con i suoi mezzi umani e limitati. E, proprio da lì, guardando il mare che circonda quella montagna, nel I canto del Purgatorio, Dante ricorda che quel lito diserto, è lo stesso «che mai non vide navicar sue acque / omo, che di tornar sia poscia esperto». Ma Ulisse, quello che voleva essere «del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore» (l’uso dantesco nei due diversi passi della stessa parola, «esperto», non può essere casuale) e che poi invece decide di andare dove non ci sono esseri umani, nel «mondo sanza gente», beh, Ulisse era convinto di essere al di sopra di chiunque altro. E, per soddisfare la sua volontà di superamento di un limite che nessun altro aveva superato, inganna i suoi compagni fino a non poterli nemmeno più trattenere.
Se, nel corso della sua vita, Ulisse era stato fraudolento per ragioni storiche, che non lo giustificavano, ma che potevano comunque spiegarne il comportamento, in questo caso è fraudolento per ragioni che possiamo ben chiamare metastoriche: al di sopra e al di là della storia. Quali sono, infatti, queste ragioni? Al di sopra e al di là della storia c’è lui, Ulisse. E basta. Non ci sono altre ragioni.
Per questo, l’anima che Dante incontra là, quasi nel fondo dell’inferno, non è quella di un eroe della conoscenza, ma, vista anche attraverso un metro morale pagano, è quella di un traditore che, a causa della sua superbia, non si ferma davanti a niente.
Vale la pena di ricordare che un altro come lui si trova, lì nell’inferno, poco più sotto: è Lucifero. Anche lui, come è noto a tutti, superbo e orditore di frodi, guarda caso, proprio a proposito della conoscenza.


Note

[1] per cento milia perigli: ‘dopo avere attraversato tantissimi pericoli’.
[2] questa tanto picciola vigilia … rimanente: ‘questa piccola parte di vita che ci rimane’.
[3] la vostra semenza: ‘la vostra origine’, ‘la vostra comune appartenenza al genere umano’.
[4] aguti … cammino: ‘fortemente desiderosi di continuare il viaggio’.
[5] ritenuti: ‘trattenuti’.
[6] volta … nel mattino: ‘rivolta la poppa a oriente’; quindi, con la prua verso occidente.
[7] dei remi … volo: ‘navigammo a tutta forza verso l’ignoto, verso dove era folle navigare’ Su questo verso ritornerò di seguito nel testo.
[8] Tutte le stelle … suolo: ‘la notte’, soggetto astratto al posto di “noi durante la notte”, ‘vedeva già le stelle della calotta celeste dell’emisfero australe; a sua volta, l’altra calotta appariva molto vicina alla linea dell’orizzonte’.
[9] casso: ‘spento’; il lume della luna acceso e spento cinque volte misura cinque mesi lunari, circa centoquaranta giorni.
[10] turbo: ‘turbine’.
[11] Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, a c. di Nicola Fosca, Aracne, Canterano, 2018.
[12] In Occidente, qualche parola di greco comincerà a conoscerla (e male) il Boccac­cio, qualcuna in più (e un po’ meglio) il Petrarca, ma la lingua greca e gli autori greci saranno conosciuti solo nel XV secolo dagli umanisti.
[13] Giovanni Cerri, Dante e Omero. Il volto di Medusa, Argo Editrice, Lecce, 2006.
[14] Vd. Lino Pertile, Dante, la morte di Ulisse e la rovina dell’Odissea, in: “Letteratura Italiana Antica”, 20 (2019), pp. 171-189. L’altro studio di questo autore al quale faccio riferimento, Dante, Ulisse e l’altro viaggio (Inf. I 91), in: “DANTE, Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri”, IV (2007), si può leggere qui.
[15] «All’epoca di San Girolamo [Properzio] cominciava a non essere più conosciuto. Nel sec. XIII la Francia già lo conosceva, come conosceva Tibullo; e in Francia lo conobbe il Petrarca»Ettore Paratore, Storia della letteratura latina, Sansoni, Firenze, 1962, p. 485.
[16] Virgilio, Eneide, trad. di Aurelio Privitera, Fondazione Lorenzo Valla, Milano, 1981.
[17] Si veda il commento di Nicola Fosca che ho citato più sopra.
[18] Beatrice dichiara a Virgilio nel II canto dell’Inferno: «Donna è gentil nel ciel che si compiange / di questo ‘mpedimento ov’io ti mando, / sì che duro giudicio là sù frange» (il corsivo è, ovviamente, mio).

Il topo di campagna e il topo di città
Una favola, tante storie – III

La “veccia” del topo di Orazio arriva al Novecento

«Tante storie, va bene! Ma forse troppe per un topo!» potrebbe dire qualcuno dei miei venticinque lettori ironizzando sul titolo di questo intervento e sul fatto che esso è la terza tappa (la prima si trova qui, la seconda qui) di un lungo e tortuoso viaggio letterario. È vero, le mie letture, dopo aver preso le mosse da quella che poteva sembrare una favoletta senza troppa importanza, hanno fatto parecchia strada. È stato sufficiente che, di quella favoletta, io traducessi la parola ervum con ‘veccia’, per mettere in moto una serie di relazioni tra testi letterari che nei miei interventi precedenti ho paragonato, a causa del loro andamento a zig-zag, ai movimenti della pallina di un flipper.
Finora ho seguito quei movimenti dalla Satira II, vi di Orazio e dalla traduzione che ai primi dell’Ottocento ne ha dato Antonio Pagnini, fino ai Promessi sposi del Manzoni, non senza passare da un sonetto del Burchiello e da una satira dell’Ariosto. Ora il traguardo è vicino. Ma, prima di raggiungerlo, devo passare (o meglio: mi piace passare) attraverso la lettura de Le avventure di Pinocchio: ciò che, del resto, avevo già preannunciato nel precedente intervento, quando avevo parlato delle tracce importanti lasciate dalla parola ‘veccia’ nella storia letteraria del XIX secolo. Non c’è dubbio, infatti, che Le avventure di Pinocchio siano un testo importante di quella storia.

Carlo Collodi (1826-1890; pseudonimo di Carlo Lorenzini) pubblicò questo libro nel 1883, rimaneggiando e riadattando la storia del burattino di legno che aveva già pubblicato a puntate nel 1881 sul «Giornale per i bambini». Riproduco i brani qui sotto dalle pagine della prima edizione del libro (Firenze, Paggi, 1883). Essi si riferiscono al momento in cui Pinocchio è alla ricerca di Geppetto il quale, a sua volta, si era messo in mare per cercare lui. Come giungere al mare? Pinocchio trova un aiuto insperato in un colombo che, niente meno, se lo carica sul dorso.


Cap. XXIII
Volarono tutto il giorno. Sul far della sera, il Colombo disse:– Ho una gran sete!– E io una gran fame! – soggiunse Pinocchio. – Fermiamoci a questa colombaia pochi minuti; e dopo ci rimetteremo in viaggio, per essere domattina all’alba sulla spiaggia del mare. Entrarono in una colombaia deserta, dove c’era soltanto una catinella piena d’acqua e un cestino ricolmo di veccie. Il burattino, in tempo di vita sua, non aveva mai potuto patire le veccie: a sentir lui, gli facevano nausea, gli rivoltavano lo stomaco: ma quella sera ne mangiò a strippapelle, e quando l’ebbe quasi finite, si voltò al Colombo e gli disse:– Non avrei mai creduto che le veccie fossero così buone! – Bisogna persuadersi, ragazzo mio, – replicò il Colombo, – che quando la fame dice davvero e non c’è altro da mangiare, anche le veccie diventano squisite! La fame non ha capricci né ghiottonerie!


Poco dopo, dopo una notte passata a nuotare, sempre alla ricerca di Geppetto, approdato miracolosamente su un’isola e, qui, arrivato nel “Paese delle api industriose”, Pinocchio è ancora una volta morso dalla fame:


Cap. XXIV
Intanto la fame lo tormentava; perché erano oramai passate ventiquattr’ore che non aveva mangiato più nulla: nemmeno una pietanza di veccie.


Pinocchio nella illustrazione di Enrico Mazzanti sul frontespizio dell’edizione Paggi del 1883

Le avventure di Pinocchio sono un testo tanto importante quanto popolare: è da escludere che il suo autore abbia voluto usare una parola rara. Al contrario, qui la parola ‘veccia’ compare proprio perché popolare. Il Collodi ha forse un vago ricordo della traduzione che il Pagnini aveva fatto della Satira II, vi di Orazio? È probabile. Le ‘vecce’ hanno per Pinocchio la stessa funzione che hanno per il topo di quella satira: placare la fame senza «capricci né ghiottonerie»; sono proprio il cibo povero del quale il topo di campagna si accontenta pur di vivere tranquillo. Come tanti altri intellettuali suoi contemporanei, anche il Collodi può aver letto Orazio nella traduzione del Pagnini; anzi, magari lo avrà studiato a scuola dato che aveva frequentato cinque anni di seminario a Colle Val d’Elsa e aveva completato il suo percorso di istruzione alle Scuole pie S. Giovannino di Firenze: istituti nei quali i testi del padre carmelitano Pagnini dovevano essere tra quelli più accreditati per la formazione linguistica (in latino e in italiano) e morale dei giovani. Il Collodi aveva certamente letto i Promessi sposi. E tuttavia, sia che avesse letto entrambe le opere sia che ne avesse letto una soltanto, c’è, a mio parere, un indizio che ci avverte di come l’autore di Pinocchio abbia voluto segnare una differenza rispetto a esse: l’uso della forma «veccie». Avete visto qui sopra che io ho sempre usato ‘vecce’ come forma plurale di ‘veccia’; e così pure hanno fatto, a suo tempo, il Pagnini e il Manzoni (trovate qui le rispettive citazioni). La forma ‘vecce’ è coerente con l’uso ortografico che si è venuto affermando tra Otto e Novecento e che è stato infine fissato come norma nel 1949[1]. Ma Carlo Collodi, nella prima edizione del suo Pinocchio[2], scrisse «veccie». Nessuno ha pensato finora che l’uso di questa forma fosse il frutto di una scelta stilistica. Ma, domando: se non fosse stata una scelta stilistica, perché il Collodi avrebbe scritto in quel modo? Perché era ignorante? Niente affatto. Anche per effetto della solida formazione della quale ho detto qui sopra, era un dotto cultore della lingua italiana ed era ben conosciuto come tale. Nel 1868, infatti, il ministro dell’Istruzione pubblica Emilio Broglio, quando formò una commissione di studiosi con l’incarico «di preparare tutti i provvedimenti e i modi coi quali si possa aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua», inserì il Lorenzini come «membro straordinario della giunta che avrebbe avuto il compito di compilare il vocabolario dell’uso fiorentino» [3]. Il Collodi sapeva perfettamente qual era l’uso considerato regolare per l’ortografia di quel plurale. Tanto è vero che, in quella stessa prima edizione de Le avventure di Pinocchio, rispettò quell’uso scrivendo «bucce» (parecchie volte, pp. 32 e 33), «figuracce» (p. 63), «risatacce» (p. 136). Allora, una sola conseguenza si può trarre, anche se finora non mi risulta che nessuno ci abbia pensato: che egli abbia scritto «veccie», con singolare e consapevole perseveranza, per distinguere le sue ‘veccie’ veramente popolari dalle ‘vecce’ che aveva trovato nella traduzione oraziana del “letteratissimo” sacerdote Pagnini, che pur parlava soltanto dell’alimento di un topo, e da quelle che aveva trovato nel romanzo del non meno “letterato” Manzoni, che pure aveva attribuito i discorsi in cui esse compaiono a personaggi appartenenti al popolo. Guardate dove ci porta il nostro viaggio in compagnia del topo di Orazio!

A queste considerazioni bisogna aggiungere il fatto che Carlo Collodi non fu il solo, in quel periodo, a usare la forma plurale «veccie». Niente affatto. Una ventina di anni dopo la pubblicazione de Le avventure di Pinocchio, a usare quella stessa forma fu, niente meno, un professore: professore al liceo dal 1882 e all’Università dal 1896: parlo di Giovanni Pascoli.
Siamo alla fine del 1903. Proprio all’inizio di quell’anno, il Pascoli, già molto noto per la sua raccolta Myricae (1891; arrivata nel 1996 alla terza edizione), aveva pubblicato i Canti di Castelvecchio. La sua fama non era certo inferiore a quella del suo maestro Carducci. Nel 1897 aveva pubblicato una raccolta, Poemetti, che raccontava (con molte divagazioni), in terzine dantesche, le vicende di una famiglia di contadini, padre, madre e quattro figli, due maschi, Nando e Dore, e due femmine, Rosa e Viola: una famiglia come tante altre nelle campagne tra la Toscana e la Romagna. Dopo avere già incrementato quella raccolta in una seconda edizione nel 1900, il poeta aveva deciso di ampliarla in modo consistente tra la fine del 1903 e l’inizio del 1904, modificandone anche il titolo in Primi poemetti perché aveva già in mente di aggiungere a essa una successiva raccolta di Nuovi poemetti (che sarebbe uscita nel 1909), sempre imperniata sulle vicende di quella immaginaria – ma realistica – famiglia. Una delle aggiunte ai Nuovi poemetti fu la sezione Le armi, dedicata, non agli ordigni bellici, ma agli strumenti del lavoro contadino[4]. In questa sezione si fa sentire con particolare insistenza l’intenzione del poeta di riprodurre i linguaggio popolare, intenzione già chiara nelle precedenti sezioni nelle quali, per esempio, il padre di quella famiglia colonica viene spesso chiamato «il capoccio». La sezione Le armi comincia con un verso che è già esemplare in questo senso: «”Nando!” al su’ omo disse il babbo “Nando! / […]”», dove il «su’ omo» è ‘il suo figlio maggiore’. Ma, ecco, nei versi dedicati alla «frullana», termine doppiamente popolare, se così si potesse dire[5], il riferimento a coloro che, già «prima dell’aurora» tagliano tutte le erbe del prato, di qualunque tipo esse siano:


[…]          È gente
che falcia; taglia tutto, paleino,
loglio, trifoglio, veccie, timi, mente.


In questo caso l’intenzione popolareggiante del Pascoli è evidente in tutto il brano e la forma ‘veccie’ traduce quella intenzione certamente meglio di ‘vecce’, forma ortografica della quale il professor Pascoli era certamente ben informato: tanto è vero che in altri versi della stessa raccolta scrive «brecce» e «frecce» (e così fa anche altrove). È bene aggiungere almeno tre informazioni. La prima: il Pascoli era uno che, quando si trattava di poesia latina, non aveva bisogno di traduzioni; ma non si può escludere che nei suoi studi filologici avesse letto la traduzione che delle Satire oraziane aveva fatto il Pagnini. La seconda: tanti indizi inducono a pensare che avesse letto Le avventure di Pinocchio, anche se era già trentenne quando era uscito il libro di Collodi. La terza: certamente aveva letto i Promessi sposi. Queste «veccie» derivano da qualcuna delle sue letture oppure dalla diretta conoscenza che il Pascoli aveva di tante piante, una conoscenza forse meno “professionale”, ma certo non meno approfondita di quella che, nel precedente intervento, abbiamo riscontrato nel Manzoni “fattore” della tenuta di Brusuglio? Purtroppo a questa domanda è quasi impossibile rispondere, ma il dubbio che le letture abbiano, per così dire, rinforzato la conoscenza diretta delle piante è, almeno, legittimo. Così come è legittimo pensare che anche il Pascoli, come il Collodi, abbia voluto segnare una differenza rispetto a quei precedenti e che lo abbia fatto con l’uso di una forma ortografica antiquata, sì, ma proprio per questo “popolare”.
Tutto questo sembrerebbe confermato dal fatto che il Pascoli insiste. Di «veccie» ci parla anche in un’altra opera, i Poemi conviviali, pubblicati in quello stesso 1904. In questa raccolta egli reinterpreta o rivisita, in endecasillabi sciolti, alcuni grandi miti. In particolare, nei Poemi di Psyche racconta la prima delle prove alle quali la fanciulla Psiche fu sottoposta, secondo il racconto di Apuleio (125 ca – 180 ca)[6], dopo la sua forzata separazione da Amore. Il compito al quale attende è quello di separare gli uni dagli altri vari semi mischiati in un unico grande mucchio (vd. la nota 6):


E tu devi, d’un mucchio alto di semi,
far tanti mucchi, e sceverare i grani
d’orzo, i chicchi di miglio, le rotonde
veccie, i bislunghi pippoli di rena.
E come fine polvere di ferro
sparsa per tutto il mucchio è la semenza
dei papaveri. E tu, Psyche, tu gemi
[…].
E piangi, ed ecco vengono le figlie
dell’alma Terra, frugole e succinte,
dalla pineta dove a Pan selvaggio
frangean tra gli aghi dei pinastri il suolo.
Non so chi disse alle operaie nere
di Pan la cosa. Ma si fa d’un tratto
un brulichìo per l’odorata selva;
e sgorgano esse a frotte dai minuti
lor collicelli, mentre Pan nell’ombra
s’addorme al canto delle sue cicale.
E salgono alla casa, onda su onda,
fila incessante di formiche, ed opre[
7]
vengono a te; ma prima i grani d’orzo,
pesi, e i bislunghi pippoli di vena
portano, due di loro uno di quelli;
fanno le veccie di tra il biondo miglio,
poi fanno il miglio minimo, poi vanno.
E resta a te la polvere di semi,
di cui ciascuno dal suo nulla esprima
un lungo stelo e il molle fior del sonno.


Anche qui, in un’opera nella quale, in generale, non indulge al linguaggio popolare, tuttavia il Pascoli, quando parla di erbe, lui che, come ho già ricordato, le conosceva bene e le amava, tende a indicarle con quelli che chiamerei affettuosi richiami ai modi di dire popolari: non si può considerare altrimenti una espressione come «i bislunghi pippoli di vena» che sostituisce, addirittura con un vocabolo “infantile”, «gli allungati chicchi di avena». Per questa ragione, anche nei Poemi conviviali, come nei Primi poemetti (opere, d’altronde, pubblicate quasi contemporaneamente) le «veccie» appaiono nella loro forma plurale ortograficamente non aggiornata, ma, come ho già detto, più corrispondente a un modo “popolare” di pensarla scritta.

Che viaggio abbiamo compiuto! Ma non siamo ancora arrivati al traguardo. Dobbiamo seguire un ultimo zig-zag di questa parola povera e umile come il legume che indica, eppure capace di attraversare senza stancarsi secoli di letteratura. L’ultimo zig-zag ci porta – l’avevate capito sin dall’inizio? – a Eugenio Montale.

Montale usa la parola «veccia» in una delle sue poesie più belle e famose, Meriggiare pallido e assorto, pubblicata nella prima edizione degli Ossi di Seppia (Torino, Gobetti, 1925), ma uscita in realtà già nel 1924 (nella rivista «Il Convegno»). Dato che il poeta usa «veccia» al singolare, qui non si tratta più di stabilire se il poeta abbia voluto farci vedere la forma popolare di una parola che indica un’erba: tra l’altro, l’insieme del componimento indica piuttosto chiaramente la sua volontà di usare parole rare; il contrario della scelta stilistica del Collodi e del Pascoli. Quello che importa, rispetto all’uso montaliano di questa parola, è stabilire se per caso il poeta, mentre la scriveva, non abbia avuto presente uno dei tanti testi che ho citato fin qui nei miei tre interventi sul topo di Orazio.
Partiamo da una data: il 1916. Il poeta stesso ha affermato [8] di aver composto Meriggiare pallido e assorto nel 1916. Siamo appena dodici anni dopo l’uscita dei Primi poemetti e dei Poemi conviviali del Pascoli. Proprio in quel 1916 Montale, subito dopo il suo diploma di ragioniere (1915), aveva cominciato a frequentare le biblioteche di Genova insieme a (e, forse, con la guida di) sua sorella Marianna, che stava per iscriversi alla facoltà di Lettere e Filosofia. Inutile dire che, a parte Gozzano[9], i due poeti più famosi alla cui lettura il ventenne Montale poteva pensare di dedicarsi in quelle biblioteche erano D’Annunzio e Pascoli: entrambi amanti, è bene ricordare (soprattutto il primo), del nome “meriggio” e del verbo “meriggiare”. Ma, prima di continuare, leggiamo Meriggiare pallido e assorto.


Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.


Non mi soffermo qui sull’intera poesia (potete ascoltare in questo video un mio intervento in proposito). Quello che importa, arrivati al traguardo del mio lungo viaggio a zig-zag, è verificare se la «veccia» che compare in questi versi deriva soltanto dalla osservazione che Montale fa del paesaggio e dalla sua conoscenza delle piante (che, per quanto ne sappiamo, non era minimamente paragonabile a quella del Manzoni o del Pascoli) o se invece non risenta in qualche modo di un rimbalzo proveniente da uno dei testi che abbiamo seguito fin qui.
In questo caso è il poeta stesso, il ventenne Montale imbevuto di recenti letture, a darci un indizio decisivo. La sua «veccia» ha qualcosa in comune con le «veccie» del Poema di Psyche: «le file di rosse formiche». Formiche che, nei versi pascoliani erano nere, va bene, ma che, proprio come in quei versi, sono colte nell’atto di uscire tutte insieme (Pascoli scrive: «a frotte»; Montale sottolinea le «file») da quei piccolissimi monticelli di terra che segnano il punto di accesso di un formicaio. Quei piccolissimi monticelli il Pascoli li chiama, con parola “popolare” «collicelli» e il Montale, con termine desueto e coltissimo, «biche». Ma la scena è la stessa.
Si possono avere dubbi? In questo caso non direi. Montale, forse, ha davvero visto la veccia in qualche prato incolto, ma la «veccia» che compare nei suoi versi gli viene da Pascoli, e le formiche, rosse o nere che siano, camminano, «a frotte» o in «file», niente meno, da L’asino d’oro di Apuleio. Se e così – e credo proprio che sia così – la poesia di Montale Meriggiare pallido e assorto la possiamo considerare l’ultimo bersaglio colpito da quella pallina di flipper partita quasi duemila anni prima dai versi di Orazio.

L’ultimo bersaglio? Ma no. Quella pallina sbatterà ancora chissà dove, chissà quando, chissà quante altre volte. Che bellezza!
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Il topo di campagna e il topo di città
Una favola, tante storie – II

La “veccia”: dalla mensa povera del topo di Orazio fino alla poesia del Novecento

Nel mio precedente intervento sulla VI Satira del II Libro di Orazio, a proposito di un’eco in quella satira della Bucolica III di Virgilio, ho ricordato che la storia della letteratura – e, in particolare, quella della poesia – non è una sequenza di testi, ma una interazione tra testi: è fatta di testi che si rispondono come echi, di testi che rimandano l’uno all’altro come se fossero colpiti dalla pallina di un flipper. Avevo concluso il mio intervento con la promessa che avrei seguito quella «pallina» a partire da Orazio fino ad arrivare al XX secolo. Ecco: mantengo qui la mia promessa. In questo caso la molla che spinge la «pallina» è la traduzione della parola ervum con l’italiano ‘veccia’. Questa parola, che forse in molti di voi risuona per il ricordo, magari non esplicito, di un verso famosissimo di un poeta del Novecento (che per ora non vi rivelo), percorre vie impensabili nel corso dei secoli. Per seguirle avrò bisogno di due puntate: quindi, alla fine, gli interventi sul topo di Orazio saranno tre.

Ho già avvertito nel precedente intervento che nella mia traduzione io ho usato la parola ‘veccia’ perché ho voluto adottare lo stesso termine usato più di due secoli fa da Antonio Pagnini [10].
Vi assicuro che non si è trattato di un vezzo intellettualistico: ecco, in particolare, le ragioni della mia scelta. Ervum indica in latino varie leguminose, tra le quali anche la lenticchia. Tuttavia, in nessuno dei due luoghi che ho citato, la VI Satira del II Libro di Orazio e la Bucolica III di Virgilio, è possibile pensare che i poeti vogliano alludere alle lenticchie. Infatti, come abbiamo visto, Orazio attribuisce al topo gusti umani e parla di ervum come di un cibo povero di sostanza (tenue) mentre le lenticchie non lo sono affatto. Virgilio parla addirittura di ervum come di un alimento per bovini ed è escluso che le lenticchie potessero essere utilizzate, allora e mai più, in quel modo. “Veccia” indica in italiano proprio un genere di leguminose povere e prevalentemente destinate all’alimentazione animale. Se non è la stessa erba alla quale pensava Orazio, almeno le assomiglia molto. ‘Veccia’ è un termine che, nella storia della nostra lingua, è rimasto a lungo circoscritto al linguaggio popolare e a quello tecnico dell’agricoltura (e, in questo ambito, è usato ancora oggi): di conseguenza era quasi del tutto sconosciuto alla letteratura italiana “colta” fino a quel 1814. E dopo? Le cose sono cambiate, ma non dobbiamo avere fretta: cominciamo dal principio.

Il primo testo letterario italiano – naturalmente non “colto” – in cui è presente questa parola potrebbe essere un sonetto caudato di Domenico di Giovanni (1404-1449) il barbiere poeta fiorentino noto come il Burchiello. Ahi! Ci troviamo in un bel guaio. Infatti ho usato il condizionale. Proprio perché “popolare”, molto popolare, l’opera del Burchiello ha costituito per un bel po’, ai suoi tempi e per qualche secolo, una specie di “cassa comune” poetica dalla quale attingere e nella quale versare i più svariati componimenti purché fossero scritti “alla burchiellesca”. «[…] il nome di Burchiello divenne quello di uno stile e i copisti cessarono presto di distinguere tra imitatori e imitato», ha scritto, con una sintesi perfetta, Claudio Giunta [11]. Il sonetto al quale io mi riferisco, Io vidi un dí nel Serpilongo un fosso, compare, al posto CCCII, in una fortunata edizione settecentesca, Sonetti del Burchiello, del Bellincioni e d’altri poeti fiorentini alla burchiellesca, Londra, 1757 (senza indicazione dell’editore, ma in realtà pubblicato in Toscana, probabilmente a Lucca: Londra come sede di pubblicazione serviva per evitare i problemi di censura del Granducato). Come si vede già dal titolo, anche questa raccolta è un’opera collettiva e non è ben chiaro in che modo sia stata attribuita al Burchiello la paternità di alcuni sonetti e non di altri e viceversa. L’edizione critica curata venti anni fa da Michelangelo Zaccarello [12], basata sulla cosiddetta Vulgata quattrocentesca (la più autorevole edizione del XV sec., del 1481) , non riporta, tra gli altri, proprio questo sonetto. Lo stesso vale anche per le altre edizioni quattrocentesche che io sono riuscito a consultare. La conseguenza che se ne può trarre è la seguente: il sonetto (che non si sa da chi sia stato scritto), a un certo punto (ma quando? Anche questo è incerto), è entrato nella tradizione burchiellesca e l’edizione del 1757 non è andata evidentemente troppo per il sottile e lo ha attribuito al Burchiello in persona. I versi che ci interessano si riferiscono a un gruppo di poveracci che vendono legna per pochi soldi:


Così la mala povertà gli doma,
di verno scalzi, e pochi panni addosso:
pan di saggina, di miglio, e di vecce,
son le vivande della pecorella [
13],
[…]


Ecco: in questi versi la veccia è uno degli ingredienti di un pane che contiene di tutto tranne il grano. Cibo dei poveri. Non sappiamo, come ho chiarito sopra, se questi versi siano proprio del Burchiello, ma non dimentichiamo che sono versi a lui attribuiti in una edizione settecentesca molto diffusa. Non dimentichiamolo, perché tra poco ci torneremo.

Nel frattempo parliamo della presenza del termine «veccia» in un’altra opera, questa volta di un autore della letteratura “colta”: dell’Ariosto. L’opera alla quale mi riferisco è la sua II Satira, scritta nel 1517. Date le perplessità che ho espresso prima, magari è proprio questa la prima volta che la ‘veccia’ si trova in un testo della letteratura italiana. Dunque, la ‘veccia’ compare, come l’ervum, in una satira: uno di quei componimenti nei quali l’Ariosto si richiama direttamente proprio a Orazio con citazioni e rimandi a volte espliciti, a volte più nascosti, ma comunque segno di un costante riferimento a un vero e proprio modello; uno di quei componimenti, bisogna aggiungere, nei quali il linguaggio popolare, naturalmente come citazione scherzosa, non solo non era escluso, ma anzi era richiesto dal genere. Nella II Satira, indirizzata al fratello Galasso, il poeta se la prende con tutti i gradi della carriera ecclesiastica, dal chierico al papa. Proprio lui che stava per recarsi a Roma per ottenere i benefici economici di una parrocchia, ma, questo era il punto, senza l’obbligo del sacerdozio [14]. Ebbene, all’interno di questa sua invettiva anticlericale, l’Ariosto afferma che, quanto più è ricco, tanto più chi ricopre alti gradi ecclesiastici «assottiglia / la spesa» e, di conseguenza, i suoi servi sono ridotti oltre che a mangiar meno carne, ad adattarsi «al pan di cui la veccia / nata con lui, né il loglio fuor si cribra» <[15]. Ancora una volta la fame dei poveri: e il pane fatto con ingredienti che non riescono a spegnere quella fame.

Ma torniamo al Pagnini. Questo è il momento giusto per leggere la sua traduzione degli ultimi versi della Satira II, vi di Orazio:


[…] Cotesta vita
non fa per me. Te la rinunzio [
16]. Il bosco
e la mia tana da’ perigli immune
di secche vecce mi faran contento.


Non è del tutto escluso che il Pagnini abbia tradotto il tenue ervum oraziano con «secche vecce» perché aveva trovato questo termine in un trattato di mezzo secolo prima, Delle specie diverse di frumento e di pane, e della panizzazione, pubblicato nel 1765, con un certo successo, da Saverio Manetti. Ho già accennato al fatto che il termine, oltre che al linguaggio popolare, apparteneva anche a quello tecnico dell’agronomia. Tuttavia, è assai probabile che, per preparare il proprio stile alla traduzione delle Satire di Orazio, il Pagnini abbia letto quelle dell’Ariosto e, pur avendo preferito l’endecasillabo sciolto rispetto all’uso ariostesco della terzina per questo genere poetico, non abbia però dimenticato certi momenti particolarmente intensi di quella sua lettura. Di certo l’attacco anticlericale della II Satira era uno di quelli difficili da dimenticare, soprattutto in considerazione del fatto che il Pagnini era un sacerdote dell’Ordine dei Carmelitani! Per la stessa considerazione sorvolerei sulla eventualità che il Pagnini abbia letto i Sonetti del Burchiello, del Bellincioni e d’altri poeti fiorentini alla burchiellesca, ciò che è possibile, ma che avrebbe comportato altri seri problemi di coscienza. Di una cosa però possiamo essere certi: che, dopo quella sua traduzione (attenzione, non ho detto: “a causa di quella sua traduzione”, ma soltanto “dopo”) il termine ‘veccia’, nella forma singolare o plurale, lascia tracce importanti nei testi della nostra letteratura. E, se dico importanti, un motivo c’è.

Le prime due tracce le troviamo infatti, niente meno, nei Promessi sposi, già nell’edizione del 1827 e, con piccole varianti, in quella del 1840. Di «veccia» o «vecce» il Manzoni parla nel cap. XII (quello, per intenderci, della cosiddetta “rivolta del pane” al culmine della carestia) e nel cap. XXIV (quello nel quale Lucia viene liberata dopo la conversione dell’Innominato). Nel cap. XII chi parla è uno dei manifestanti; nel XXIV è la «buona donna» che don Abbondio ha condotto ad assistere Lucia al momento della liberazione e che subito dopo, l’ha portata a casa sua e le ha generosamente preparato da mangiare Leggiamo:
Ed. 1827


Cap. XII
«Baroni!» sclamava un altro: «si può far di peggio? sono arrivati fino a dire che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per torgli il credito, e comandare essi soli. Bisognerebbe fare una gran capponaia, e cacciarveli dentro, a vivere di veccia e di loglio, come volevano trattar noi.»
Cap. XXIV
«Tutti s’ingegnano oggi a metter tovaglia,» aggiugneva: «fuor che quei poveretti che stentano ad aver pane di veccia e polenta di saggina; però oggi da un signore così caritatevole sperano di buscar tutti qualche cosa. Noi, grazie al cielo, non siamo in questo caso: tra il mestiere di mio marito, e qualche cosa che abbiamo al sole, si campa.»


Ed. 1840


Cap. XII
«Scellerati!» esclamava un altro: «si può far di peggio? sono arrivati a dire che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per levargli il credito, e comandar loro soli. Bisognerebbe fare una gran capponaia, e cacciarveli dentro, a viver di veccia e di loglio, come volevano trattar noi.»
Cap. XXIV
«Tutti s’ingegnano oggi a far qualcosina,» aggiungeva: «meno que’ poveri poveri che stentano a aver pane di vecce e polenta di saggina; però oggi da un signore così caritatevole sperano di buscar tutti qualcosa. Noi, grazie al cielo, non siamo in questo caso: tra il mestiere di mio marito, e qualcosa che abbiamo al sole, si campa. […]»


Lucia in una illustrazione del cap. XXIV dei Promessi Sposi realizzata per l’ed. 1840 da Francesco Gonin

Due osservazioni è necessario fare sull’uso manzoniano della parola ‘veccia’.

La prima, piuttosto semplice, riguarda il fatto che, come forse pochi sanno, il Manzoni era un espertissimo “fattore” che aveva studiato, approfondito e applicato, in particolare nella sua tenuta di Brusuglio, i metodi di coltivazione di moltissime piante, da quelle da giardino a quelle da frutta alla vite. In particolare, per quanto riguarda cereali e foraggi e l’alternanza di queste colture, collaborava con la famiglia di mons. Luigi Tosi (la sua guida spirituale a Milano dopo la conversione) ai lavori per la bonifica di terreni aridi nella zona di Malpensa. Quindi, quando parlava di ‘veccia’ sapeva benissimo di che erba si trattava [17]. Si può ben dire, letteralmente, che il Manzoni conoscesse la botanica dalla a alla zeta, poiché aveva studiato la nomenclatura di Carlo Linneo e lavorò per gran parte della sua vita al progetto di un Saggio di una nomenclatura botanica [18] che aveva addirittura l’ambizione di superare la classificazione linneana.

La seconda osservazione riguarda proprio il testo dei due passi dove compare la ‘veccia’ (nella forma singolare o plurale).
Nel cap. XII si parla di gran signori che meriterebbero di «viver di veccia e di loglio», proprio come loro avrebbero voluto far vivere i poveracci. A nessuno può sfuggire come l’associazione della veccia e del loglio richiami da vicino i versi ariosteschi che prima ho citato. Il Manzoni, che certamente li conosceva, li aveva in mente quando ha messo quelle parole in bocca a un popolano? È probabile: il riferimento sociale determinato dal contrasto ricchi-poveri, è assai simile. È difficile non pensare che la pallina, dalla II Satira dell’Ariosto sia schizzata al cap. XII dei Promessi sposi.
Nel cap. XXIV si parla proprio di pane. Come il Manzoni ci racconta nelle righe precedenti a quelle che ho trascritto qui sopra, la donna che aiuta Lucia e che sta per offrirle «un buon cappone» ricusa, «con un certa rustichezza cordiale, i ringraziamenti e le scuse» che la stessa Lucia rinnova ogni tanto. Il ragionamento della buona donna è, in sostanza, questo: altri hanno problemi; io e la mia famiglia no; quindi Lucia non stia a preoccuparsi. Chi ha dei problemi? Beh, ma quelli che stentano persino ad avere «pan di vecce e polenta di saggina». Qui, anche se nel testo manzoniano si intromette il riferimento alla polenta, la vicinanza delle vecce e della saggina – voce schiettamente toscana per una graminacea che in italiano si chiama sorgo e in Lombardia è detta melega – fa subito pensare al Burchiello. Un Burchiello che doveva essere noto al Manzoni già prima del suo cosiddetto “risciacquamento dei panni in Arno”, dato che, sia pure con ‘veccia’ al singolare, la frase compare nell’ed. del 1827. Questa volta la presenza della ‘saggina’ basterebbe da sola a togliere ogni dubbio. Ma c’è un particolare decisivo: se andiamo a dare un’occhiata ai libri posseduti dal Manzoni – sorpresa! O forse no? – troviamo l’edizione del 1757 dei Sonetti del Burchiello, del Bellincioni e d’altri poeti fiorentini alla burchiellesca[19]. Quell’edizione, indipendentemente dalla sua correttezza filologica, aveva fatto rimbalzare proprio bene la pallina di quel flipper del quale ho detto, per metafora, all’inizio di questo intervento questo intervento.

Ho parlato di tracce importanti del termine ‘veccia’ nella letteratura italiana dai primi dell’Ottocento in poi. E, dopo quelle che abbiamo trovato nei Promessi sposi, non vi sembrano forse importanti anche quelle che troviamo in Pinocchio? Importantissime, direi, dato l’immediato e straordinario successo di pubblico che ha avuto quel libro. Tanto importanti che, con il ritrovamento di queste tracce, avvierò il mio terzo intervento su quello che ormai chiamo familiarmente il topo di Orazio.

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Il topo di campagna e il topo di città
Una favola, tante storie – I

Orazio: quei topi così umani!

Quinto Orazio Flacco, del quale molti hanno sentito il nome e che qualcuno ha studiato a scuola, è un poeta vissuto tra il 65 e l’8 a.C. La VI Satira del II Libro, della quale vi propongo qui sotto alcuni versi, è del 30.
Otto anni prima Orazio era stato presentato a Mecenate, il potente consigliere di Augusto. Indovinate da chi? da Virgilio e dal suo amico Vario Rufo: un bel gruppetto, non c’è che dire. Comunque, subito dopo essere stati presentati, i due erano diventati grandi amici. Certo, amici con una bella differenza di potere e di ricchezza, ma amici. Orazio nel 37 aveva accompagnato Mecenate in una missione non facile anche se poi andata a vuoto; Mecenate, intorno al 33, gli aveva regalato una villa in Sabina.
Questo regalo, ricchissimo e graditissimo, provocò tuttavia un problema: il piacere di abitare in campagna finì per superare nel poeta quello di stare in città. Come racconta nella prima parte della Satira (il testo completo si trova qui), non si trattava soltanto di un generico malcontento per la vita frenetica che si conduceva a Roma. Dell’amicizia di Orazio e Mecenate ormai tutti erano al corrente: da qui invidie, richieste di raccomandazione, di favori per interposta persona. Insomma il povero poeta non ne poteva più. O almeno, nella prima parte della sua Satira, dice così. Nella seconda parte ecco un altro mondo: quello delle conversazioni tra vicini in campagna. Sono tranquille, non riguardano gli affari della città, ma i valori della vita. Uno dei vicini, Cervio, racconta le favolette della nonna e, quando qualcuno esalta le ricchezze di un noto possidente, questo Cervio racconta la favola che potete leggere (con un piccolo taglio) qui sotto con la mia traduzione.

Quinto Orazio Flacco, VI Satira del II Libro (vv. 79-95 e 111-117)
Traduzione di Michele Tortorici


Ospitò – si racconta – una volta un topo di campagna
nel suo povero buco un topo di città, un vecchio amico che l’aveva
a sua volta ospitato. Attento
al suo faticato gruzzoletto, il primo
sapeva aprire però il suo meschino animo
all’ospitalità. A farla breve, i ceci
che aveva messi da parte non li risparmiò e neppure
i lunghi chicchi d’avena, anzi
portò con la sua stessa bocca all’altro
acini d’uva secca e bocconcini
di lardo già in parte mangiati perché voleva con tanti e così vari
alimenti vincere
il disgusto di quello che toccava sì e no i singoli cibi con il suo
gusto difficile. Intanto lui, il padrone di casa, disteso
sulla paglia fresca, lasciava
il meglio del pranzetto e mangiava, di suo, la spelta e il loglio.
A lui, infine, si rivolse il topo di città: «Ma ti piace, amico,
sopportare questa vita su un pizzo boscoso di montagna?
Perché non preferisci, piuttosto che i boschi,
le città e la compagnia degli uomini?
Vieni via, fidati, ai terrestri
in sorte son capitate anime mortali: nessuno
grande o piccolo, può sfuggire alla morte.

[Insomma, con un invito a godere apparentemente oraziano (poi vedremo perché non davvero oraziano) il topo di città convince il suo amico campagnolo a seguirlo. Si mettono in viaggio, passano di notte le mura della città, e arrivano a una casa lussuosa: drappi rossi, divani d’avorio, avanzi di cibo abbondanti. Il topo di città fa gli onori di casa, e quello di campagna si gode questa inversione di ruoli. Però … riprendiamo la lettura del testo oraziano]

[…] Ed ecco, all’improvviso
un picchiare di porte li sbatte tutti e due giù dai divani
e, via, correre spaventati per tutta la sala, più ancora
senza fiato inorridire quando la casa prende a risuonare di latrati
di cani molossi. Subito allora il topo di campagna: «Questa vita
– disse – non fa per me. Stammi bene: compenserò
con la vita nel bosco e con il mio buchetto, sì,
ma al sicuro dai pericoli la poca sostanza della veccia.


La statua di Orazio a Venosa, sua città natale: è opera di Achille D’Orsi (1898),

Nella mia traduzione in versi liberi ho cercato di rendere al massimo la scorrevolezza narrativa degli esametri delle Satire oraziane e di questa in particolare. Orazio scrisse anche altre poesie satiriche, che chiamò Giambi, dal metro che aveva prevalentemente usato: un metro più dinamico e aggressivo. Ma questi componimenti che noi chiamiamo Satire (e a causa dei quali Dante stesso, quando parla di Orazio, dice «Orazio satiro»), in realtà lui li aveva chiamati Sermones, cioè “Conversazioni”.
Vediamo di capire meglio, perché è importante. Un letterato vissuto tra il II e il I secolo a.C., Marco Terenzio Varrone, nel suo trattato Sulla lingua latina (composto tra il 47 e il 44 a.C.: quindi proprio nel periodo del quale stiamo parlando) scrive: «Sermo, opinor, est a serie, unde serta; etiam in vestimento sartum, quod comprehensum: sermo enim non potest in uno homine esse solo, sed ubi oratio cum altero coniuncta» [Sermone ritengo che abbia la stessa origine di serie, da cui anche i serti; e sartum si dice nei vestiti ciò che è cucito. Infatti il sermone non può riguardare un uomo solo, ma si ha quando un discorso coinvolge anche un altro]. Dunque, quelle che noi chiamiamo Satire, in realtà per il loro autore, non erano altro che “conversazioni”: i sermones, come ci dice Varrone, non si fanno mai da soli.
Nei versi che avete letto qui sopra è un amico che, come abbiamo visto, racconta agli altri amici ciò che lui stesso ha sentito dalla nonna. I versi con i quali comincia e finisce la favola hanno lo stesso tipo di piedi, cioè di unità ritmiche, e perciò suonano allo stesso modo. Il poeta ci introduce e ci fa uscire dal suo sermo con lo stesso suono, fa un cenno d’intesa al lettore, come se gli dicesse: «Ecco, lo senti? Ormai ci conosciamo bene».
Naturalmente, va chiarito subito che la favola non è affatto della nonna di Cervio. È di Esopo, un autore che, dal VI secolo a.C. (epoca nella quale visse) fino a oggi, ha ispirato l’intero genere favolistico dell’Occidente.
Visto che stiamo parlando di satire, vale la pena di aprire qui un breve inciso per ricordare che Ludovico Ariosto, nella sua I Satira, riprende anche lui una Favola di Esopo, quella su La volpe con la pancia piena (Fav. 30 ed. Chambry): favola che, a sua volta, proprio Orazio aveva ripreso in una sua Lettera a Mecenate (Ep., I, 7). Si tratta della favola sull’animale affamato che adocchia il cibo in un posto stretto e, dopo aver mangiato, non riesce più a uscire perché ha, appunto, «la pancia piena». La volpe di Esopo diventa una donnola in Orazio e un asino nell’Ariosto. E qui ci troviamo in uno di quegli intrecci di testi che costituiscono uno degli assi portanti della letteratura e, in particolare, della poesia. La storia della quale non è una sequenza di testi, ma una interazione tra testi: è fatta di testi che si rispondono come echi, di testi che rimandano l’uno all’altro come la pallina di un flipper.
Bene, chiuso l’inciso, ritorniamo alla VI Satira del II Libro di Orazio e diciamo che si tratta di un esempio strepitoso di queste interazioni. La Favola di Esopo alla quale essa si ispira, in prosa, è molto stringata, non scende nei particolari né della povertà del topo di campagna né della ricchezza del topo di città. Orazio la riprende e, al tempo stesso, la ricrea. Offre così al mondo un nuovo, straordinario modello: si ispireranno a questa favola, oltre a La Fontaine (1621-1695), per dire solo dei casi più noti in Italia, Carlo Porta in un testo rimasto inedito e lacunoso ma dove comunque c’è un gatto al posto dei molossi, e Trilussa, che ne fa un apologo sulle punizioni riservate ai poveri e non ai ricchi: ciascuno riprende la favola con la sua piccola o grande novità e ciascuno, trattandosi del Porta e di Trilussa, con il suo dialetto.
In un prossimo intervento riprenderò il tema dei rimandi ad altri testi: la pallina del flipper, secondo la metafora – volutamente anacronistica – che ho usato. Ora invece mi fermo a spiegare perché ho parlato prima di un invito solo «apparentemente oraziano» quando mi sono riferito ai versi:


Vieni via, fidati, ai terrestri
in sorte son capitate anime mortali: nessuno
grande o piccolo, può sfuggire alla morte.


Nelle parole del topo di città c’è, è vero, un invito a godere la vita, che è breve. Orazio riecheggerà anni dopo, nelle Odi, questi suoi versi: il topo di città dice infatti a quello di campagna: «Cārpĕ vĭam», cioè, ho tradotto, «Vieni via», più letteralmente, “mettiti per strada”. Ma il suono è lo stesso del famosissimo «Cārpĕ dĭem»: si tratta di un dattilo (costituito una sillaba lunga e due sillabe brevi con l’accento – arsi – sulla prima lunga) seguito dall’arsi del verso successivo. È probabile che Orazio nell’Ode I, 11, quella dedicata a Leuconoe e che contiene quella espressione ormai diventata proverbiale, volesse far sentire ai suoi lettori un’eco della favola che aveva raccontato in questa VI Satira. Tuttavia, c’è da osservare che nella satira, e nella favola che la conclude, Orazio critica le ricchezze; però, qui è proprio il topo ricco a dire al povero «Carpe viam». Invece, nell’Ode alle ricchezze non si accenna neppure e l’unico tema che conta è quello della brevità della vita: questo, sì, è un atteggiamento propriamente oraziano.

Ed eccoci di nuovo, come avevo promesso, alla pallina del flipper: al rapporto tra testi letterari fatto di parole che schizzano di qua e di là. C’è una parola di questa VI Satira, l’ultima, la cui storia di bing-bong merita di essere raccontata. Nella conclusione di questo intervento ne racconto solo la prima parte; in un prossimo intervento, che già prima ho annunciato, vedremo quali percorsi riuscirà a compiere la parola in questione nel corso dei secoli, fino al XX.

La veccia

La parola alla quale mi riferisco è ervo, da ervum: io ho tradotto “veccia”, così come ha tradotto nel 1814 Antonio Pagnini [1]. In effetti l’ervo è una famiglia di leguminose che comprende, per esempio, la lenticchia, ma anche la veccia, un legume selvatico.
Per Orazio è un legume dalla «poca sostanza», come avete letto: e questo esclude di poter tradurre qui ervum con ‘lenticchia’. Ma la veccia ha davvero così «poca sostanza»? Non preoccupatevi, non voglio affrontare una discussione biologico-nutrizionista. Voglio solo richiamare il fatto che il contemporaneo e (come abbiamo visto prima), amico di Orazio, Virgilio, quando parla dello stesso legume, nella Bucolica III, fa dire invece a un pastore a proposito del suo toro: «Heu, heu! quam pingui macer est mihi taurus in ervo! [Ma guarda! quanto è magro il mio toro, benché stia in mezzo alla grassa veccia!]. La differenza non è di poco conto: i due aggettivi riferiti dai due poeti all’ervum hanno significati diametralmente opposti. L’ervum (riporto tutto al caso nominativo) di Virgilio è pingue, cioè grasso e nutriente; quello di Orazio è tenue, cioè povero e poco sostanzioso.
La questione – è evidente – non riguarda la sostanza della veccia, poca o molta, ma il contesto poetico. Nei versi di Virgilio, chi descrive la veccia come grassa è un contadino: sia pure un contadino idealizzato impegnato in una gara arcadico-poetica con un suo compagno di lavoro. Orazio conosceva benissimo le Egloghe di Virgilio (pubblicate nel 38, proprio quando i due poeti avevano stretto in modo indissolubile la loro amicizia) e quindi conosceva certamente anche queste parole: non dimentichiamo mai che a quei tempi (e poi ancora per molto) i testi poetici venivano trasmessi oralmente e le loro trascrizioni servivano agli studiosi. Ma, nonostante il ricordo virgiliano, nei suoi versi Orazio fa sì che il topo di campagna guardi alla veccia, non con la sensibilità dei suoi simili (animali piccoli e grandi), ma con una sensibilità squisitamente umana. Questo è, d’altro canto, il carattere proprio delle Favole di Esopo alle quali Orazio si ispira: i personaggi di quelle Favole hanno, sì, apparenza di animali, ma sono, a tutti gli effetti, uomini. Insomma, i topi di Orazio, benché animali, pensano come uomini e per loro l’ervum è decisamente tenue. Il contadino di Virgilio, benché impegnato in una gara poetica, ha ben presente invece con quale soddisfazione gli animali gustavano il pingue ervum: lui sa bene che il suo toro è magro per l’eccessiva attività amorosa e non certo perché l’ervum non sia sostanzioso.

Nel caso che abbiamo appena visto, la pallina del flipper è tornata un po’ indietro: dal 30 a.C., data di composizione della Satira di Orazio, al 38, data di pubblicazione delle Egloghe virgiliane. Nel prossimo intervento la vedremo schizzare parecchio in avanti, fin quasi ai nostri giorni. A presto.

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Dove si può arrivare

Una novella di Verga e un monito su cui riflettere. Oggi

Dove si può arrivare se, di fronte a un problema – anche grave – ci si lascia guidare, invece che dalla ragione, dalla paura (e dall’odio) per il diverso, dal complottismo, dall’ignoranza, dalla superstizione?
Già da qualche giorno, nell’Italia ubriacata dai media con dosi altissime di notizie sul “corona virus” abbiamo visto spingersi sempre più avanti il limite di ciò che può accadere: persone dai caratteri somatici cinesi, o semplicemente orientali, cacciate dai mezzi pubblici e, per strada, prese a sputi o a sassate.

Ecco: è stata la parola “sassate” a fare scattare il livello di guardia della mia coscienza, già in allarme. L’ho letta in una notizia poi rivelatasi falsa, ma riportata da una agenzia di stampa e riferita dal sito di Skytg24 (uno dei media più impegnati nella ubriacatura del pubblico): «Alcuni studenti di nazionalità cinese dell’Accademia di Belle arti di … sono stati presi a sassate». Dato che i fatti, come aveva avvertito da subito il sindaco di … «non sono mai avvenuti», tralascio il nome del luogo. In effetti ciò che ha fatto scattare in me il livello di guardia è che un fatto mostruoso, sia pure soltanto per uno o due giorni, è stato credibile, anzi è stato creduto. Sarebbe stato credibile, sarebbe stato creduto dieci giorni fa? O l’avremmo preso tutti, senza incertezze, per una balla colossale!

La parola, “sassate”, mi ha fatto tornare in mente una novella poco conosciuta di Giovanni Verga, Quelli del colèra.
È una novella tarda, pubblicata nella raccolta Vagabondaggio (1887: cinquanta anni dopo l’epidemia di colera che aveva colpito Catania e i suoi dintorni; ma già uscita su rivista nel 1884 in una prima versione poi modificata). È anche una novella poco, o forse per niente, presente nelle antologie scolastiche.
Ma è una novella rivelatrice. È il racconto in prima persona di qualcuno che ricorda quei fatti, che crede alle paure e alle falsità circolate ai tempi del colera sulla diffusione del contagio e che parla cinquant’anni dopo, sia pure in italiano e non in dialetto, come avrebbe parlato uno qualsiasi dei testimoni che, come lui, avesse assistito a quei fatti. Per esempio non esita a dire che alcuni «cavavano fuori il fazzoletto, finta [1] di soffiarsi il naso, e lasciavano cadere certe pallottoline invisibili, che chi ci metteva il piede sopra poi, per sua disgrazia, era fatta!». Verga applica in questo caso la tecnica del “discorso indiretto libero” (qui tutti i chiarimenti sull’uso di questa tecnica), anziché a una frase o a un periodo, a un’intera novella. Attraverso questa tecnica il racconto diventa ancora più terrificante e rende tutti i lettori consapevoli di dove possono arrivare persino le «anime buone»: «- No! no! non li ammazzate ancora! Vediamo prima se sono innocenti! Vediamo prima se portano il colèra! – C’erano pure delle anime buone in quella ressa».
Naturalmente, tutto finisce come doveva finire, con una strage che non risparmia neppure una madre con il figlio in braccio: «E ancora, dopo cinquant’anni, Vito Sgarra, che aveva menato il primo colpo, vede in sogno quelle mani nere e sanguinose che brancicano nel buio». Già, Vito Sgarra: non proprio una delle «anime buone», ma uno come tanti.

Ecco dove si può arrivare. Fermiamoci in tempo.

Qui il testo della novella

Giovanni Verga, Quelli del colèra (da Vagabondaggio, 1887)


Il colèra mieteva la povera gente colla falce, a Regalbuto, a Leonforte, a San Filippo, a Centuripe, per tutto il contado; e anche dei ricchi: il parroco di Canzirrò, ch’era scappato ai primi casi, e veniva soltanto in paese per dir messa, a sole alto, l’aveva pigliato nell’ostia consacrata; a don Pepé, il mercante di bestiame, gliel’avevano dato invece in una presa di tabacco, alla fiera di Muglia, un sensale forestiero – per conchiudere il negozio – diceva lui. Cose da far rizzare i capelli in testa! Avvelenata persino la fontana delle Quattro Vie; bestie e cristiani vi restavano, là! A Rosegabella, venti case, un bel giorno era capitato il merciaiuolo, di quelli che vanno in giro colle scarabattole in spalla, e quanti misero il naso fuori per vedere, tanti ne morirono, fin le galline. Ciascuno badava quindi ai casi propri, collo schioppo in mano, appiattato dietro l’uscio, accanto la siepe, bocconi nel fossatello, per le fattorie, nei casolari, da per tutto. Quelli di San Martino s’erano anche armati, uomini e donne. Volevano morir piuttosto di una schioppettata, o d’altra morte che manda Dio. Ma il colèra, no! non lo volevano!

Nonostante, lo scomunicato male andavasi avvicinando di giorno in giorno, tale e quale come una creatura col giudizio, che faccia le sue tappe di viaggio, senza badare a guardie e a fucilate. Oggi scoppiava a Catenavecchia, il giorno dopo si sentiva dire che era alla Broma, cinque miglia soltanto da San Martino. Una povera donna gravida di sei mesi, per avere aiutato certa vecchia che l’era caduto l’asino dinanzi alla sua porta, e fingeva di piangere e disperarsi, era stata presa dai dolori quasi subito, ed era morta, lei e il bambino: sangue d’innocente che grida vendetta dinanzi a Dio!

La sera, da quelle parti, chi aveva il coraggio di arrischiarsi sino in cima alla salita, vedeva dietro la china che nasconde il paesetto i fuochi e i razzi che sembravano quelli della festa del santo patrono, tutti col capitombolo verso San Martino; e il domani poi si trovavano le macchie d’unto per terra e lungo i muri; qua e là si sussurrava dei rumori strani che si udivano la notte: gatti che miagolavano come in gennaio; tegole smosse quasi tirasse il maestrale; gente che aveva udito picchiare all’uscio dopo la mezzanotte, com’è vero Dio; e dei carri che passavano per le stradicciuole più remote, come delle macchine asmatiche che andavano strascinandosi di porta in porta, soffiando e sbuffando, il Signore ce ne scampi e liberi!

Il venerdì, verso mezzogiorno, Agostino, quello delle lettere, era tornato dal rilievo della Posta colla borsa vuota e tutto stravolto. Sua moglie, poveretta, al vederlo con quel viso, si cacciò le mani nei capelli: – Che avete fatto, scellerato? Dove l’avete preso tutto quel male in un momento? – Egli non sapeva dirlo. Laggiù, arrivato al ponte, s’era sentito stanco tutt’a un tratto, e s’era seduto un momento sul parapetto. Prima di lui c’era stato un viandante, il quale si asciugava il sudore con un fazzoletto turchino. – Don Domenico, il fattore, l’aveva predicato tante e tante volte, di badare sopra tutto a certe facce nuove che andavano intorno, per le vie, e nelle chiese perfino! (Potevate sospettarlo, nella casa di Dio?) Cavavano fuori il fazzoletto, finta di soffiarsi il naso, e lasciavano cadere certe pallottoline invisibili, che chi ci metteva il piede sopra poi, per sua disgrazia, era fatta!

Il giorno stesso, a precipizio, chi aveva qualche cosa da portar via, e un buco dove andare a rintanarsi, in una grotta, fra le macchie dei fichidindia, nelle capannucce delle vigne, era fuggito dal villaggio. Avanti il somarello, con quel po’ di grano o di fave, il cesto delle galline, il maiale dietro, e poi tutta la famiglia, carica di roba. Quelli che erano rimasti, i più poveri, da principio avevano fatto il diavolo, minacciando di sfondar le porte chiuse, e bruciare le case dei fuggiaschi; poscia erano corsi a tirar fuori dal magazzino tutti i santi del paese, come quando si aspetta la pioggia o il bel tempo, l’Addolorata, coi sette pugnali di stagno, san Gregorio Magno, tutto una spuma d’oro, san Rocco miracoloso che mostrava col dito il segno della peste, sul ginocchio. All’ora della benedizione, nel crepuscolo, quelle statue ritte in cima all’altare buio, facevano arricciare i peli ai più induriti peccatori. Si videro delle cose allora da far piangere di tenerezza gli stessi sassi: Vito Sgarra che si divise dalla Sorda, colla quale viveva in peccato mortale da dieci anni; Padre Giuseppe Maria a far la croce sul debito degli inquilini che proprio non potevano pagarlo; Angelo il Ciaramidaro andare alla messa e alla benedizione come un santo, senza che gli sbirri gli dessero noia, e la notte dormire tranquillo nel suo letto, colla disciplina irta di chiodi e insanguinata al capezzale, accanto allo schioppo carico che ne aveva fatte tante. Misteri della Grazia! come diceva il predicatore. Tutta la notte, in fondo alla piazzetta, si vedeva la finestra della chiesa illuminata che vegliava sul villaggio; e di tratto in tratto udivasi martellare la campana, alla quale rispondeva da lontano una schioppettata, poi un’altra, poi un’altra, una fucilata che non finiva più, pazza di terrore, e si propagava per le fattorie, pei casolari, per le ville, per tutta la campagna circostante, dove i cani uggiolavano, sino all’alba.

La domenica mattina, spuntava appena l’alba, si vide una cosa nuova nel Prato della Fiera, appena fuori del villaggio. Era come una casa di legno, su quattro ruote, con certe figuracce brutte dipinte sopra. e lì vicino un vecchio carponi, che andava cogliendo erbe selvatiche. I cani avevano dato l’allarme tutta la notte; e quello del maniscalco, che stava da quelle parti, non s’era dato pace, quasi avesse il giudizio.

– Eccolo lì, povera bestia! gli manca solo la parola! – Il maniscalco raccontava a tutti la stessa cosa, via via che andavasi facendo gente dinanzi alla bottega. La gente guardava il cane, guardava la baracca, e scrollava il capo.

Dirimpetto, sugli scalini della croce in capo alla strada, c’erano altri in crocchio, che guardavano, e parlavano sottovoce fra di loro, col viso scuro. Dal muro del cimitero spuntava lo schioppo di Scaricalasino, malarnese, che accennava a tre o quattro altri suoi compagni della stessa risma, lontan lontano, verso la Broma, e poi verso Catenanuova, con gran gesti neri al sole. Dal ballatoio della gnà Giovanna suo marito chiamava gente anche lui, in fondo alla piazza, agitando le braccia in aria. – Quello! Quello! – gridavasi da un crocchio all’altro. E il vecchio carponi era corso a rintanarsi. Sul finestrino del carrozzone era passata una figura bianca di donna, coi capelli scarmigliati; poi s’erano uditi strilli di ragazzi e pianti soffocati. Dalla strada principale giungevano il farmacista, il Capo Urbano, le guardie, col giglio sul berretto e grossi randelli in mano. La folla dietro, come un torrente, mormorando; uomini torvi, donne col lattante al petto. Da lontano, verso San Rocco, la campana sonava sempre a distesa. Don Ramondo, colle mani e colla voce andava dicendo alla folla: – Largo, largo, signori miei! Lasciatemi vedere di che si tratta. – Poi sgusciarono dentro il baraccone tutti e due, lui e il Capo Urbano; le guardie sbatterono l’uscio sul naso ai più riottosi. Ci fu un po’ di parapiglia, un po’ di schiamazzo, qualche pugno sulla faccia. Infine il farmacista e il Capo Urbano ricomparvero vociando tutti e due che non era nulla, il Capo Urbano sventolando un foglio di carta in aria, don Ramondo sgolandosi a ripetere: – Niente! Niente! Son poveri commedianti che vanno intorno per buscarsi il pane. Poveri diavoli morti di fame.

La folla nonostante li seguiva mormorando e accavallandosi come un mare. Sulla piazza il Capo Urbano fece anche lui il suo discorsetto: – Via! via! State tranquilli. Sono o non sono il Capo Urbano? – Poi infilò l’uscio della farmacia con don Ramondo. La folla cominciò a diradarsi. Alcuni andarono a casa, a contar la notizia; altri, siccome il sagrestano si slogava sempre a sonare a messa, entrarono in chiesa. Qualcheduno, più ostinato, ritornò verso il Prato della Fiera. Quei poveri diavoli di comici, che si tiravano dietro la loro casa al par della lumaca, passato il temporale, tornarono a metter fuori le corna ad uno ad uno, appunto come fa la lumaca. Il vecchio aveva sciorinato all’uscio un gran cartellone dipinto. La moglie, con un tamburo al collo, chiamava gente; i ragazzi, camuffati da pagliacci, facevano mille buffonerie, e la giovinetta, colle gambe magre nelle maglie color di carne fresca, un fiore di carta nei capelli, il gonnellino più gonfio di una bolla di sapone, le braccia e le spalle nere fuori del corpetto di seta stinta, soffiava nella tromba, col poco fiato del suo petto scarno. Pure era una novità pel paese, e i giovinastri correvano a vedere, spingendosi col gomito. Inoltre i comici avevano altri richiami per il pubblico: un cardellino che dava i numeri del lotto; il ronzino che contava le ore, e indovinava gli anni degli spettatori colla zampa; un ragazzo che camminava sulle mani, portando in giro, stretto fra i denti, il piattello per raccogliere la buona grazia. Quando si era fatta un po’ di gente, calavano il tendone un’altra volta, e rientravano tutti a rappresentare la commedia coi burattini, la donna col tamburone al collo, gridando sempre dalla piattaforma: – Avanti, signori! Avanti, che comincia! – Si pigliava alla porta quel che si poteva: un baiocco, delle fave, qualche manciata di ceci anche. I ragazzi gratis. Fino alla sera, tardi, ci fu ressa dinanzi alla baracca, sotto il gran lampione rosso che chiamava gente da lontano. Amici e conoscenti si vociavano da un capo all’altro del Prato della Fiera; si scambiavano i frizzi salati e le parolacce come dentro avevano fatto Pulcinella e Colombina. Nessuno pensava più al castigo di Dio che avevano addosso.

Ma la notte – ci volevano più di due ore alla messa dell’alba – Tac tac, vennero a chiamare in fretta lo speziale. – Presto, alzatevi, don Ramondo, ché dai Zanghi hanno bisogno di voi! – Il poveraccio non riusciva a trovare i calzoni al buio, in quella confusione. Zanghi, steso sul letto, freddo, colla barba arruffata, andava acchiappando mosche, colle mani fuori del lenzuolo, le mani nere, gli occhi in fondo a due buchi della testa. Sua moglie seminuda, coi capelli sulle spalle, tutta gonfia e arruffata anche lei come una gallina ammalata, correva per la stanza, cercando di aiutarlo senza saper come, coi figliuoli che le strillavano dietro. – Dottore! dottore! Che c’è? Che ve ne pare? – Don Ramondo non diceva nulla: guardava, tastava, versava la medicina nel cucchiaio, colle mani tremanti, la boccetta che urtava ogni momento nel cucchiaio, e faceva trasalire. E il malato pure, colla voce cavernosa, che sembrava venire dal mondo di là, balbettando: – Don Ramondo! Don Ramondo! Che non ci sia più aiuto per me? Fatelo per questi innocenti, ché son padre di famiglia! Poi, come s’irrigidì, colla barba in aria, e i figliuoli si misero ad urlare più forte, aggrappandosi alle coperte di lui che non udiva, don Ramondo prese il suo cappello, e la donna gli corse dietro in sottana com’era, colle mani nei capelli, gridando aiuto per tutto il vicinato. Spuntava l’alba serena nel cielo color di madreperla; alla chiesa, lassù, si udiva sonare la prima messa.

Per le stradicciuole ancora buie si udiva uno sbatter d’usci, un insolito va e vieni, un mormorìo crescente. Sull’angolo della piazza, nel caffè di Agostino il portalettere, buon’anima, avevano dimenticato il lume acceso, nella bottega vuota, i bicchierini ancora capovolti nel vassoio; e dinanzi all’uscio c’era un crocchio di gente che discuteva colla faccia accesa. Neli, il maggiore dei figliuoli, sporgeva il capo di tanto in tanto fra le tendine dello scaffale, più pallido del suo berretto da notte, cogli occhi gonfi, per vedere se qualcheduno venisse a prendere il rum o l’acquavite. E a tutti coloro che l’interrogavano dall’uscio, senza osare di entrare, rispondeva sempre scrollando il capo: – Così! Sempre la stessa! – Poi si vide uscire dalla parte del vicoletto la ragazzina che andava correndo dal sagrestano per le candele benedette.

Ogni momento giungeva qualcheduno che veniva dalla casa di Zanghi, e aveva visto dall’uscio spalancato il letto in fondo alla camera, col lenzuolo disteso, le candele accese al capezzale e i figliuoli che piangevano. Altri portavano altre brutte notizie. – Il Capo Urbano che stava imballando le materasse; il farmacista che tardava ad aprire la bottega. – La folla cominciava ad ammutinarsi a misura che cresceva. – Cristiani del mondo! Che ci vogliono far morire davvero come bestie nella tana? – Uno, colla faccia stralunata, raccontava come Zanghi avesse acchiappato il male, nella baracca dei commedianti. L’aveva visto lui, coi suoi occhi, il vecchio che lo tirava per la falda del vestito perché gli pareva che volesse passare a scappellotto. – Anche comare Barbara! che pur non si era mossa di casa! – E quell’infame Capo Urbano che andava dicendo “Non è nulla, non è nulla,” e mostrava la carta bianca! Quella era la carta del Sotto Intendente, che ordinava di lasciar spargere il colèra! – Ah! volevano proprio farli morire come bestie nella tana, cristiani di Dio!

Tutt’a un tratto si udirono dietro lo scaffale delle grida: – Mamma! mamma! – e delle strida di dolore disperate. Neli irruppe nella bottega urlando come una bestia feroce, coi pugni sugli occhi. Un parente corse lesto lesto a chiudere gli scaffali, per tutta quella gente che s’affollava nella bottega e nessuno poteva tenerla d’occhio.

Allora la folla, quasi fosse corsa una parola d’ordine, si mosse tutta come una fiumana, gridando e minacciando. Un’anima buona si mise le gambe in spalla, e corse per le scorciatoie dal Capo Urbano, a dirgli che scappasse. Ma il poveraccio, da un bel pezzo, fiutando come si mettevano le cose, aveva infilato l’usciuolo dell’orto, carponi fra le viti, e preso il volo pei campi.

Quelli del baraccone stavano facendo cuocere quattro fave, a ridosso del muricciuolo, seduti sulle calcagna, per covar la pentola cogli occhi, tutta la famiglia. A un tratto udirono gridare: – Dàlli! dàlli! – e videro la folla inferocita che correva per sbranarli. – Signori miei! siamo poveri diavoli, poveri commedianti che andiamo intorno per buscarci il pane! – Il vecchio annaspando colle mani, per fare intendere le sue ragioni; la donna che copriva i figlioletti colle ali, come una chioccia; la giovinetta colle braccia in aria. Arrivò una prima sassata, che fece colare il sangue. Poi un parapiglia, la gente in mucchio accapigliandosi, gli strilli delle vittime, che si udivano più forte. – No! no! non li ammazzate ancora! Vediamo prima se sono innocenti! Vediamo prima se portano il colèra! – C’erano pure delle anime buone in quella ressa. Ma gli altri non volevano intender ragione: Neli di comare Barbara, che gli sanguinava il cuore dall’angoscia; Scaricalasino che aveva visto coi suoi occhi Zanghi stecchito sotto il lenzuolo; massaro Lio che si sentiva già i dolori di ventre addosso. In un attimo la baracca fu tutta sottosopra: i burattini, gli scenari, i cenci, la poca paglia fradicia dei sacconi. Poi, dopo che non ebbero più dove frugare, fecero un mucchio d’ogni cosa, e vi appiccarono il fuoco. – Bravo! E adesso come farete a scoprire se portavano il colèra? – gridavano alcuni. Ma il povero capocomico non sentiva e non badava più a nulla, né le grida di morte, né le falci, né le scuri; pallido e stravolto, col sangue giù per la faccia, i capelli irti, gli occhi fuori della testa, voleva buttarsi sul fuoco per spegnerlo colle sue mani, urlando che lo rovinavano, che gli toglievano il suo pane, strappandosi i capelli dalla disperazione, in mezzo alla famigliuola tutta pesta e malconcia, scampata per miracolo alla strage. – Meglio, meglio che ci avessero uccisi tutti! – Neppure il colèra li aveva voluti, da per tutto dove l’avevano incontrato, stanchi ed affamati.

Ancora, dopo cinquant’anni, Scaricalasino, il quale è diventato un uomo di giudizio, dice a chi vuol dargli retta, che il colèra ci doveva essere nel baraccone. Peccato che lo bruciarono! Quelli erano ricconi che andavano attorno così travestiti per non dar nell’occhio, e buscavano centinaia d’onze a quel mestiere.

Dove avevano saputo far le cose bene era stato a Miraglia, un paesetto mangiato dal colèra e dalla fame, il giorno in cui s’erano viste certe facce nuove per la via dove da un mese non passava un cane, e la povera gente, senza pane e senza lavoro, aspettava il colèra colle mani in mano. Anche costoro mostravano di essere dei viandanti rifiniti dal lungo viaggio, come una famigliuola di zingari; l’uomo che si dava per calderaio, la moglie che diceva la buona ventura, la figlia, una bella bruna, la quale doveva averne fatte molte, così giovane com’era, e portava attaccato al petto cascante un bambino affamato e macilento. Dei suoi diciotto anni non le erano rimasti altro che due grandi occhi neri, degli occhi scomunicati che vi mangiavano vivo. Anch’essi si portavano dietro tutta la loro casa in un carretto sconquassato, coperto da una tenda a brandelli, che veniva avanti traballando, tirato da un somarello sfinito. Siccome la popolazione si era commossa [2] al loro apparire, e minacciava, il Capo Urbano accorse anche qui colle guardie, armate sino ai denti, gridando da lontano – Via! via! – come si fa ai lupi. Loro a ripeter la commedia che venivano da lontano, che li avevano scacciati da ogni dove, che erano affamati, e preferivano li uccidessero lì a schioppettate. Allora, per non saper che fare, temendo di accostarsi per paura del colèra, li lasciarono lì, fuori del paese, guardati a vista come bestie pericolose. Nessuno chiuse occhio, quella notte, la vigilia di san Giovanni, che c’era un chiaro di luna come di giorno. Tutt’a un tratto, coloro che stavano a guardia, nascosti dietro il muro, videro lo zingaro che s’era avventurato carponi sino alle prime case, razzolando in un mondezzaio. Colà l’uccisero di una schioppettata, come un cane arrabbiato. Dopo gli trovarono un torsolo di cavolo, che ci aveva ancora in pugno, e il petto della camicia tutto gonfio di bucce e frutta marcia. Al rumore, alle grida che si udivano da lontano, tutto il paese fu in piedi subito, e la caccia incominciò. La vecchia fu raggiunta all’argine del fossatello, barcollando sulle gambe stecchite. La giovane dinanzi al carretto, che voleva difendere la sua creatura, come succede anche alle bestie, con certi occhi che facevano paura, e cercava di afferrare le scuri per aria, colle mani insanguinate. Dopo, frugando fra i cenci della carretta, trovarono le pillole del colèra e ogni cosa. Ma quegli occhi più d’uno non poté dimenticarli. E ancora, dopo cinquant’anni, Vito Sgarra, che aveva menato il primo colpo, vede in sogno quelle mani nere e sanguinose che brancicano nel buio.

Però, se erano davvero innocenti, perché la vecchia, che diceva la buona ventura, non aveva previsto come andava a finire?


 


[1] finta: forse un errore di stampa in tutte le edizioni della novella; se è così, manca: “facevano”. Comunque, poiché non esistono versioni diverse di questo passo, per correttezza filologica ripeto il testo così com’è anche nella trascrizione della novella.
[2] commossa: ‘turbata’, ‘irritata’.

La lingua «umile e alta» del teatro di Eduardo

Perché tutti noi abbiamo in mente la frase «Ha da passà ‘a nuttata»

Il 24 ottobre scorso un autorevole commentatore de “La Stampa”, a proposito della deposizione del Presidente del Consiglio al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (sui giornali trovate scritto Copasir), ha affermato, a conclusione del suo articolo: «Sta di fatto che ‘a nuttata sembra passata» (Francesco Bei, p. 21). Ora, il fatto che un giornalista romano usi su un giornale torinese un’espressione napoletana ci dà la misura di quanto questa espressione che contiene «’a nuttata» legata al verbo “passare” sia entrata non soltanto nel lessico comune, ma nell’immaginario collettivo di noi italiani. Si tratta di un vero miracolo. Ho già spiegato in un altro post che l’immaginario collettivo degli italiani è, in sostanza, defunto: perciò parlo di miracolo e perciò vorrei spiegarne qui la ragione. Lo faccio anche prendendo spunto da un breve intervento che ho svolto al “convegno-festa” che Velletri, la città dove risiedo, ha dedicato qualche tempo fa al suo cittadino onorario Eduardo De Filippo, un intervento del quale in molti mi hanno chiesto la pubblicazione: eccoli accontentati.
La ragione del miracolo del quale ho parlato risiede nella scelta linguistica che Eduardo ha operato, con straordinaria consapevolezza e lungimiranza, nella fase che possiamo chiamare della “rinascita” del suo teatro, tra il 1945 e il 1946. Per parlare di questa scelta linguistica la prendo, come spesso mi capita, un po’ alla lontana.

Voglio ricordare infatti, in primo luogo, i primi versi del XXXIII canto del Paradiso dantesco. «Vergine madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura». Tra poco sarà chiaro perché comincio proprio da qui.
Vorrei fare osservare un fatto singolare e, forse, poco sottolineato dai dantisti: i due aggettivi che Dante rivolge alla Vergine, «umile e alta», corrispondono alle qualità che egli stesso, o l’eventuale altro autore della lettera a Can Grande della Scala, se questa lettera è falsa [1], attribuisce alla lingua della Commedia: Commedia, appunto, o meglio, Comedìa, perché scritta nel linguaggio proprio dello stile comico. Quest’ultimo, che consente a Dante l’uso del volgare al posto del latino, secondo l’ordine medievale degli stili, può scendere molto in basso, perché è «humilis quia locutio vulgaris in qua et muliercule comunicant» (“humilis”, appunto, come la Vergine). Eppure, come Dante poteva affermare in base a un’osservazione di Orazio, talvolta quello stesso stile poteva anche fare salire alta la propria voce (“alta”, appunto, come la Vergine) [2]. Insomma, Dante si inventa una lingua che, «umile e alta», dotata delle qualità proprie della Vergine, si rivela perciò stesso onnicomprensiva e spazza via, con ciò, tutte le suddivisioni medievali, anche se a esse ancora si riferisce, almeno in linea teorica e con una non lieve forzatura di quanto affermato da Orazio, per non scandalizzare troppo i dotti contemporanei.

Dopo questo momento fondante della lingua italiana – della lingua più ancora che della letteratura – e dopo la lirica di Petrarca che, trenta o quarant’anni dopo, rovescia l’assunto dantesco e afferma nei fatti l’esigenza di una lingua selezionata solo verso l’alto, la storia letteraria italiana ha vissuto, almeno fino a Manzoni, una dicotomia: da una parte – la parte vincente, addirittura trionfante –, il petrarchismo linguistico che furoreggia nelle corti e tra i dotti, ma che separa per secoli letteratura e popolo; dall’altra, alcune eccezioni di invenzione linguistica onnicomprensiva, un’invenzione spesso basata su un dialetto, e qualche volta addirittura su lingue esplicitamente artificiali. Non posso fare qui la storia di questa dicotomia né del superamento che di essa si è avuto con il Manzoni e dopo di lui. Quello che qui interessa è che Eduardo, un secolo dopo che quella dicotomia era stata ricucita, si inventa anche lui una lingua «umile e alta» compiendo una scelta dalle conseguenze sensazionali.

Già, perché la lingua che Eduardo inventa e adopera per il suo teatro a cominciare dalla svolta degli anni 1945-1946, non coincide affatto, come si sarebbe portati a credere, con il dialetto napoletano. Essa infatti non ha più nulla di “naturalistico”, nulla di “mimetico” e non è più, nemmeno, quella del teatro che Eduardo stesso aveva praticato negli anni Venti e Trenta. La lingua del nuovo teatro di Eduardo, da quegli anni del dopoguerra in poi, è invece un prodigioso pastiche di dialetto e lingua nazionale sul quale agisce la straordinaria lezione di Giambattista Basile, con il suo Cunto de li cunti. Vale la pena ricordare qui, a questo proposito, che uno degli ultimi lavori di Eduardo sarà la traduzione della Tempesta di Shakespeare proprio nel napoletano ibrido e sostanzialmente “inventato” del Basile.

Ma, perché quella scelta? E perché proprio in quegli anni? Dopo i primi tentativi teatrali, basati sulla farsa tradizionale e culminati con il Natale in casa Cupiello (1931), Eduardo autore, che nel frattempo aveva cominciato a guardare a Pirandello anche come attore e capocomico [3], non poté essere più soddisfatto dei testi dialettali che scriveva o che metteva in scena. Eduardo aveva capito che il grande apporto di Pirandello al teatro italiano (anzi, al teatro mondiale) era stato, per dirla qui nel modo più rapido possibile e quindi con inevitabile semplificazione, quello di allargare il campo di realtà rappresentabile sul palcoscenico. L’aveva capito e aveva anche l’ambizione di fare di più: questo ‘di più’ Eduardo era convinto di poterlo fare proprio sul terreno del linguaggio. Poteva, ancora una volta semplificando, sfondare verso il basso e ampliare in quella direzione il campo di realtà rappresentabile sul palcoscenico che Pirandello aveva così genialmente allargato.
Da qui la ricerca e l’uso di una lingua «umile e alta», capace sì, di raggiungere l’altezza delle vette pirandelliane, ma anche, se necessario, di sporcare di fango il palcoscenico.

Per questo i drammi che Eduardo ha scritto e rappresentato nell’immediato dopoguerra costituiscono qualcosa di nuovissimo. Talmente nuovo che egli stesso sente il dovere di sottolinearlo con una apparente svista nella sceneggiatura di Napoli milionaria, il dramma scritto e rappresentato nel 1945. Qui, la lunga didascalia iniziale, che descrive la scena in italiano (come fanno sempre le didascalie, anche quelle delle farse dialettali), comincia con le parole: «’O vascio ‘e donn’Amalia Jovine». Con queste parole Eduardo mette la sua bandiera sul campo appena conquistato: rende chiaro, a chi non riuscisse a capirlo con il solo testo della commedia, qual è il suo proposito.

I drammi di Eduardo del 1945-1946, Napoli milionaria e Questi fantasmi parlano entrambi della vita e della morte e dell’incombere del Male (quello con la M maiuscola). È per parlare di questo che Eduardo ha bisogno di una lingua «umile e alta».

«’O vascio ‘e donn’Amalia Jovine» è un luogo – il più basso possibile, persino nel nome che compare nella didascalia (in italiano sarebbe stato:  “abitazione a pianterreno”, “abitazione affacciata sulla strada”) – dove si gioca con la vita e con la morte: si gioca davvero, tanto che tutti ricorderanno la scena in cui il protagonista si finge morto per non farsi arrestare. Sulla soglia di quel «vascio» occhieggia il Male: i piccoli traffici di donna Amalia che diventeranno vero e proprio mercato nero con il prosieguo della guerra. Tutto il dramma è una sorta di pendolo che oscilla tra la vita e la morte alla presenza muta del Male, vero convitato di pietra in quel «vascio».

Poiché volevo fare due esempi della funzione che ha la lingua «umile e alta» nel costruire il teatro di Eduardo, comincio proprio da uno che riguarda Napoli milionaria: e faccio l’esempio più scontato, la battuta finale del dramma: quella dalla quale ho preso le mosse a proposito dell’articolo apparso su “La Stampa”. La frase famosissima è «Ha da passà ‘a nuttata». È una battuta sulla quale l’autore ha riflettuto per decenni, fino a cambiarla, oltre trent’anni dopo, nel finale della trasformazione del testo in libretto d’opera per le musiche di Nino Rota, con: «La guerra non è finita e non è finito niente». E tuttavia essa, così com’era, è entrata da subito nel nostro immaginario e nel nostro linguaggio di mulierculae che parliamo tutti i giorni – né sembra, ancora oggi, volerne uscire.
Dalla prima all’ultima delle sette sillabe di questa frase oscilla il pendolo della vita e della morte della figlia più piccola di donn’Amalia e di Gennaro Jovine. Non è, come è stata interpretata (e per questo criticata e per questo anche cambiata infine dallo stesso Eduardo), una battuta ottimistica. È un pendolo, appunto. E questo pendolo, forse l’avete sentito, ha un ritmo: ho parlato di sette sillabe; in realtà quella battuta ha proprio il ritmo di un settenario. A me, tra i mille altri versi che nella lirica italiana hanno quel ritmo, ne è venuto in mente uno del Cinque maggio manzoniano, quando il poeta parla delle fede: «Bella, immortal benefica / fede ai trionfi avvezza». È un verso di quella sorta di preghiera finale nella quale Manzoni, ringraziato Dio per aver lasciato una più grande impronta di sé su uno in particolare dei mortali, riconosce la presenza della fede nel Napoleone morente. E anche in Eduardo, quella frase, con quel ritmo, è più una preghiera che una constatazione. In una lingua «umile e alta», sporca di fango e capace di attingere il cielo.

Il secondo esempio lo traggo da Questi fantasmi: altro che «tema dell’adulterio, tra spunti comici e situazioni grottesche», come ho letto su un testo scolastico. Anche Questi fantasmi è un dramma sulla vita e sulla morte e anche questo dramma ha bisogno di una lingua che copra l’estensione che separa il fango dal cielo: la comicità e il grottesco servono, quando ci sono, proprio a questo. Ebbene, in Questi fantasmi c’è una frase, pure in questo caso in dialetto, che segna il passaggio del protagonista Pasquale Lojacono dal dialogo con i vivi al dialogo con i morti o creduti tali da lui. Il momento nel quale viene pronunciata questa frase è di tregua apparente: Lojacono parla con il suo famoso dirimpettaio e minimizza la possibilità che l’appartamento da lui appena affittato sia infestato dai fantasmi. Proprio in quel momento Carmela, la sorella del portiere, si affaccia, dietro le imposte del balcone. «È una donna di quarantacinque anni o cinquant’anni – scrive Eduardo nella didascalia di scena –, ma ne dimostra settanta. Veste da popolana trascurata e sciamannata. I capelli, scomposti e arruffati, sono completamente bianchi». Appena la vede, Lojacono, che qualche dubbio, contrariamente a quanto affermava con il suo dirimpettaio, se lo era fatto venire, terrorizzato grida: «Che vuoi? Chi sei?». È la prima volta che si rivolge a quella che, in quel momento, lui crede un’anima dannata; e riceve questa risposta: «’A sora d’ ‘o guardaporta». Naturalmente, poco dopo il protagonista si renderà conto dell’equivoco, e tuttavia proprio in quelle parole si verifica e si rivela la svolta del dramma: da quel momento Lojacono parlerà con altri interlocutori nella perfetta convinzione che si tratti di “anime dannate”. E quando l’amante della moglie, che aveva finto di essere una di queste, si troverà faccia a faccia con lui, ecco che cosa dice Lojacono, quasi in chiusura di Questi fantasmi:


Parlanno cu’ te me sento vicino a Dio, me sento piccirillo piccirillo … me sento niente … e mi fa piacere sentirmi niente, così posso liberarmi del peso del mio essere che mi opprime!


Questa frase rivela perfettamente la natura composita del pastiche linguistico eduardiano che mischia con straordinaria creatività dialetto e lingua nazionale. Probabilmente Eduardo non conosceva allora il ponderoso saggio di Sartre L’essere e il nulla, uscito in Francia nel ’43, ma in Italia solo nel ’58. Conosceva certamente, però, le posizioni dell’esistenzialismo europeo, conosceva il Sartre autore teatrale: e comunque, in poche parole della sua lingua «umile e alta», sintetizza l’oggetto delle riflessioni esposte nel saggio di settecento pagine del filosofo francese.

Altro che commedia sull’adulterio: qui ci troviamo veramente davanti all’umile e all’alto della vita, anzi all’umile e all’alto del rapporto dell’essere con il niente: uno dei pilastri della cultura del Novecento.
E tutto era cominciato con le poche parole di una vera e propria muliercula: «’A sora d’ ‘o guardaporta», parole che formano anch’esse un verso, un ottonario perfetto, anche se inusuale nella disposizione degli accenti: ma ne troviamo alcuni con un ritmo quasi identico, guarda caso, ancora in Manzoni. Sono i primi versi dell’Inno sacro La Risurrezione: «È risorto: or come a morte / la sua preda fu ritolta? / come ha vinte l’atre porte, / come è salvo un’altra volta». Anche in questo caso, io non so se Eduardo avesse in mente quel verso (di un Inno che comunque è notissimo e che sembra risuonare, con le sue rime, nella frase pronunciata da Carmela), ma certo vita e morte sono dentro a quei versi manzoniani come in pochi altri della nostra storia letteraria.

Comunque sia, un fatto è certo: con la sua lingua «umile e alta» Eduardo ha creato un teatro che parla sì di vita, di morte, di essere, di niente, ma non come potrebbe fare un filosofo, piuttosto come potrebbe parlarne uno di noi, uno di noi, in particolare, che non si vergogna, almeno in certi momenti, di ridere e di far ridere a crepapelle sugli argomenti più seri. Insomma, come uno di noi mulierculae.

E difatti il teatro di Eduardo non ha mai smesso di parlare a ciascuno di noi. E credo che, con quella sua lingua «umile e alta», ancora per un bel po’ non smetterà di farlo.


[1] La questione della autenticità della Epistola XIII è viva esattamente da due secoli poiché fu sollevata da Filippo Scolari, in: Note ad alcuni luoghi delli primi cinque canti della Divina Commedia, Venezia, Picotti, 1819, pp. 12-21. È impossibile qui, anche solo tentare una sintesi del problema. Basterà dire che dopo decenni di prevalenza della tesi secondo la quale l’Epistola XIII era un’abile e dotta falsificazione, prevale oggi quella della autenticità. Per le ultime puntualizzazioni critiche sulla questione si veda la Nota introduttiva di Luca Azzetta al testo dell’Epistola XIII in: Dante Alighieri, Le Opere, Nuova edizione commentata delle Opere di Dante, Salerno Editrice, Roma, 2016, vol. IV, pp. 273-297.
[2] Orazio, Ars Poetica, vv. 93-96. I versi citati da Dante nell’Epistola XIII sono i seguenti: «Interdum tamen et vocem comedia tollit, / iratusque Chremes tumido delitigat ore; et tragicus plerunque dolet sermone / pedestri Telephus et Peleus» [Talvolta, tuttavia, anche la commedia fa salire alta la voce, e Cremete, irato, litiga con linguaggio magniloquente; e nella tragedia Tèlefo e Peleo esprimono il dolore con parole pedestri]. Cremete, maschera comica greco-romana, è tra l’altro, il protagonista dell’Heautontimorumenos di Terenzio; Telefo, re di Misia, è protagonista di una delle tragedie perdute di Euripide; Peleo è a sua volta protagonista di tragedie perdute di Sofocle e di Euripide.
[3] Su suggerimento dello stesso autore, Eduardo curò nel 1936 un adattamento in dialetto napoletano del Berretto a sonagli di Pirandello.

Non ti dimentico, Nanda!

Il 18 agosto scorso ricorrevano dieci anni dalla scomparsa di Fernanda Pivano. Pochi se ne sono ricordati: tra questi, ho notato con grande piacere che un liceo di Catania, per iniziativa di un suo professore, le ha dedicato un bell’omaggio (qui). Ma, in generale, si può dire che l’anniversario è passato inosservato ai più. Non a me, anche se la mia cronica lentezza mi ha poi portato a scriverne soltanto un mese e mezzo dopo.

Peccato per questa generale dimenticanza perché Fernanda Pivano è stata una intellettuale che, senza spocchia, senza entrare mai a far parte di conventicole e gruppi “privilegiati”, ha costituito, con la sua stessa persona, un ponte straordinario tra la cultura italiana e quella “americana”, anzi, più in generale, tra la cultura italiana e il resto del mondo.

Ma parliamo del ponte con l’America. Della cultura di là dell’Oceano ci erano arrivate voci importanti tra gli anni Quaranta e Cinquanta: per opera di Pavese e Vittorini anche l’Italia aveva conosciuto autori come Melville, Faulkner, Steinbeck, Dos Passos e tanti altri: quasi tutti oggetto delle mie letture di ragazzo. Per quanto riguarda la poesia americana, eravamo però rimasti all’Ottocento: Walt Whitman. E basta. Emily Dickinson, la cui opera è stata pubblicata negli Stati Uniti nel 1955 (ma l’edizione critica oggi di riferimento è, nientemeno, del 1998) sarebbe stata conosciuta frammentariamente in Italia a partire dagli anni Sessanta, ma la traduzione completa delle sue poesie è del 2001. Nel frattempo, era stata proprio Fernanda Pivano a tradurre privatamente la Spoon River Anthology utilizzando un originale che le era stato regalato da Pavese: il quale ultimo, scoperta quella traduzione, l’aveva poi fatta pubblicare da Einaudi nel 1943.
Bene: Spoon River. Quindi eravamo arrivati, almeno, ai primi del Novecento. E poi?

Di quel “poi” in Italia non si avevano notizie. Neppure un appassionato come me, negli anni Sessanta, sapeva niente di ciò che si scriveva in versi negli Stati Uniti. Le informazioni che arrivavano si rivelavano più come notizie “di costume” che come precisi ragguagli di critica letteraria: si sapeva che poeti americani piuttosto scombinati e per lo più drogati frequentavano Parigi e che ne erano affascinati; si sapeva che molti vi si erano fermati. Ma che cosa scrivessero quei poeti non lo sapeva nessuno. Allora è arrivata Fernanda Pivano. Che era stata negli Stati Uniti, era stata a Parigi, aveva conosciuto direttamente quasi tutti quegli artisti e che nel 1964 ha stupito tutti noi con la raccolta Poesia degli ultimi americani, un libro con in allegato il manifesto contenente la poesia calligramma di Gregory Corso Bomba.

Altri saranno stati più bravi e più intraprendenti, ma, fino ad allora, la poesia contemporanea, per me, studente all’ultimo anno di liceo, era quella dei surrealisti francesi e degli ermetici italiani, con la grande eccezione de Le ceneri di Gramsci di Pasolini. Eccezione, appunto. I poeti che ora Fernanda Pivano mi faceva conoscere erano un’altra eccezione ancora e, finalmente, le eccezioni cominciavano a trasformarsi nella norma. La poesia contemporanea cambiava faccia. Ed era una faccia seducente.

Inutile dire che poi, per tanti anni, Fernanda Pivano ci ha accompagnati nella conoscenza di ciò che accadeva nella cultura americana. È forse invece utile aggiungere che non sembrano esserci suoi eredi nello svolgimento di questo compito. Oggi, per sapere che cosa succede nella poesia americana, bisogna consultare il sito dell’editore City Lights e provare a comprare qualcosa nelle librerie online targate “us”. Dei poeti americani, se non vincono il Nobel, non si parla: e di poeti americani, a parte il caso Bob Dylan, l’unica a vincerlo è stata Toni Morrison, della quale si è parlato molto, sì, ma solo nel 1993, quando ha vinto il premio, appunto, e quando è scomparsa, proprio ai primi dello scorso mese di agosto.

Insomma, essersi dimenticati di Fernanda Pivano non è stata una bella cosa.
E io non l’ho fatto.
Io non ti dimentico Nanda. E non ti dimentico anche perché, in tanti anni, quel tuo libro sulla Poesia degli ultimi americani è diventato una parte importante di me. Il titolo della mia più recente raccolta di versi, Il cuore in tasca, deriva, niente meno, da una poesia di Frank O’ Hara, poeta che ho conosciuto attraverso quel tuo libro. E, di quel tuo libro, parlo direttamente ed esplicitamente in una poesia, Treno fermo, che ora voglio trascrivere qui.

Lo vedi che non ti dimentico?

Michele Tortorici, Treno fermo, (da: Il cuore in tasca, Manni, 2016)


Sarmenti a terra tra un filare e l’altro si vedono
davanti al finestrino, nella vigna. È tempo
di potature. È, per la precisione, il venti di gennaio il giorno
che scorre intorno a questo treno fermo: un tizio
– dicono con indifferenza i passeggeri
seduti da questo lato nel vagone prima
del mio – attraversava, forse, i binari alla stazione che abbiamo
appena superata. È stato
– dicono con indifferenza i passeggeri –
buttato giù come un birillo
del bowling, ha fatto un salto di lato ed è caduto
sul marciapiede; schiacciato no, comunque. Non è grave
– dicono con indifferenza i passeggeri.

Tutto a posto allora, se non fosse
che siamo fermi e di questa vigna, da dietro il finestrino, chi è rimasto
a guardarla, come per esempio ho fatto io, conosce
oramai tutti i filari, i sostegni
– pali di cemento: quelli
di legno non si usano più – le piante più giovani alla nostra
sinistra, a destra le più vecchie. E la terra indurita aspetta
irrefutabilmente un aratro (ammesso
che si chiamino ancora così le macchine che la rivoltano).

Un vecchio libro che mi piace spesso
portare in tasca, Gli ultimi americani di Fernanda Pivano, antologia
dalle pagine lise
ormai (ci tengo ancora dentro la lunga pagina-manifesto allegata
con la Bomba di Gregory Corso), è una buona
compagnia, è vero. Ma non si adatta, con le irrequietudini
pensose che ancora spande, alla situazione. Ora
il treno è stato riportato indietro
alla stazione di Falciano–Mondragone–Carinola: fuori
viavai di gente, carabinieri, rilievi della scientifica col gesso
sul marciapiede (si fanno anche quando non muore
nessuno? Comincio
a preoccuparmi: sarà vero che non è grave il tizio?) segnali
numerati. E insieme
la domanda «Quando si riparte?» ripetuta ma non si sa bene
rivolta a chi. La Berlino di Ferlighetti – amato autore di tante
altre poesie bellissime – non mi ha mai convinto
molto e mi convince
poco anche adesso. La Bomba invece
la leggo e la rileggo: stendo da una parte e dall’altra
la pagina-manifesto – versione originale
e traduzione. Il fungo atomico che i versi
disegnano mi colpisce ancora e, dentro, gli scoppi
di parole. A cinquant’anni,
quasi, dalla prima volta: Kennedy
era morto da un anno, poco più, non ricordo
con precisione; e la bomba
era nelle teste
di noi che avevamo vissuto – eravamo ragazzi,
ma mica tanto – il muro
di Berlino e poi la crisi
di Cuba. Al ventesimo
Congresso del Pcus, allora sì che eravamo,
neanche ragazzi,
bambini. Generazione del quarantasette. Da quanto
tempo la bomba
era nelle nostre teste! Ma poi anche la speranza. Non era
così male essere ragazzi in quegli anni.

Ora che il treno ha quasi due ore e mezza di ritardo, non si vedono
più i sarmenti: la vigna
è poco più avanti della stazione, sempre la stessa, dove il treno
è fermo adesso ed è comunque buio fitto attorno
ai piccoli coni gialli che i fari
proiettano sul marciapiede. Niente
della vigna: filari, sostegni, piante più giovani e più vecchie; niente
della vigna, potrei più vedere a quest’ora. All’improvviso
si riparte.


Giorgio Bárberi Squarotti

È morto qualche giorno fa il poeta, lessicologo, storico della letteratura, dantista Giorgio Bárberi Squarotti. È stato un critico estraneo a tutte le scuole critiche, un accademico estraneo a tutte le accademie. Deve essere per questo che i giornali (quelli di carta, quelli in tv e quelli sul web: insomma, i giornali di tutti i generi) hanno dato alla sua scomparsa lo stesso spazio che avrebbero potuto dare a un incidente domestico capitato a un concorrente minore del Grande fratello.
Invece, Bárberi Squarotti è stato uno dei più grandi intellettuali che ha attraversato la storia d’Italia nell’ultimo secolo. Le poche righe che gli dedico qui, con il ritardo proprio delle notizie che do in questo blog, data la necessaria brevità degli interventi in uno strumento di comunicazione come questo, non gli rendono il merito dovuto, ma almeno possono contribuire a restituirgli – spero – la dimensione che gli spetta nel panorama della cultura italiana.

Ho messo al primo posto, tra le qualifiche con le quali ho voluto ricordarlo, quella di poeta. Ma ne parlerò alla fine di questo mio intervento. Comincio quindi da quella di lessicologo. Molti dei coccodrilli tirati fuori all’ultimo minuto nelle redazioni (anche se si sapeva che stava male e avrebbero potuto prepararli per bene nelle ultime settimane) hanno dimenticato (molti: per fortuna non tutti) l’opera colossale che lui ha diretto, il Grande dizionario della lingua italiana edito dalla UTET: dizionario intitolato sì a Salvatore Battaglia che ne ha cominciato la pubblicazione nel 1961 e l’ha curata fino alla morte (1971) portandola al settimo volume, ma diretto e condotto a compimento, fino al ventunesimo volume proprio da Bárberi Squarotti. Un lavoro titanico. Il primo e, finora l’ultimo, dopo il Dizionario del Tommaseo compilato e stampato tra il 1865 e il 1879. Sarebbe bastata quest’opera, nella quale ogni parola è accompagnata da infinite citazioni che indicano il cammino da essa percorso lungo la storia della nostra lingua, per ricordare Bárberi Squarotti come uno dei giganti della cultura italiana di questi decenni. Sarebbe bastata se della lingua italiana e della sua storia interessasse davvero qualcosa a qualcuno in un’epoca in cui tutti si lamentano che è poco conosciuta, ma sembrano farlo più per apparire nei salotti buoni delle conversazioni mondane che non per intima convinzione.
Dello storico della letteratura voglio citare qui un’altra “grande opera” da lui diretta e pubblicata dalla UTET, la Storia della civiltà letteraria italiana, una storia “all’antica”, di quelle con i dati e i fatti, con i titoli delle opere e le date, una storia, insomma di quelle alle quali affidarsi senza dubbi né esitazioni (e anche senza stare troppo a cercare dove trovare le notizie) per collocare lungo la linea del tempo un classico appena letto, la raccolta di un poeta della quale si siano sbirciati due o tre componimenti: già, ma chi legge più i classici italiani? Accanto a questa “grande opera” voglio citare, quasi per contrapposizione, tutti i saggi e gli interventi grandi e piccoli (alcuni piccolissimi) che ha dedicato alla letteratura contemporanea da lui seguita con uno scrupolo e una competenza ineguagliabile.
E ora veniamo al dantista. Studioso di Dante per tutta la vita, Bárberi Squarotti ha pubblicato con Franco Angeli nel 2011 un libretto di duecento pagine, dal titolo minimalista, Tutto l’Inferno, che rappresenta il compendio di una sapienza non sbandierata, ma praticata nell’analisi, si può dire, di ogni terzina, di ogni verso, di ogni espressione di questa cantica della Commedia. Un tesoro di osservazioni sempre documentate, molte originali, alcune di assoluta novità: tutte dettate con la sobrietà di una prosa piana e chiara, senza sbavature e senza affermazioni apodittiche. Doveva essere il primo passo di un’analisi dell’intero poema dantesco, ma – così mi aveva confidato l’ultima volta che ci siamo visti –, pur avendo rinunciato a quasi tutti gli altri suoi impegni, temeva di non riuscire a portarla a termine.

Ecco, infine, il poeta. Un poeta colto? Un poeta coltissimo? Certo, ma chi leggesse le poesie di Giorgio Bárberi Squarotti senza conoscere il nome dell’autore potrebbe avere l’impressione di una purezza del senso e del verso – un verso al tempo stesso così antico per il suo ritmo e così moderno per come riesce a sp(r)ezzare quel ritmo – dovuta all’ingenuità di un giovane poeta; potrebbe pensare che la leggerezza di certe immagini, indimenticabili quelle di certe occasioni di vita in città (la sua Torino) ma non solo, dipenda dalla leggerezza degli anni e del pensiero di chi ha scritto. Ma la grandezza di Bárberi Squarotti come poeta sta nel fatto che quella purezza e quella leggerezza sono il frutto ottenuto da una sapienza capace di dimenticare se stessa, da una dottrina vittoriosa nella battaglia condotta per liberarsi dal suo essere dotta. Le poesie di uno dei massimi critici e storici della letteratura italiana non si rivelano mai come l’esercizio “in più” di quella sapienza e di quella dottrina. Esse si rivelano a chi le legge, al contrario, come il distillato prezioso di una vita dedicata, sì al culto della parola, ma in primo luogo – e pienamente – vita.
D’altro canto è capitato a me qualcosa di singolare quando sono andato a trovarlo nella sua casa di via Duchessa Jolanda, la via – a proposito delle occasioni di vita in città – di quella «ragazza / ah forse non più giovane, ma intatta, / la maglia azzurra, corta, i fianchi lucidi, / nudi e abbronzati ancora» che sembra l’immagine più pura e leggera della giovinezza e che è, invece, il segno dell’attesa, della «pura forma davanti alla porta / vanamente aperta perché entri il tempo» [1]. Bene, nelle mie purtroppo rare visite in quella casa mi è capitato di chiacchierare con il professore su argomenti che sembravano cadere uno dopo l’altro senza un intendimento preciso. E poi, uscito di là, mi rendevo conto di avere un peso in più sulle spalle, come se avessi portato con me uno zaino e in quello zaino qualcuno, di nascosto, avesse aggiunto il carico di una saggezza nuova che avrei potuto possedere, sì, ma a patto di filtrarla da una inestimabile pagina di storia: quella che avevo appena vissuto nella casa che avevo appena lasciato.

P.S.
La riservatezza non può farmi trascurare qui di accennare, sia pure da ultimo e di sfuggita, all’attenzione che Bárberi Squarotti ha avuto per la mia poesia. Sin da quando ha letto la mia prima raccolta, La mente irretita (2008), mi ha scritto: «Caro Tortorici, ho letto i Suoi versi [sì, mi scriveva usando la maiuscola!] con molta ammirazione e con la gioia di incontrare una poesia tanto sapiente, profonda, valorosa».
Per la mia seconda raccolta, Viaggio all’osteria della terra (2012), ha avuto una predilezione particolare. Non solo ha scritto che la considerava «un’opera di straordinaria bellezza», una poesia «grandiosa, fra visioni, viaggi, paesaggi, città strade, incontri», ma ha anche voluto essere lui a presentarla al Salone del Libro di Torino e, per farlo, ha interrotto, almeno per un giorno, i suoi studi danteschi. Le foto che appaiono qui sono state scattate appunto in quella occasione: nella foto qui sopra il momento nel quale Bárberi Squarotti viene presentato da Cinzia Burzio; nella foto il alto uno dei passaggi nei quali parla del mio libro. Di quella sua attenzione, di quel tempo che mi ha dedicato nonostante l’ansia che aveva di portare avanti il suo lavoro su Dante, voglio dirgli grazie. Gliel’ho già detto di persona più volte, ma oggi che tanti l’hanno dimenticato voglio dirglielo ancora più forte: GRAZIE


[1] I versi sono tratti dalla poesia intitolata proprio Via Duchessa Jolanda, nella raccolta Le vane nevi, Bonaccorso, Verona, 2002.

Il male, il dolore e i dubbi del Manzoni
Una riflessione tornata d’attualità

Da parecchio tempo rifletto su quanto il Manzoni ha scritto a proposito del male e del dolore. Da una trentina d’anni. L’autore de I promessi sposi affronta questo problema, oltre che nel romanzo, un po’ in tutte le sue opere. Ma io ho posto al centro della mia riflessione una poesia poco conosciuta e che di solito non si studia a scuola, Il Natale del 1833.
Di questa poesia ora voglio parlare qui. Avverto subito che non è un testo “natalizio” nel senso festoso del termine. Se ne parlo adesso non è perché siamo ancora vicini all’atmosfera delle feste appena trascorse, ma perché questa mattina la parola “male” è risuonata in un momento davvero difficile per tutte le persone che vivono nelle zone terremotate: quello segnato da nuove scosse in un territorio nel quale l’enorme quantità di neve caduta negli ultimi giorni impedisce persino di scappare. «Non so se abbiamo fatto qualcosa di male – ha detto il sindaco di Amatrice –, me lo chiedo da ieri, due metri di neve e ora pure il terremoto. Che devo dire? Non ho parole». Poco dopo, un sacerdote amante dei social network, don Aldo Antonelli, citava queste parole nel riferire uno scambio di battute con una sua amica su Facebook. Ecco che cosa scrive il sacerdote:


Tre grandi e terribili scosse: ore 10,25 magnitudo 5,3; ore 11,14 magnitudo 5,5 e 11,26 magnitudo 5,3. Le avverto come paralizzanti mentre sto nel mio studio di Avezzano in provincia dell’Aquila e ne do notizia su facebook.
Un’amica commenta: “Don, una preghiera, Don”.
Io, lapidario, rispondo: “Per queste cose non prego!”.
L’amica aggiunge: “Boh … va beh … scusi ma non la capisco… Però… Va bene… Io prego sempre per tutto di solito!”.
Poco più tardi, il sindaco di Amatrice (mi sembra, non ricordo bene), raccontando la situazione veramente disarmante di un paese distrutto e di gente martirizzata dalla neve, dal gelo e da queste continue scosse, pone la domanda, per me infelice ma imbarazzante per certi credenti la cui fede è più vicina al credulismo dell’impaurito che alla “fedeltà” evangelica, pone la domanda: “Mi chiedo cosa abbiamo fatto di male?”.
Ecco, sia chiaro, per coloro che credono e per coloro che non credono e anche per coloro che credono di credere: il dio del Vangelo e il Dio della fede cristiana non è il dio a guardia della metereologia e/o a garanzia dei fenomeni naturali.
È il Dio che aiuta la coscienza del credente ad assumersi le sue responsabilità, a essere cosciente delle sue limitatezze e a disporre di se stesso ai fini di una convivenza solidale. In questo contesto la preghiera non è una polizza di assicurazione contro gli infortuni e gli inconvenienti legati alle nostra precarietà e all’instabilità del creato. È piuttosto un accendere in sé la coscienza della propria piccolezza e la fiamma di una forza che sa farci stare in piedi e ci dà speranza anche nelle sventure.


Avverto ancora, a proposito di queste ultime parole di don Aldo Antonelli (tra le quali ne spicca una tipicamente manzoniana: «sventure»), che la poesia della quale voglio parlare qui non è “natalizia” neanche nel senso consolatorio del termine. Che poesia è, insomma? Leggiamola.
È una poesia scritta, appunto, in occasione di una sventura personale. Alle otto di sera del 25 dicembre del 1833 era morta la moglie del Manzoni, Enrichetta Blondel. Il testo autografo de Il Natale del 1833 porta, insieme al titolo (che consiste soltanto nella data di quella morte) e all’epigrafe tratta dal Vangelo di Luca, la data del 14 marzo 1835, quella in cui probabilmente lo scrittore ne interruppe la composizione con la frase, apposta dopo la prima parola della quinta strofa, «Cecidere manus»[1]


14 marzo 1835
Tuam ipsius animam pertransivit gladius
Luc., II, 35.

Sì che Tu sei terribile!
Sì che in quei lini ascoso,
In braccio a quella Vergine,
Sovra quel sen pietoso,
Come da sopra i turbini
Regni, o Fanciul severo!
È fato il tuo pensiero,
È legge il tuo vagir.

Vedi le nostre lagrime,
Intendi i nostri gridi;
Il voler nostro interroghi,
E a tuo voler decidi.
Mentre a stornar la folgore
Trepido il prego ascende
Sorda la folgor scende
Dove tu vuoi ferir.

Ma tu pur nasci a piangere,
Ma da quel cor ferito
Sorgerà pure un gemito,
Un prego inesaudito:
E questa tua fra gli uomini
Unicamente amata,
Nel guardo tuo beata,
Ebra del tuo respir,

Vezzi or ti fa; ti supplica
Suo pargolo, suo Dio,
Ti stringe al cor, che attonito
Va ripetendo: è mio!
Un dì con altro palpito,
Un dì con altra fronte,
Ti seguirà sul monte.
E ti vedrà morir.

Onnipotente …

Cecidere manus


Questo testo non si trova di solito nelle antologie scolastiche. Esso non appartiene perciò al patrimonio culturale dei cittadini italiani, neppure di quelli che hanno studiato alle scuole superiori. È un testo conosciuto quasi soltanto dagli specialisti del Manzoni. E anche questi ultimi raramente hanno svolto studi veramente approfonditi sul Natale del 1833. Trent’anni fa Mario Pomilio ha dato il titolo di questo inno incompiuto a un suo romanzo che indaga il disperato e inquietante porsi del Manzoni di fronte al problema del dolore; tuttavia, neanche dopo la pubblicazione di quel romanzo (Rusconi, Milano 1983), la critica manzoniana è sembrata accorgersi della straordinaria importanza di questi versi. Peccato!
Il Natale del 1833 pone almeno un interrogativo tanto semplice (e forse perciò ignorato dagli specialisti, che in genere amano le cose difficili) quanto necessario: perché, dopo la morte della moglie, Manzoni scrisse di nuovo un inno sul Natale a oltre un ventennio di distanza da quando, nel 1813, ne aveva già composto un altro? Perché, insomma, il Manzoni ritenne di dover riflettere di nuovo sul rapporto tra la nascita di Cristo e la redenzione?
È vero che quello del rapporto tra la nascita (attenzione: la nascita, non la morte) di Cristo e la redenzione è uno dei grandi problemi di fede che lo scrittore si pone nell’intero corso della sua esistenza: il Dio che, per operare la redenzione dell’umanità si fa storia, anzi deve farsi storia; si fa carne, anzi deve farsi carne. Ed è anche vero che all’interno della riflessione manzoniana su questo problema la figura di Enrichetta occupa un posto decisivo. Enrichetta, con la sua conversione sofferta ma fortemente voluta, aveva determinato, in sostanza, anche la svolta di Alessandro. Enrichetta aveva costituito per lui l’occasione e lo stimolo della sua personale redenzione. Enrichetta lo aveva costretto a confrontarsi con la presenza di Dio nella storia, ad abbandonare incertezze e ambiguità e a convertirsi a sua volta con quella che possiamo considerare la prima vera e grande scelta di vita del giovane Manzoni.
Il dolore per la scomparsa della moglie si lega dunque allo smarrimento per lo spegnersi di una luce, per il venir meno di un forte punto di riferimento. Se si tiene conto di ciò, non può sorprendere che la morte di Enrichetta abbia determinato una cesura nella esistenza del Manzoni, anzi si comprende pure qualcosa che altrimenti potrebbe sembrare incredibile (soprattutto a noi moderni): e cioè che il dolore per quella perdita sia stato superiore in lui a quello per le numerose – precedenti e successive – perdite dei suoi figli. Solo se si tiene conto di ciò che Enrichetta aveva significato per la sua crescita spirituale si afferra insomma il motivo per cui le mani dell’uomo Manzoni, prima ancora che quelle del poeta, non hanno potuto proseguire nella composizione di quell’inno: il motivo non era legato semplicemente alla constatazione del male (la morte della persona amata) e alla conseguenza del dolore (in colui che l’aveva amata), ma al modo in cui il Manzoni era arrivato a scegliere, insieme a Enrichetta, una concezione – e, coerentemente, una pratica – di vita.

L’autografo Manzoniano de Il Natale del 1833

Quella constatazione, di per sé, non sembra essere per il Manzoni motivo di afasia e lo dimostra il fatto che l’inno, per quanto interrotto, non si possa affatto considerare un frammento né – meno che mai – un urlo sregolato. Esso è invece, come testimonia l’autografo così tormentato, una composizione di fortissimo impegno letterario la cui stessa dura tensione espressiva è determinata da una complessa struttura retorico-sintattica.
Ma c’è di più: se è vero che il testo del Natale del 1833 si presenta come lo spezzone di uno schema più ampio rimasto nella forma di scarni appunti di idee, è anche vero che la parte rimasta non ha la provvisorietà di un abbozzo, ha una sua finitezza, una sua interna coerenza e una sua solida organizzazione formale. Questa è imperniata intorno ai due «sì» con i quali si apre la prima strofa e ai due «ma» dei versi iniziali della terza. Inoltre le quattro strofe che il poeta ha portate a termine, così come sono strutturate, contengono un ragionamento in sé compiuto.

Nelle prime due strofe lo scrittore fa un’affermazione impegnativa e, al tempo stesso, compromettente: «Sì che Tu sei terribile!», un’affermazione che egli sente il bisogno di legittimare anzitutto per sé, come a rispondere con quel «Sì» a una domanda che egli stesso lungamente si era posto. Attraverso l’uso del presente dell’indicativo, sottolineato da una struttura ricca di parallelismi e di anastrofi, l’iniziale affermazione si sviluppa poi come in una dimostrazione stringente. L’essere «terribile» del Cristo nascente consiste nella imposizione della sua volontà rispetto ai destini individuali, e ciò indipendentemente da ogni preghiera umana. In tal modo la preghiera non è lo strumento attraverso il quale la constatazione del male trova una risposta né il dolore trova la possibilità di essere lenito. In questo don Aldo Antonelli ha perfettamente ragione a dire: «Per queste cose non prego». Nei versi del Manzoni la preghiera, le «lagrime», i «gridi» rivolti dall’uomo a Cristo diventano una sanzione del male avvenuto e del dolore che ha provocato: la loro essenza non può essere quella di richieste e meno che mai di richieste intese a far piegare in qualche modo il volere divino, ma è addirittura – inesorabilmente – quella di un assenso, della accettazione di una volontà inappellabile. È questo il senso dei versi conclusivi di queste prime due strofe: «Mentre a stornar la folgore / Trepido il prego ascende / Sorda la folgor scende / Dove tu vuoi ferir..».

La terza e la quarta strofa, introdotte da quei due «ma» che prima ho sottolineato, mediante l’uso di alcune importanti forme di futuro («sorgerà », «seguirà», «vedrà»), proiettano il Natale nel tempo in cui esso verrà a trovare il suo compimento attraverso il realizzarsi dell’atto della redenzione: anche questa redenzione, anche questo riscatto universale sono visti come il frutto di una preghiera inascoltata; persino dal cuore ferito del Cristo si leverà «un prego inesaudito». Non la storia dell’uomo soltanto, «ma» anche la storia di Dio, «ma» anche quella dimensione temporale nella quale Dio si è calato per farsi lui uomo sono state segnate da un «prego inesaudito». La storia degli uomini non è diversa dalla storia di Cristo né dalla storia della madre di lui. Il dolore dell’uomo che prega, inascoltato, per «stornar la folgore» da sé costituisce il ripetersi individuale della universalità di una nascita, quella di Gesù, finalizzata alla redenzione.

Qui il Manzoni vede la ragione di un Dio «onnipotente» e «terribile». E vede che il dolore non deriva dall’assenza di Dio, ma – ancora una volta: inesorabilmente – dalla sua presenza come redentore; attraverso il dolore, anzi proprio perché non può sfuggire a esso, l’uomo può individualmente redimersi. Nel mondo degli uomini il dolore non si giustifica quindi «nonostante Dio» (come sembra interpretare Mario Pomilio nel romanzo che ho citato), ma in suo nome: il dolore appartiene a quello che dovrebbe essere considerato l’atto più alto della sua misericordia. Il volere di questo Dio «terribile» e «onnipotente» si contrappone a quello dell’uomo e si afferma senza appello nei confronti dell’uomo. Il volere di questo Dio «terribile» e «onnipotente» trova la propria ragione in quella sua discesa nella storia che ha diviso in due la storia stessa: la redenzione.

Ma, all’interno di questo tipo di rapporto con Dio, qual è il posto dell’uomo nella storia? Questa è la domanda che Manzoni si pone di nuovo alla morte di Enrichetta. Il Dio di Ermengarda e di Napoleone, il Dio di Lucia e di Cristoforo, sia pure attraverso il dolore, la «provida sventura», imponeva ai chiamati dalla grazia una scelta, un sì o un no, reclamava una risposta nella quale, per un verso, si esprimeva interamente la libertà dell’uomo e, d’altra parte, si dispiegava lo stesso libero svolgimento della storia di ciascun individuo e, di conseguenza, della Storia. In quella visione guai alla creatura incapace di scegliere: Gertrude ne è l’immagine esemplare e il suo destino il destino esemplare.
Nel Natale del 1833 Manzoni dà alla domanda su qual è il posto dell’uomo nella Storia una risposta molto diversa rispetto a quella che aveva dato in passato. Altro che scelta! Ora egli vede una contraddizione insanabile tra la onnipotenza di Dio e la libera scelta dell’uomo: la prima qui sembra sopraffare la seconda; il dolore non si presenta più come una chiamata né impone, di conseguenza, alcun tipo di risposta, quanto piuttosto – per l’ennesima volta: inesorabilmente – una adesione. La contraddizione resta non risolta, né lo sarà più in alcun altro scritto del Manzoni.
Si trova forse qui la radice dell’ostinato successivo silenzio narrativo del Manzoni? Quel silenzio deriva dall’impossibilità di scrivere più una storia di uomini liberi, chiamati alla responsabilità delle proprie scelte? Quel silenzio deriva dalla motivata impossibilità che ora il Manzoni avverte, di aggiungere l’aggettivo «provida» al nome «sventura» e di dare quindi un senso al dolore? L’uomo Manzoni non sappiamo; lo scrittore chiude, con la rassegnata indifferenza alla contraddizione che gli si è aperta davanti come un baratro, un ciclo della propria esistenza che era cominciato, nel nome di Enrichetta, con la sua personale «scelta» del 1810: la conversione.


[1] Cecidere manus: queste parole, ‘le mani caddero’, sono tratte da Virgilio, Eneide, VI, 33. Si riferiscono al fatto che Dedalo, dopo aver cercato per due volte di raffigurare Icaro in una scultura aurea, cedette per il dolore: «tu quoque magnam / partem opere in tanto, sineret dolor, Icare, haberes. / Bis conatus erat casus effingere in auro, / bis patriae cecidere manus». Trad.: “anche tu, Icaro, avresti / avuta una parte cospicua in questa così grande opera: lo avesse permesso il dolore! / Due volte aveva cercato [sottinteso: Dedalo] di scolpire quell’evento nell’oro, / due volte caddero le sue mani di padre”.

Il mito siamo noi

Il 18 maggio alle 21, al teatro Porta Portese di Roma, alcuni miei testi poetici
letti attraverso una azione scenica che ne sottolinea il rapporto con il mito.

Da Giambattista Vico in poi il mito è stato considerato una forma di conoscenza, anzi la forma originaria di quel vocabolario dell’anima umana che si è venuto via via costruendo nel rapporto tra le cose e le parole che ha attraversato la storia di noi esseri pensanti, osservanti e parlanti.

Secondo Hegel, il mito fa parte, sì, «della pedagogia del genere umano, poiché eccita ed attrae ad occuparsi del contenuto», tuttavia «siccome in esso il pensiero è contaminato da forme sensibili, [il mito] non può esprimere ciò che vuole esprimere il pensiero. Quando il concetto si è fatto maturo, non ha più bisogno di miti». Ci sarà però un motivo se gli esseri umani continuano a voler conoscere attraverso il mito, anzi, spesso, vogliono conoscere se stessi attraverso il mito.

Prendiamo un caso esemplare della poesia del Novecento: Umberto Saba, qui a fianco mentre guarda il mare dalle colline di Trieste. Nel 1933, nella raccolta Parole, Saba scrive una poesia dal titolo Ulisse.


O tu che sei sì triste ed hai presagi
d’orrore – Ulisse al declino – nessuna
dentro l’anima tua dolcezza aduna
la Brama
per una
pallida sognatrice di naufragi
che t’ama?


E ora leggiamo anche il commento che lo stesso Saba ha fatto di questa poesia nella sua Storia e cronistoria del Canzoniere: «La breve poesia Ulisse – scrive Saba parlando di se stesso in terza persona –, una delle più brevi di tutto il Canzoniere e nella quale riecheggia il motivo della “Brama”, offre al lettore quello che “preso a sé” è forse il più bel verso di Saba: «pallida sognatrice di naufragi».


Ulisse al declino è probabilmente il poeta stesso. Nella figura di quell’astuto greco egli si è più volte (non sappiamo se a torto o a ragione; probabilmente più a torto che a ragione) “eroicizzato”. (vedi anche quella che, fino a oggi, è la sua ultima poesia: il componimento omonimo che chiude Mediterranee)».


Per capire il rapporto esemplare di Saba con il mito leggiamo dunque, infine, come il poeta nelle vesti di critico di se stesso ci suggerisce, questo secondo componimento intitolato Ulisse, inserito nella raccolta Mediterranee, del 1946, con la quale si chiudeva l’edizione del Canzoniere pubblicata nel 1948.


Nella mia giovanezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.


È fin troppo facile osservare che il Saba cinquantenne di Parole vede se stesso in un «Ulisse al declino» che potrebbe, lui eroe della “Brama” per antonomasia, non avere più brama «per una / pallida sognatrice di naufragi» (è vero: un verso bellissimo!). Quello di Saba è un dubbio. E da questo dubbio germina questa singolare poesia in forma di breve domanda. È altrettanto facile osservare che nella seconda splendida poesia (splendida, nel senso proprio della parola: che splende di luce marina, solare, smeraldina) il Saba di Mediterranee, di quasi quindici anni più vecchio, si riflette invece in un Ulisse tutt’altro che in declino: non a caso questa poesia è dominata, splendidamente, dalla parola rima “al-largo” che ci rimanda all’Ulisse navigatore, anzi all’Ulisse insaziabile, dantesco più che omerico.
Ma queste due facili osservazioni nascono dall’implicita persuasione che “il mito siamo noi”. Non avremmo nemmeno potuto abbozzarle nella nostra mente se non fossimo intimamente convinti che, per conoscerci, per conoscere noi stessi e la relazione che abbiamo con gli altri («il porto / accende ad altri i suoi lumi», scrive Saba con questa consapevolezza), possiamo ricorrere al mito; qualche volta dobbiamo ricorrere al mito, a quel patrimonio di immagini e racconti che qualcuno ha studiato, qualcuno no, ma che sono disponibili per l’immaginario di tutti noi da migliaia di anni, anzi sono l’immaginario di noi da migliaia di anni. Perché facciamo questo? Scrive Michail Lifšic che «nei miti il mondo reale si presenta sotto l’angolo visuale della libertà». Certo la libertà di pensare il mondo prima del λόγος: prima e anche più arditamente di quanto sia consentito al λόγος (nonostante quello che ne pensa Hegel). Ma, soprattutto, penso io, la libertà di sentire il nostro divenire come indefinito, come parte di un indefinito e infinito trascorrere nel quale ciascuno di noi conosce mentre ri-conosce e mentre si ri-conosce.

Questo è l’angolo visuale sul mondo che il mito ci dà. Guai se ce ne privassimo.
Per questo ho riunito in una “azione scenica” intitolata Il mito siamo noi la lettura di alcune mie poesie che, in modo più o meno diretto, si legano con fili fortissimi a quel patrimonio al tempo stesso così lontano e così vicino. L’ho fatto per sollecitare nuova conoscenza, ri-conoscimento di sé e degli altri.
Il 18 maggio prossimo alle 21 questa “azione scenica” sarà eseguita, nella bella Sala Brecht del teatro Porta Portese di Roma, da me, da Paola Nanni e da Monica Bianchi, accompagnati dal flauto impareggiabile di Annalisa Spadolini. Venite! E non trascurate di prenotare perché la Sala Brecht è bella, ma non contiene molti posti. Potete prenotare telefonando dalle 17.00 alle 19.00 ai numeri 06.5812395 o 371.1865004, oppure mandando a quest’ultimo numero – a qualsiasi ora – un sms con il nome e il cognome della persona che andrà a ritirare i biglietti al botteghino, il tipo (primo o secondo ordine di poltrone) e il numero dei posti che si intendono prenotare. In questo ultimo caso riceverete un sms di conferma. Affrettatevi!