Lettura del primo canto della Commedia

Due domande impertinenti e due pertinenti risposte

1. Prima delle domande, una osservazione

Prima delle domande, è necessario che io faccia una breve osservazione a proposito del modo in cui si designa di solito il primo canto della Commedia. Dire, o scrivere (come spesso si fa), “primo canto dell’Inferno” è parzialmente sbagliato. Questo canto precede – è vero – i trentatré canti dell’Inferno, tuttavia introduce non alla prima cantica soltanto, ma all’intera Commedia. Dante voleva che il poema fosse di cento canti. Cento, il numero perfetto, ma anche un numero non raggiungibile con tre cantiche: tre, anche questo numero perfetto e irrinunciabile. Il poeta poteva raggiungere cento canti, per esempio, aggiungendone uno dopo il trentatreesimo del Paradiso: avrebbe potuto isolare, in una sorta di inno finale, la visione di Dio. Egli preferisce invece incrementare di un canto la prima cantica e decide di porre questo canto prima degli altri. Se lo fa, deve essere perché avverte con forza la necessità di una introduzione generale. Una necessità talmente stringente da spingerlo ad affrontare le non poche complicazioni derivanti da questo “canto in più” all’inizio del poema.
Già il Boccaccio lo percepiva come tale: nella sua lettura dell’Inferno, divide la prima cantica in due parti: il proemio (costituito appunto da questo primo canto del quale stiamo parlando) e i successivi trentatré canti.
Ed ecco la complicazione: se seguiamo questo criterio, il secondo dovrebbe essere considerato il primo vero canto dell’Inferno. E così è, difatti, dato che qui si trova l’invocazione alle muse. Ma in questo modo non tornerebbe, per esempio, la corrispondenza tra i sesti canti delle tre diverse cantiche (della quale il Boccaccio non si occupa affatto): nell’Inferno, infatti, il canto politico dovrebbe essere il VII e non il VI. Già, un punto non da poco, tale da mettere in crisi un aspetto non secondario della struttura della Commedia, almeno per come essa è stata ricostruita (o immaginata?) dalla critica dantesca tradizionale: in verità penso che anche su questo sarebbe necessario porre prima o poi una domanda impertinente e cercare a essa una pertinente risposta. Ma non è questo il luogo per farlo.

Proprio perché si tratta di una scelta che sarebbe potuta essere diversa e che, per di più, come abbiamo visto, aggiunge seri problemi a quelli già di per sé non semplici da risolvere relativi all’ordinamento generale del poema, essa costituisce anche una scelta di grande importanza. Se Dante ha deciso così è perché vuole che la lettura del I canto della Commedia sia determinante nell’orientare il lettore. Infatti è vero che da come leggiamo questo canto deriva il modo in cui leggeremo tutti gli altri. La risposta alla prima domanda, capire bene il significato del verso iniziale, sarà essenziale per continuare in un modo o nell’altro la lettura del poema.

2. La prima domanda: che cosa significa «Nel mezzo del cammin di nostra vita»?

Potremmo porre questa domanda in un’altra forma: di quale metà della nostra vita parla Dante? Vedremo che la risposta relativa a questo unico verso (il primo del canto-proemio) determina davvero il modo in cui poi leggeremo i successivi 14.232 versi.
L’interpretazione corrente, anzi ormai l’unica ammessa, quella che a scuola abbiamo studiato tutti senza che ci venisse proposto neanche il dubbio di possibili alternative, è che Dante voglia fornire con questa espressione una indicazione cronologica: quella relativa al suo trentacinquesimo anno. Egli ci darebbe così, fin dall’inizio del poema, se non la data esatta del viaggio (che poi ci darà con precisione nel ventunesimo canto dell’Inferno), almeno il periodo approssimativo nel quale esso si è svolto.
Questa interpretazione ha una sua solidità. Si basa infatti su due passi del IV trattato Convivio. Nel primo di questi due passi (Conv., IV, xii, 15-18) Dante parla dell’anima che entra nel «nuovo e non mai fatto cammino di questa vita» con lo scopo di raggiungere il bene ritornando al suo principio, cioè a Dio. Nel secondo (Conv. IV, xxiii, 6-10), dice di credere che «lo punto sommo» dell’arco della vita è «nelli più […] tra il trentesimo e ‘l quarantesimo anno»; e aggiunge: «io credo che nelli perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno». Sono riferimenti corretti: l’espressione usata da Dante nel primo brano è praticamente identica a quella del primo verso della Commedia; e nel secondo si fa esplicito riferimento alla durata della vita e alla sua metà. Ciò non toglie che a questi riferimenti si potrebbe opporre qualche dubbio, a cominciare dal fatto che i due brani sono separati e non hanno nessuna relazione tra loro. Inoltre, quando parla del trentacinquesimo anno, Dante usa nel Convivio la metafora del «sommo» dell’arco e non quella del «mezzo del cammino». In particolare, la metafora del «sommo» dell’arco e il significato complessivo del brano del Convivio su questo argomento porterebbero alla metà del trentacinquesimo anno e non alla sua fine, come invece era per Dante nell’aprile del 1300, dato che sarebbe entrato nel suo trentaseiesimo anno poco più di un mese dopo.
Nonostante questi possibili dubbi, nel miglior commento dantesco oggi disponibile, Anna Maria Chiavacci Leonardi afferma senza esitazioni che è «decisamente da rifiutare l’interpretazione, già di alcuni antichi, per cui “il mezzo del cammin” sarebbe il sonno, nel quale si passa metà della vita (cfr. Eth. Nic. I 13), inteso come figura di uno stato di visione quale si ritrova anche nella Scrittura»[1]. Non nego affatto che quest’altra interpretazione in età moderna sia stata sempre a dir poco condannata, ma penso che ciò si debba attribuire a motivi più estrinseci che intrinseci. E un grande critico che ha guardato solo al testo dantesco e che non si è lasciato distrarre da motivi che non fossero interni a quel testo, Giorgio Bárberi Squarotti, non a caso, è stato l’unico a riprendere, dopo qualche secolo di ostracismo, l’idea che «il primo verso […] potrebbe alludere, più probabilmente che all’età dell’uomo Dante, alla condizione di sonno in cui l’uomo passa metà della sua vita e, quindi, alla condizione esteriore necessaria perché l’uomo possa avere una visione»[2].

Vediamo di approfondire. E, per approfondire, partirei da un dato di fatto: è un fatto che in qualche antico commento si avanzano, senza troppi rifiuti aprioristici, le due possibili interpretazioni, ciascuna per altro con significative varianti. L’Ottimo commento, come viene chiamato un commento anonimo (ma probabilmente del notaio Andrea Lancia) del quarto decennio del Trecento, spiega in questo modo il primo verso della Commedia:


[…] queste parole hanno due sposizioni; una si referisce alla etade dello Autore, l’altra al tempo della sua speculazione. Alla etade, cioè xxxv anni, che è mezo di lxx anni, li quali sono il corso universalmente comune della nostra etade, quando non si passano, per ottima complessione, o si minuiscono, per mala complessione od accidente. Cogliesi dunque che l’Autore fosse d’etade di xxxv anni, quando cominciò questa sua Opera. Questa etade è perfetta; ha forteza, ed ha cognizione. Alcuni dicono, che la etade di xxxiii anni è mezo, cogliendola dalla vita di Cristo; dicono, che infino a quello tempo la virtù e le potenze corporali crescono; e da lì in su col calore naturale diminuiscono; sì che quella etade sia mezo e termine tra lo montare e lo scendere. In questa etade debbono li uomini essere quanto si puote umanamente perfetti, lasciare le cose giovanesche, partirsi da’ vizj, e seguire virtù e conoscenza. E con questa motiva essemplifica sé l’Autore agli altri: duolsi del tempo passato in vita viziosa, e volge li passi a’ migliori gradi.
Al tempo della sua speculazione si puote questa parola riferire, cioè che elli si trovasse nel tempo della notte, la quale tiene mezo del camino mortale, però che tanto comprendono le notti, quanto li dì, compensati tutti li tempi, ed ancora più che l’Autore cominciò questa opera a mezo Marzo, quando erano eguali li dì con le notti; […].


D’altro canto la stessa interpretazione della metà della vita era molto incerta in quegli anni così vicini alla stesura della Commedia e oscillava almeno, come lo stesso Ottimo commento precisa, fra il trentaquattresimo e il trentacinquesimo anno. Iacopo Alighieri, il figlio di Dante e Gemma Donati che scrive un commento nel 1322, appena un anno dopo la morte del padre, spiega così il «mezzo del camin»: «si considera il vivere di trentatre, o vero di trentaquattro anni, secondo quello che del più e del meno e del comunale appare e simigliantemente quel c’appare del vivere e del morire di Cristo, il quale, per essere perfetto in tutte sue operazioni il mezzo comprese».

Tra il commento di Iacopo Alighieri e l’Ottimo, probabilmente tra il 1322 e il 1328, Guido da Pisa spiega senza tanti dubbi:


Per istud dimidium nostre vite accipe somnum» e conclude con la citazione di un brano nel quale Aristotele, parlando del sonno dice che esso occupa, appunto, «metà della vita», in latino dimidium vitae, “il mezzo della vita”: «In dimidio igitur nostre vite, idest in somno, secundum quem nichil differt stultus a sapiente, prout Philosophus vult in fine primi libri Ethicorum, fingit autor suas visiones vidisse.


Inutile aggiungere che Dante conosceva benissimo, probabilmente a memoria, questo brano di Etica I, 13.

In sostanza, a differenza dei più recenti, i primi commenti non hanno affatto tante sicurezze e oscillano tra l’interpretazione cronologica e quella del periodo notturno. In merito alla prima variano, come abbiamo visto, fra i trentatré anni (che non collocherebbero affatto il viaggio, come invece è, nell’aprile del 1300) e i trentaquattro. In merito alla seconda variano tra la spiegazione del «mezzo» come riferito genericamente alla notte o più specificamente al sonno: in entrambe le varianti di questa seconda interpretazione, la notte o il sonno sono il periodo nel quale si verificano le visioni. Questo è il problema: chi interpreta il «mezzo del cammin» come “notte” o “sonno”, non legge la Commedia come il racconto (oggi si direbbe la fiction, ma ai tempi di Dante si sarebbe detto fictio o fictio poetica) di un viaggio, ma come la esposizione di una visione. Cambia tutto. Cambia, solo per fare un esempio, che il viaggio è certamente falso (fictio, appunto), mentre la visione potrebbe anche essere vera, o almeno presentata come tale.

Proprio qui sta uno dei motivi estrinseci che prima ho indicato tra le cause per le quali questa interpretazione del “mezzo” come ‘notte’ o ‘sonno’ è stata rigettata dai moderni. Valga per tutti il commento di Francesco Mazzoni, scritto tra il 1965 e il 1985. Secondo il Mazzoni il dato cronologico viene respinto da Guido da Pisa «per motivi manifestamente fideistici»: sarebbero stati questi motivi a spingere «il frate» (come spregiativamente lo designa il critico) «a introdurre (passata ormai la prima metà del secolo, e radicalmente mutato l’orizzonte culturale – e quindi la problematica – di cui il poema s’era nutrito) una nuova categoria esegetica: quella della Commedia come “visio per somnum”: onde farne, sin dalle prime battute della chiosa, in armonia col carattere e il tono della medesima, risentita, sua personalità di religioso (che viene improntando di sé l’esegesi), una visione profetica di stampo biblico». Insomma, la Commedia non poteva essere una “visio per somnum”, non tanto per concreti riscontri testuali (che, come vedremo, vanno invece tutti in quella direzione), quanto per una visione pregiudizialmente laicista o, se si vuole, ideologicamente laicista del poema.

Tuttavia, proporre la Commedia come «visione profetica» non è affatto necessariamente riconducibile, come pretende il Mazzoni, a «motivi manifestamente fideistici» propri di una «risentita […] personalità di religioso». E non è neanche derivabile soltanto da uno «stampo biblico», dato che Dante aveva benissimo in mente sia il Somnium Scipionis di Cicerone, forse l’opera dell’antichità classica più letta nel medioevo, sia il genere medievale delle visioni, che era a sua volta, una reinterpretazione in chiave millenaristica delle visioni profetiche della Scrittura.

A proposito di «stampo biblico», ci sono tuttavia almeno due cose da osservare per verificare che esso non è poi così lontano dall’ispirazione dantesca. Che male c’è? Non poteva essere altrimenti per un intellettuale di quell’epoca. La prima osservazione è che, quando Dante parla del proprio poema, parla esplicitamente di «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra». La seconda è che di suggestioni bibliche si può e anzi si deve parlare a proposito della Commedia. Leggiamo, proprio in relazione al I canto, un brano tratto dal Libro dei profeti: Daniele, 7.


1 Nel primo anno di Baldassàr re di Babilonia, Daniele, mentre era a letto, ebbe un sogno e visioni nella sua mente. Egli scrisse il sogno e ne fece la relazione che dice:

2 Io, Daniele, guardavo nella mia visione notturna ed ecco, i quattro venti del cielo si abbattevano impetuosamente sul Mar Mediterraneo 3 e quattro grandi bestie, differenti l’una dall’altra, salivano dal mare. 4 La prima era simile ad un leone e aveva ali di aquila. Mentre io stavo guardando, le furono tolte le ali e fu sollevata da terra e fatta stare su due piedi come un uomo e le fu dato un cuore d’uomo.

5 Poi ecco una seconda bestia, simile ad un orso, la quale stava alzata da un lato e aveva tre costole in bocca, fra i denti, e le fu detto: «Su, divora molta carne».

6 Mentre stavo guardando, eccone un’altra simile a un leopardo, la quale aveva quattro ali d’uccello sul dorso; quella bestia aveva quattro teste e le fu dato il dominio.

7 Stavo ancora guardando nelle visioni notturne ed ecco una quarta bestia, spaventosa, terribile, d’una forza eccezionale, con denti di ferro; divorava, stritolava e il rimanente se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava: era diversa da tutte le altre bestie precedenti e aveva dieci corna.


Questa visione di tre bestie più una (e sia pure di bestie assai meno realistiche di quelle che impediscono il cammino di Dante) è così vicina a quanto descritto nel I canto della Commedia (anche solo per il fatto che due bestie su quattro sono le stesse nei due casi) che ci spinge a fare alcune considerazioni in più sul fatto che Dante si propone come espositore di una sua “visio per somnum” e non come autore di una fictio.
Per fare queste considerazioni, passiamo per un momento al secondo canto, cioè al primo vero canto dell’Inferno. Qui Dante chiede a Virgilio di verificare se la sua virtù sia all’altezza della situazione e ricorda due casi nei quali qualcuno è andato fisicamente («sensibilmente», Inf., II, 15) nell’oltretomba. Il primo di questi due casi, classico, Dante lo riprende da quanto ha raccontato Virgilio stesso: è Enea. Il secondo, evangelico, è Paolo. Dopo aver citato questi due casi, Dante nega di essere l’uno e l’altro: «io non Enëa, io non Paulo sono; / me degno a ciò né io né altri ‘l crede». Egli nega, insomma, non solo che la sua andata nell’oltretomba possa essere “fisica” come quella di Enea, ma anche che possa essere soltanto ipotizzata come “fisica” secondo quanto scritto da Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi [3]. A lui non può essere affidato un compito storico così alto come quelli affidati a Enea, fondare l’impero romano, e a san Paolo, diffondere il cristianesimo. Qui Dante non è falsamente modesto: stabilisce una gerarchia di compiti storici. A lui tocca compiere, attraverso la visione, un’analisi del presente che faciliti un nuovo e più giusto indirizzo del cammino umano. Se non è né Enea né Paolo, allora egli è Daniele, Ezechiele, Isaia etc., cioè uno di coloro che non sono andati fisicamente (non hanno avuto neanche il dubbio di essere andati fisicamente), ma hanno visto “per somnum” e, attraverso le loro visioni, hanno svolto per il popolo ebraico quel compito di indirizzo che Dante attribuisce a se stesso per l’Europa a lui contemporanea.

A differenza di quando Francesco Mazzoni scriveva il suo commento (negli anni tra il 1965 e il 1985) oggi sulla interpretazione della Commedia come “visione” c’è una diffusa concordanza, forse una moda. Walter Siti, commentando su “Repubblica” gli ultimi versi dell’ultimo canto del Paradiso, ha scritto (qui): «Si è discusso a lungo se il viaggio della Commedia sia da intendere come finzione poetica o come effettiva visione mistica dell’aldilà; insomma se Dante credesse davvero di aver “visto” ciò che racconta. Io sono tra chi ritiene che la Commedia sia una “visione in sonno” e che Dante fosse convinto della portata profetica del suo racconto; soffriva periodicamente di crisi epilettiche e fin dal tempo della Vita nova aveva interpretato queste crisi come segno di predestinazione, che il suo corpo fosse un recipiente adatto a illuminazioni trans-sensoriali. Nella sua epoca le visioni venivano prese sul serio, se ne distinguevano varie specie e nessuno metteva in dubbio che fossero un veicolo per la verità (una volta escluse le loro contraffazioni diaboliche). Inoltre la “visio” era un genere letterario diffuso, un collaudato contenitore narrativo. Dante è «pien di sonno» quando entra nella selva oscura e qui in paradiso, nel penultimo canto, San Bernardo lo incita ad affrettarsi perché il tempo del sonno sta per finire». Andrea Cortellessa afferma, in una sua video lettura del I canto (qui), che «si tratta di una vera e propria visione onirica». Questo diffuso concordare sull’idea della Commedia come visione, talvolta più estemporaneamente affermato che motivato, non ha portato però a riflettere sul significato del primo verso. Lo ha fatto soltanto, come ho ricordato più sopra, Bárberi Squarotti.

Se la Commedia è una “visio per somnum”, il «mezzo del cammin di nostra vita» ci dice proprio questo: e lo fa per indirizzare la nostra lettura. D’altro canto, verso la interpretazione della Commedia come “visio per somnum” ci portano, prima e più di tante altre possibili considerazioni, due precisi e inequivocabili indizi, finora – mi sembra – non esaminati da nessuno a questo scopo, ma che, come direbbe un pubblico ministero in un processo, data la loro perfetta concordanza e univocità, costituiscono, messi insieme, una prova. Questi indizi si trovano nei due poemi che Giovanni Boccaccio e Francesco Petrarca scrissero a imitazione della Commedia: rispettivamente l’Amorosa visione (il cui titolo è già di per sé molto esplicativo) e i Triumphi. Ecco i primi venticinque versi del poema allegorico del Boccaccio e i primi dodici di quello del Petrarca.

Giovanni Boccaccio, Amorosa visione, Canto I, vv. 1-25


Move nuovo disio l’audace mente,
donna leggiadra, per voler cantare
narrando quel ch’Amor mi fé presente,
in visïon piacendol di mostrare
all’alma mia, da voi presa e ferita
con quel piacer che ne’ vostri occhi appare.
Recando adunque la mente, smarrita
per la vostra virtù, pensieri al cuore,
che già temeva di sua poca vita,
accese lui d’un sì fervente ardore,
ch’uscita fuor di sé la fantasia
subito corse ‘n non usato errore.
Ben ritenne però il pensier di pria
con fermo freno, ed oltra ciò ritenne
quel che più caro di nuovo sentia.
In cui vegghiando, allor mi sopravenne
ne’ membri un sonno sì dolce e soave,
ch’alcun di lor in sé non si sostenne.
Lì mi posai, e ciascun occhio grave
al dormir diedi, per li quai gli agguati
conobbi chiusi sotto dolce chiave.
Così dormendo, sovra i lidi lati
errar mi vidi, non so che temendo,
pauroso e solo in quell’inabitati,
or qua or là, null’ordine tenendo;
[…].


Francesco Petrarca, Triumphi, Triumphus cupidinis, I, vv. 1-12


Al tempo che rinnova i miei sospiri
per la dolce memoria di quel giorno
che fu principio a sì lunghi martiri,
già il sole al Toro l’uno e l’altro corno
scaldava, e la fanciulla di Titone
correa gelata al suo usato soggiorno.
Amor, gli sdegni, e ’l pianto, e la stagione
ricondotto m’aveano al chiuso loco
ov’ogni fascio il cor lasso ripone.
Ivi fra l’erbe, già del pianger fioco,
vinto dal sonno, vidi una gran luce,
e dentro, assai dolor con breve gioco
[…].


Salta agli occhi e alle orecchie – ed è tanto più inverosimile che nessuno abbia usato finora questi indizi – che all’inizio dei loro poemi i due poeti sentono il bisogno di confermare la loro fedeltà all’originale dantesco – già attestata dall’uso della terzina (che, ricordo, è stata inventata da Dante: prima di lui non esisteva) – con la chiara indicazione, attraverso le parole “sonno” e “vidi” (entrambe presenti nei versi tra il 10 e il 16 del I canto dantesco), che ciò che stanno scrivendo è proprio una “visio per somnum”. Non solo: l’uso di rime proprie dei primi versi della Commedia (Boccaccio: “smarrita-vita”; Petrarca: “loco-fioco”) assolve qui con tutta evidenza a una funzione di richiamo: «Ehi, lettori! Avete capito che il modello di quest’opera è la Commedia di Dante?»[4]. Insomma, coloro che per primi hanno il coraggio di confrontarsi con il capolavoro dantesco non hanno dubbi sul fatto che esso sia una “visio per somnum”. Io mi fido di loro più che di sette secoli di critica dantesca.

3. La seconda domanda: c’era la luna quella notte?

A proposito di sette secoli, in tutto questo periodo in pochi si sono chiesti se vi fosse la luna la notte nella quale si apre la visione di Dante. E questi pochi non hanno dato risposte convincenti.

Ora, che vi fosse la luna quella notte è affermato dallo stesso autore, senza ombra di dubbio, per due volte. La prima alla fine del ventesimo canto dell’Inferno. Qui, Virgilio avere indicato una serie di maghi e indovini puniti nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio invita Dante ad affrettarsi con queste parole:


[…]
Ma vienne omai, ché già tiene il confine
D’amendue li emisperi e tocca l’onda
Sotto Sobilia Caino e le spine[5];
e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda».
Sì mi parlava, e andavamo introcque.
(Inf., XX, vv. 124-130)


La seconda volta lo ricorda personalmente Dante quando incontra Forese Donati nel ventitreesimo canto del Purgatorio e gli racconta come è arrivato nell’Oltretomba:


Di quella vita mi volse costui
che mi va innanzi, l’altr’ier, quando tonda
vi si mostrò la suora di colui”,
e ‘l sol mostrai […]
(Purg., XXIII, 118-121)


Il problema, dunque, non è se quella sera vi fosse la luna, ma dove fosse: Dante doveva averla vista e doveva ricordarsene bene, perché quella vista gli era stata di giovamento («non ti nocque»: è una litote, cioè una affermazione ottenuta attraverso due negazioni) in una occasione («alcuna volta» vale qui “una volta”) durante la notte nella quale egli si era ritrovato nella «selva fonda». Le parole che Virgilio dice nel ventesimo canto dell’Inferno sono incontrovertibili. Perciò è addirittura incredibile che i commenti della Commedia abbiano finora tutti, dai più antichi ai moderni, sottovalutato queste parole. Nel celebrato commento-racconto di Vittorio Sermonti, rivisto, come è noto, nientemeno che da Gianfranco Contini (ormai vecchio, però) e da Cesare Segre, mentre a proposito del primo canto si parla di una notte di luna piena, nel commento ai versi conclusivi del ventesimo non si accenna neanche al problema. Nel commento che ho già richiamato come il migliore tra quelli odierni Anna Maria Chiavacci Leonardi (che mi dispiace di citare per due occasioni tra le pochissime nelle quali il suo commento non mi convince) non fa eccezione rispetto alla generale dimenticanza del problema da parte della critica, anzi si avventura in un’osservazione a dir poco azzardata, e comunque incoerente, a proposito di quanto dice Virgilio: «Di questo fatto non si fa parola nel I canto. È certamente un’invenzione di questo momento per dare maggiore plausibilità alle parole di Virgilio»[6]. Perché mai il riferimento alla luna piena della sera prima dovrebbe dare «maggiore plausibilità» alle parole con le quali Virgilio spinge Dante ad affrettarsi nel passare dalla quarta alla quinta bolgia? E davvero si può pensare che Dante si abbandonasse a un’invenzione estemporanea in un poema la cui struttura è organizzata con una precisione maniacale? Questa osservazione di Chiavacci Leonardi farebbe pensare che Dante fosse un tipo, se non proprio del tutto irragionevole, almeno un po’ scriteriato. Ma certamente non è così. Il problema non è davvero se Dante abbia tirato via su un particolare di tanta importanza: non ha tirato via. E dunque, ecco la domanda: dove Dante ha visto la luna la notte dello smarrimento? O anche, anzi meglio: dove la luna gli era stata di giovamento quella notte?

Ho affermato prima che solo in pochi si sono posti il problema di dove fosse la luna quella notte. Chi sono questi pochi? Ne cito due, in particolare.

Uno è Giovanni Pascoli. In un corso universitario su Dante, poi pubblicato nel volume La mirabile visione, il Pascoli si occupa molto della luna nel primo canto e la interpreta come la “Grazia”. Per questo spiega: «Ora la grazia è, di natura sua, occulta. Invero dice S. Agostino, che è il Cristo che battezza, non però con visibile ministerio, sì occulta gratia. La grazia opera dentro noi; Dio non agisce da fuori, ma di dentro: non si mostra, diciamo. La grazia è segreta e rimota dai nostri sensi»[7]. Perciò, secondo Pascoli, Dante si giovò della luna quella notte, ma non la vide.

Di recente Franco Ferrucci ha riproposto il problema all’interno di una originale e interessante interpretazione complessiva dello smarrimento di Dante (della quale non è qui il luogo di parlare), ma in questa sua interpretazione considera la luna solo un simbolo, tanto che, sebbene perfettamente consapevole che si tratta di una “luna tonda”, cioè piena, afferma che essa «non è ancora tramontata al momento» dell’incontro tra Dante e Virgilio «e rimane diuturnamente nel cielo»[8]: ma ciò è impossibile perché la luna piena tramonta quando il sole sorge e un esperto di astronomia come Dante non avrebbe mai usato, neppure come simbolo totalmente slegato dalla realtà, uno strafalcione astronomico del genere.

Insomma, nessuno si è posto il problema di spiegare fino in fondo le parole di Virgilio collocando la luna da qualche parte nel paesaggio descritto nel primo canto. Qualunque lettore senza pregiudizi capisce perfettamente che quelle parole non alludono a un simbolo, ma alla luna piena vera e propria; e, soprattutto, contengono un particolare preciso che nessuno ha spiegato (anche se Pascoli, unico, ci ha provato): il particolare è che Dante aveva tratto giovamento dalla vista della luna.

Questa è la chiave per risolvere il problema. Infatti, sono poche in quella notte le circostanze nelle quali Dante trae giovamento da qualche cosa. E in una di quelle poche, stando alle chiare parole di Virgilio, quel giovamento deve essergli stato causato dal fatto di aver visto la luna. Perché mai non prestare fede a parole una volta tanto così semplici e di immediata comprensione?

Cerchiamo allora i momenti nei quali Dante prova sollievo nel primo canto. Essi sono tre: il primo è quando, dopo il buio fitto della selva (che era «oscura», «forte», «fonda»: dunque da lì non si poteva vedere la luna), Dante vede il colle le cui spalle, come osserverà successivamente alzando lo sguardo, sono già illuminate dal «pianeta che reca dritto altrui per ogne calle»; il secondo è quando Dante avverte che «’l sol montava ‘n su con quelle stelle / ch’eran con lui quando l’amor divino / mosse di prima quelle cose belle»; il terzo è quando vede davanti ai suoi occhi Virgilio. Poiché nel secondo e nel terzo di questi momenti di sollievo è evidente che della luna non c’è traccia (il primo è causato con tutta evidenza dal sorgere del sole, l’altro dalla presenza di Virgilio: non ci sono dubbi in entrambi i casi), cerchiamo di capire se per caso nel primo di questi tre momenti Dante non veda la luce della luna.

È il momento in cui Dante si trova «là dove terminava quella valle» oscurata dalla selva e vede un colle. Se fino a quel momento non aveva visto davanti a sé nessuna luce, come per esempio quella che si vede alla fine di un tunnel, è evidente che la luce non si trovava di fronte a lui: dunque, a quel punto, egli si gira, vedremo tra poco se a destra o a sinistra. Solo allora guarda «in alto» e vede dietro al colle una luce che illumina «le sue spalle». Essa è provocata dai «raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle». Questo «pianeta»[9] è la luna (nella foto qui sopra ecco l’effetto che fanno i raggi della luna che tramonta dietro un colle).
Per sette secoli, quasi senza eccezioni, tutti i commentatori hanno ritenuto che «quel pianeta» fosse il sole: l’unica ragione di questo errore così concorde può essere trovata nel fatto che il sole offre una comoda interpretazione allegorica. Solo Guido da Pisa afferma con sicurezza che sia Venere. Una piccola crepa in un muro apparentemente solido di certezze. Ma in questi sette secoli almeno uno si è fatto venire un dubbio serio. Si tratta di un illustre collega di Dante: Torquato Tasso. Postillando i versi 16 e 17 del primo canto dell’Inferno, il Tasso si pone un interrogativo non da critico, ma da poeta: «Come dice di sotto (v. 37) “tempo era dal principio del mattino”, se di già il sole avea coperte le spalle del monte?»[10]. Da collega, il Tasso sa bene che un poeta come Dante non avrebbe mai fatto un pasticcio del genere a distanza di venti versi e si pone la domanda che nessun critico si è posta: come poteva essere mai il sole dietro le spalle del monte, se Dante ne descrive il “montar su” poco dopo?

Proviamo a rispondere a questa domanda con le parole di un altro illustre collega sia di Dante sia del Tasso: Giacomo Leopardi. Leggiamo alcuni versi del suo Tramonto della luna.

Giacomo Leopardi, Il tramonto della luna, vv. 1-22 e 51-68


Quale in notte solinga,
sovra campagne inargentate ed acque,
là ‘ve zefiro aleggia,
e mille vaghi aspetti
e ingannevoli obbietti
fingon l’ombre lontane
infra l’onde tranquille
e rami e siepi e collinette e ville;
giunta al confin del cielo,
dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
nell’infinito seno
scende la luna; e si scolora il mondo;
spariscon l’ombre, ed una
oscurità la valle e il monte imbruna;
orba la notte resta,
e cantando, con mesta melodia,
l’estremo albor della fuggente luce,
che dianzi gli fu duce,
saluta il carrettier dalla sua via;

tal si dilegua, e tale
lascia l’età mortale
la giovinezza. […]

Voi, collinette e piagge,
caduto lo splendor che all’occidente
inargentava della notte il velo,
orfane ancor gran tempo
non resterete; che dall’altra parte
tosto vedrete il cielo
imbiancar novamente, e sorger l’alba:
alla qual poscia seguitando il sole,
e folgorando intorno
con sue fiamme possenti,
di lucidi torrenti
inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
giovinezza sparì, non si colora
d’altra luce giammai, nè d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
che l’altre etadi oscura,
segno poser gli dei la sepoltura.


Leopardi descrive in questi versi esattamente la situazione nella quale si trova Dante in quella notte. Dante esce dalla selva: la luna sta già tramontando da una parte e poco dopo il sole sorge «dall’altra parte». Probabilmente la direzione che ha seguito nell’attraversare la selva oscura è quella che va da nord verso sud. Solo «là dove terminava quella valle», cioè quando egli si trova ancora nella selva, ma può indirizzare lo sguardo al di là di essa, vede un colle. Allora si gira a destra, verso occidente, guarda in alto e vede che la luna sta già tramontando dietro quel colle tanto che ne veste le spalle con i suoi raggi. Quella visione gli è di giovamento: tanto è vero che egli si calma, guarda ormai con sollievo il posto dal quale è passato («lo passo»), si riposa e riprende la strada verso il colle. «Quasi al cominciar de l’erta» la lonza impedisce il suo cammino e lui si volta indietro: «i’ fui per ritornar più volte vòlto». Questo momento è decisivo: lui si gira «per ritornar» (non possono esserci altre interpretazioni: si gira di 180°), quindi si rivolge verso oriente e proprio allora si rende conto che era «il principio del mattino» e vede che («dall’altra parte», come benissimo spiega Leopardi) «’l sol montava ‘n sù».

È assolutamente necessario, per capire questo brano, mettersi nei panni di Dante, camminare con lui nella selva da nord a sud, fermarsi «là dove terminava quella valle», girarsi a destra verso occidente dove la luna sta tramontando, fermarsi a causa della lonza, voltarsi di 180° per tornare indietro e vedere il sole che sorge «dall’altra parte». Il Tasso aveva capito benissimo l’incongruenza di una interpretazione che vedesse il sole sorgere dietro il colle e poi sorgere di nuovo da un’altra parte.

Ecco dunque la risposta alla domanda che io stesso ho posto. Certo che c’era la luna quella notte: la luna è il pianeta che, come Leopardi ci ricorda, finché non scende «dietro Apenninno od Alpe» (cioè, in generale, come dice l’etimologia del verbo “tramontare”, dietro a un monte), è «duce» per chi viaggia di notte, cioè «mena dritto altrui per ogne calle».


[1] Dante Alighieri, Commedia, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1991, vol. I, p. 37. Cito tutti gli altri i commenti danteschi dall’edizione digitale dell’utilissimo Dartmouth Dante Project http://dante.dartmouth.edu/ .
[2] Giorgio Bárberi Squarotti, Tutto l’Inferno, Milano, Franco Angeli, 2011, p. 27.
[3] Paolo di Tarso, II Lettera ai Corinzi, XII, 1-5: «Se bisogna vantarsi – ma non conviene – verrò tuttavia alle visioni e alle rivelazioni del Signore. 2So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. 3E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – 4fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare». Come è evidente, qui Paolo dichiara di non sapere se fu rapito «con il corpo o fuori del corpo». Ma Dante nega la possibilità stessa di un dubbio del genere. Tale dubbio è possibile solo dentro la visione: e difatti nel Paradiso, Dante prova questo dubbio, quasi con le stesse parole di Paolo, nell’atto del trasumanar: «S’i’ era sol di me quel che creasti / novellamente, amor che ‘l ciel governi, / tu ‘l sai, che col tuo lume mi levasti» (Paradiso, canto I, vv. 73-75).
[4] Si deve notare che nei Triumphi Petrarca userà solo un’altra volta la parola ‘fioco’ (ancora in rima con ‘loco’), in III, 27; nel Canzoniere la usa soltanto una volta nel son. CLXX, v. 11).
[5] Caino e le spine: modo popolare di indicare la luna piena con le sue macchie.
[6] Dante Alighieri,Commedia, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, cit., p. 617.
[7] Giovanni Pascoli, La mirabile visione, Bologna, Zanichelli, 19132 (prima edizione: Messina, Muglia, 1901), p. 312. Pascoli cita qui come sua fonte il volume di Nunzio Vaccalluzzo, Il plenilunio e l’anno della Visione Dantesca, Trani, 1899; quindi il Vaccalluzzo potrebbe essere considerato un terzo commentatore interessato a rispondere alla domanda a proposito della luna. Probabilmente ce ne saranno anche altri che io non conosco, ma certamente nessuno si è preoccupato di trarre tutt le conseguenze dalla risposta a quella domanda, anche quando se la sia posta.
[8] Franco Ferrucci, Dante, lo stupore e l’ordine, Napoli, Liguori, 2007, nel cap. Plenilunio sulla selva: le rime per donna Petra, p. 79.
[9] pianeta: nell’italiano due-trecentesco con questa parola si designavano tutti i corpi celesti, stelle, pianeti veri e propri, satelliti etc; corrisponde all’italiano odierno ‘astro’.
[10] Torquato Tasso, La Divina commedia di Dante Alighieri postillata da Torquato Tasso, a c. di Giovanni Rosini, Pisa, Tip. Didot, 1830, Tomo I, p. 3.

Lorenzino de’ Medici come Cesare Borgia?
C’è da ridere

L’amara comicità di Machiavelli nel VII capitolo del Principe

Cesare Borgia è il grande protagonista del settimo capitolo del Principe, quello nel quale Machiavelli affronta, come dice chiaramente nel titolo, il tema – attualissimo nell’Italia del primo Cinquecento – dei «Principati nuovi che s’acquistano colle armi e fortuna di altri».
Nella prima parte di questo capitolo Machiavelli sottolinea quanto sia difficile rendere stabile il potere in uno stato acquistato per volontà di altri e con l’aiuto della fortuna e si impegna a portare due esempi relativi al modo di «diventare principe per virtù o per fortuna». Come esempio del primo caso porta Francesco Sforza; come esempio del secondo Cesare Borgia. Fedele al tema del capitolo, lo scrittore dedica al primo appena due righe: «Francesco, per li debiti mezzi e con una grande sua virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne». A Cesare Borgia dedica invece tutto il resto del capitolo e di lui dice ciò che nessuno si aspetterebbe: non solo lo propone all’imitazione di «tutti coloro, che per fortuna e con l’armi d’altri sono saliti all’imperio», ma più in generale lo propone come il miglior modello possibile di «principe nuovo».
Ecco il testo di questa parte del VII capitolo del Principe, con qualche taglio.


Da l’altra parte, Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre e con quella lo perdé, non ostante che per lui si usassi ogni opera e facessinsi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare per mettere le barbe sua in quelli stati che l’arme e fortuna di altri gli aveva concessi. […] Se si considerrà tutti e’ progressi del duca, si vedrà lui aversi fatti grandi fondamenti alla futura potenza; e’ quali non iudico superfluo discorrere perché io non saprei quali precetti mi dare migliori, a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sue: e se gli ordini sua non gli profittorno, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna.

[…]
Aveva Alessandro VI, nel volere fare grande il duca suo figliuolo, assai difficultà presenti e future. Prima, e’ non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno stato che non fussi stato di Chiesa: e, volgendosi a tòrre quello della Chiesa, sapeva che il duca di Milano e’ viniziani non gliene consentirebbono, perché Faenza e Rimino erano di già sotto la protezione de’ viniziani. Vedeva oltre a questo l’arme di Italia, e quelle in spezie di chi si fussi potuto servire, essere nelle mani di coloro che dovevano temere la grandezza del papa, — e però non se ne poteva fidare, — sendo tutte nelli Orsini e Colonnesi e loro complici. Era adunque necessario si turbassino quelli ordini e disordinare gli stati di Italia, per potersi insignorire sicuramente di parte di quelli. Il che gli fu facile, perché e’ trovò e’ viniziani che, mossi da altre cagioni, si erano volti a fare ripassare e’ franzesi in Italia: il che non solamente non contradisse, ma lo fe’ più facile con la resoluzione del matrimonio antico del re Luigi.

Passò adunque il re in Italia con lo aiuto de’ viniziani e consenso di Alessandro: né prima fu in Milano che il papa ebbe da lui gente per la impresa di Romagna, la quale gli fu acconsentita per la reputazione del re.

Acquistata adunque il duca la Romagna e sbattuti e’ Colonnesi, volendo mantenere quella e procedere più avanti, lo impedivano dua cose: l’una, le arme sua che non gli parevano fedeli; l’altra, la volontà di Francia; cioè che l’arme Orsine, delle quali si era valuto, gli mancassino sotto, e non solamente gl’impedissino lo acquistare ma gli togliessino lo acquistato, e che il re ancora non li facessi il simile. Delli Orsini ne ebbe uno riscontro quando, dopo la espugnazione di Faenza, assaltò Bologna, che gli vidde andare freddi in quello assalto; e circa il re conobbe lo animo suo quando, preso el ducato d’Urbino assaltò la Toscana: da la quale impresa il re lo fece desistere.

Onde che il duca deliberò di non dependere più da le arme e fortuna d’altri; e, la prima cosa, indebolì le parte Orsine e Colonnese in Roma: perché tutti gli aderenti loro, che fussino gentili uomini, se gli guadagnò, faccendoli suoi gentili uomini e dando loro grandi provisioni, e onorògli, secondo le loro qualità, di condotte e di governi: in modo che in pochi mesi negli animi loro l’affezione delle parti si spense e tutta si volse nel duca. Dopo questo, aspettò la occasione di spegnere e’ capi Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna: la quale gli venne bene, e lui la usò meglio. Perché, avvedutosi gli Orsini tardi che la grandezza del duca e della Chiesa era la loro ruina feciono una dieta alla Magione nel Perugino; da quella nacque la ribellione di Urbino, e’ tumulti di Romagna e infiniti periculi del duca, e’ quali tutti superò con l’aiuto de’ franzesi. E ritornatoli la reputazione, né si fidando di Francia né di altre forze esterne, per non le avere a cimentare si volse alli inganni; e seppe tanto dissimulare l’animo suo che li Orsini medesimi, mediante il signore Paulo, si riconciliorno seco, — con il quale il duca non mancò d’ogni ragione di offizio per assicurarlo, dandoli danari veste e cavalli, — tanto che la simplicità loro gli condusse a Sinigaglia nelle sua mani[1].

Spenti adunque questi capi e ridotti e’ partigiani loro sua amici, aveva il duca gittati assai buoni fondamenti alla potenza sua, avendo tutta la Romagna col ducato di Urbino, parendoli massime aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi quelli populi per avere cominciato a gustare il bene essere loro. E perché questa parte è degna di notizia e da essere da altri imitata, non la voglio lasciare indreto. Presa che ebbe il duca la Romagna e trovandola suta comandata da signori impotenti, — e’ quali più presto avevano spogliati e’ loro sudditi che corretti, e dato loro materia di disunione, non d’unione, — tanto che quella provincia era tutta piena di latrocini, di brighe e d’ogni altra ragione di insolenzia, iudicò fussi necessario, a volerla ridurre pacifica e ubbidiente al braccio regio, dargli buono governo: e però vi prepose messer Rimirro de Orco, uomo crudele ed espedito, al quale dette plenissima potestà. Costui in poco tempo la ridusse pacifica e unita, con grandissima reputazione. Di poi iudicò il duca non essere necessaria sì eccessiva autorità perché dubitava non divenissi odiosa, e preposevi uno iudizio civile nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo, dove ogni città vi aveva lo avvocato suo. E perché conosceva le rigorosità passate avergli generato qualche odio, per purgare li animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto, volse mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita, non era causata da lui ma da la acerba natura del ministro. E presa sopra a questo occasione, lo fece, a Cesena, una mattina mettere in dua pezzi in su la piazza, con uno pezzo di legne e uno coltello sanguinoso accanto: la ferocità del quale spettaculo fece quegli popoli in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.

[A questo punto Cesare Borgia cambia alleanze sia per rafforzarsi definitivamente sia per far capire alle potenze europee che la loro influenza in Italia dipende da lui e non viceversa. Un colpo di genio. La Spagna non può che fidarsi di lui e la Francia si rende conto che senza un accordo con lui perde ogni possibilità di avere un qualche peso tra gli stati italiani. Tutto sembra volgere per il meglio. Succede però l’imprevedibile: papa Alessandro VI muore, dopo appena cinque anni che Cesare aveva cominciato a combattere per consolidare il suo potere, quando aveva stabilizzato soltanto la Romagna. Nel frattempo lo stesso Valentino si ammala ed è in punto di morte. In realtà non sarebbe morto di questa malattia, ma di un’altra che lo avrebbe colpito quattro anni dopo, nel 1507.]

Ed era nel duca tanta ferocità e tanta virtù, e sì bene conosceva come li uomini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e’ fondamenti che in sì poco tempo si aveva fatti, che s’e’ non avessi avuto quelli eserciti addosso[2], o lui fussi stato sano, arebbe retto a ogni difficultà.

Raccolte adunque tutte queste azioni del Duca, non saprei riprenderlo, anzi mi pare, come io ho fatto, di proporlo ad imitare a tutti coloro, che per fortuna e con l’armi d’altri sono saliti all’imperio. Perché egli avendo l’animo grande, e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimente; e solo si oppose alli suoi disegni la brevità della vita di Alessandro, e la sua infirmità.

Chi adunque giudica necessario nel suo Principato nuovo assicurarsi degl’inimici, guadagnarsi amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da’ populi, seguire e riverire da’ soldati, spegnere quelli che ti possono o debbono offendere, e innovare con nuovi modi gli ordini antichi, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infedele, creare della nuova, mantenersi le amicizie de’ Re e delli Principi, in modo che ti abbino a beneficare con grazia, o ad offendere con rispetto, non può trovare più freschi esempi, che le azioni di costui.


Questo scrive Niccolò Machiavelli a proposito di Cesare Borgia: che cosa c’è di comico in tutto ciò? È comico l’evidente parallelo storico che l’autore propone tra casa Borgia e casa Medici. Tra i contemporanei fiorentini – e non solo fiorentini – dello scrittore, non c’era nessuno che non vedesse quel parallelo, per quanto esso fosse soltanto implicito e non esplicitamente dichiarato. D’altro canto, la dedica del libro e l’esortazione finale non potevano lasciare dubbi a chi ne avesse mai avuti.
Quel parallelo era comico? Certo. Vediamo perché.
Machiavelli scrive la parte del Principe che comprende i primi undici capitoli (quindi anche il settimo del quale stiamo parlando) tra il mese di giugno e quello di dicembre del 1513, nelle campagne di San Casciano. Possedeva lì tre edifici e qualche terreno coltivato a vite e ulivo. Di questi tre edifici uno, detto l’Albergaccio, dava il nome al luogo e ospitava effettivamente un’osteria con camere lungo la strada di Sant’Andrea in Percussina: un posto di passaggio perché lungo quella strada si andava (e si va) dalla zona del Chianti a Firenze. L’osteria-locanda doveva rendere abbastanza bene, ma certo il nome del posto, unito alla descrizione che ne fa lo stesso proprietario, cioè Machiavelli (nella lettera a Francesco Vettori citata qui sotto), ci dice che non era un posto per vip.
A fianco dell’Albergaccio il secondo edificio era una macelleria. Il terzo era la casa dove Machiavelli si era sistemato già da qualche mese, subito dopo essere uscito dal carcere.
Sì, perché per quattro settimane, dal 12 febbraio all’11 marzo di quello stesso anno, Machiavelli se l’era vista brutta.
Nel settembre dell’anno prima, con l’aiuto delle truppe spagnole, i Medici erano tornati a Firenze dopo venti anni di repubblica. Il cardinale Giovanni, suo fratello Giuliano e il nipote Lorenzo erano rientrati a uno a uno in città senza nascondere un certo spirito di vendetta. Machiavelli, che era stato uno dei funzionari più in vista di quella repubblica, dopo qualche tempo durante il quale aveva cercato di capire se era possibile rendersi ancora utile al nuovo stato mediceo senza rinnegare il suo passato repubblicano, era stato coinvolto in un sospetto di congiura, incarcerato e sottoposto alla tortura di sei “tratti di corda”. Non era facile resistere a quel tipo di tortura. Come mostrano le figure qui a fianco, quando veniva sottoposto ai “tratti di corda” il torturato veniva sollevato per le braccia legate dietro la schiena; dopo essere stato portato su, veniva fatto cadere giù fino a che la corda non si bloccava lasciandolo sospeso[3]. Un biografo del Machiavelli, Roberto Ridolfi, scrive che «quattro tratti di fune bastavano per l’ordinario a vincere ogni corpo e ogni animo; non bastando, si seguitava anche se le membra erano slogate, aperte le carni» [4]. I capi della congiura, Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi, torturati anche loro, avevano confessato e furono decapitati il 23 febbraio. Poi un colpo di fortuna. A marzo, l’11 marzo di quel 1513, Giovanni de’ Medici, il figlio prediletto di Lorenzo il Magnifico, viene eletto papa con il nome di Leone X. Ha trentotto anni e da quando ne aveva quattordici era cardinale. In un ritratto di Raffaello di cinque anni dopo (che si trova qui sotto) ha un aspetto da uomo piuttosto attempato e morirà nel 1521, prima di raggiungere la soglia dei cinquant’anni.
Machiavelli sta cordialmente antipatico non personalmente al nuovo papa, ma, quel che è peggio, al suo entourage e, in particolare, a Giuliano. E lo sa perfettamente, tanto che proprio a Giuliano scrive (ma non si sa se glielo abbia fatto davvero recapitare) uno straordinario sonetto caudato [5] irridente e cinico verso tanto verso se stesso quanto verso i suoi presunti complici, appena decapitati:


Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti [6]
e sei tratti di fune in sulle spalle;
l’altre miserie mie non vo’ contalle,
poiché così si trattano i poeti.[7]

Menon pidocchi queste parieti
grossi e paffuti che paion farfalle,
né fu mai tanto puzzo in Roncisvalle[8]
o in Sardigna fra quegli arboreti[9],

quanto nel mio sì delicato ostello.
Con un rumor che proprio par che ‘n terra
fulmini Giove e tutto Mongibello[10],

l’un s’incatena e l’altro si disferra,
combatton toppe, chiavi e chiavistelli;
un altro grida: – Troppo alto da terra! [11] -.

Quel che mi fa più guerra
è che dormendo, presso all’aurora,
io cominciai a sentire: Pro eis ora[12].

Or vadano in buon’ora,
purché la tua pietà per me si volga
che al padre e al bisavo el nome tolga[13].


Ho parlato di un colpo di fortuna: esso consiste nel fatto che, all’elezione del papa Medici, scatta a Firenze, indipendentemente da ogni possibilità di intervento da parte di Giuliano, una amnistia generale.
Machiavelli esce così da una galera nella quale altrimenti sarebbe potuto rimanere non si sa per quanto tempo e con quale esito. È troppo intelligente, tuttavia, per non capire che per lui è meglio cambiare aria. Quella sua casa a Sant’Andrea in Percussina non è troppo lontana da Firenze ed è su una strada frequentata: le notizie arrivano facilmente. Al tempo stesso è abbastanza lontana perché gli amici vecchi e nuovi dei Medici, almeno per un po’, si scordino di lui.
Dopo quindici anni passati a servire la Repubblica giorno e notte, a Firenze, in Italia e in Europa, le giornate all’Albergaccio per Machiavelli potrebbero essere vuote, ma lui sa come passarle senza annoiarsi. Ce lo racconta in una lettera famosissima scritta a Francesco Vettori il 10 dicembre di quell’anno:


Io mi lievo la mattina con el sole et vommene in un mio boscho che io fo tagliare, dove sto dua ore a rivedere l’opere del giorno passato, et a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mane o fra loro o co’ vicini.

[Poi va a bere un po’ d’acqua, si rifugia in una riserva di caccia. Non porta però con sé strumenti per cacciare, ma libri: Dante o Petrarca o qualche poeta latino]

[…]
Trasferiscomi poi in su la strada nell’hosteria, parlo con quelli che passono, domando delle nuove de’ paesi loro, intendo varie cose, et noto varii gusti et diverse fantasie d’huomini. Vienne in questo mentre l’hora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa e paululo[14] patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’oste, per l’ordinario, un beccaio[15], un mugniaio, dua fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo per tutto dí giuocando a cricca, a triche tach, et poi dove nascono mille contese et infiniti dispetti di parole iniuriose, et il più delle volte si combatte un quattrino et siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Cosí […] traggo el cervello di muffa, et sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.

Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana piena di fango e di loto[16], et mi metto panni reali et curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi transferisco in loro. E perché Dante dice che non fa scienza senza lo ritenere lo avere inteso io ho notato quello di che per la loro conversatione ho fatto capitale, et composto uno opuscolo De principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitationi di questo subbietto, disputando che cosa è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono. Et se vi piacque mai alcuno mio ghiribizo, questo non vi doverrebbe dispiacere; et a uno principe, et maxime [soprattutto] a uno principe nuovo, doverrebbe essere accetto; però io lo indirizzo alla Magnificentia di Giuliano.


Questa lettera a Francesco Vettori, ambasciatore della Firenze medicea presso il papa Medici, è di sei mesi successiva rispetto al periodo del quale stiamo parlando. In realtà noi sappiamo da altri documenti che, in quei giorni tra giugno e luglio del 1513, le cose erano andate un po’ diversamente. Almeno per quanto riguarda il modo in cui Machiavelli aveva preso appunti sulle letture dei classici. Uscito dal carcere, isolato in quella sua casa all’Albergaccio, quando indossava metaforicamente quei suoi «panni reali e curiali» Machiavelli si immergeva nella lettura delle Storie di Tito Livio. I suoi appunti, in un primo momento, non avevano affatto prodotto il Principe, ma la prima parte dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, certamente i primi diciotto capitoli del I libro dei Discorsi.
Poi, ecco, siamo alla fine di giugno, anzi esattamente tra il 20 giugno e il 12 luglio e il suo amico Vettori gli scrive in queste date due lettere nella prima delle quali lascia intendere e nella seconda afferma esplicitamente che il papa «in ogni modo pensa dare stati» a Giuliano, suo fratello, e a Lorenzo, suo nipote.
Alla fine della lettera Francesco Vettori aggiunge:


Che voglia dare stato a’ parenti, lo mostra che così hanno fatto li papi passati Calisto, Pio, Sixto, Innocentio, Alessandro et Giulio; et chi non l’ha fatto, è restato per non potere. Oltre a questo, si vede che questi suoi a Firenze pensano poco, che è segno che hanno fantasia a stati che sieno fermi et dove non habbino a pensare continuo a dondolare huomini, Non voglio entrare in consideratione quale stato disegni, perché in questo muterà proposito, secondo la occasione.


Allora, il quadro è questo. Machiavelli sta scrivendo i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio; il capitolo 18 si intitola: «In che modo nelle città corrotte si potesse mantenere uno stato libero, essendovi; o, non vi essendo, ordinarvelo».
In particolare, per quanto riguarda la possibilità di innovare gli ordini corrotti di uno stato, a un certo punto Machiavelli scrive:


[…] a fare questo non basta usare termini ordinari, essendo modi ordinari cattivi; ma è necessario venire allo straordinario, come è alla violenza ed all’armi, e diventare innanzi a ogni cosa principe di quella città, e poterne disporre a suo modo. E perché il riordinare una città al vivere politico presuppone uno uomo buono, e il diventare per violenza principe di una republica presuppone uno uomo cattivo; per questo si troverrà che radissime volte accaggia che uno buono, per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono, voglia diventare principe; e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene, e che gli caggia mai nello animo usare quella autorità bene, che gli ha male acquistata.


Leone X in un ritratto di Raffaello

Mentre si dedica a queste considerazioni gli arriva la notizia che il papa vuole «dare stato» ai suoi parenti e Machiavelli pensa che sia arrivato il momento di riflettere su che cosa sarebbe utile fare in quelle circostanze per l’Italia, paese addirittura senza stato e quindi più che mai bisognoso di «venire allo straordinario» e di avere un principe che lo riordini. La prima parte dell’opuscolo De principatibus la scrive in pochi mesi, dato che il 10 dicembre 1513 ne dà notizia all’amico Vettori. La seconda parte, contenente i capitoli dal dodici al ventisei, la porta a termine probabilmente entro la primavera dell’anno successivo.
Quello che Machiavelli scrive è al tempo stesso lucidissimo e disperato: è l’indicazione dell’unica strategia ragionevole per la fondazione di uno stato nazionale forte in Italia e la implicita sconfortata constatazione che non c’è nessuno che possa attuare questa strategia.
Nel VII capitolo del Principe Machiavelli descrive una situazione molto simile a quella che si è determinata in quel 1513 in Italia: tra il 1499 e il 1503 Rodrigo Borgia, diventato papa Alessandro VI, aveva creato le condizioni per «dare stati» a suo figlio Cesare e questi, come abbiamo letto, pur avendo ricevuto il nuovo principato senza alcun merito, aveva avuto poi, secondo Machiavelli, tanta virtù che sarebbe riuscito a renderlo forte e saldo se non si fosse trovato a lottare contro una grande malignità della fortuna. Adesso, in quell’estate del 1513, si ripete la stessa situazione: Giovanni de’ Medici è diventato papa Leone X e anche lui pensa di «dare stati» ai suoi parenti. Dunque, tocca ai Medici. In particolare, a Leone X tocca la parte di Alessandro VI, a suo nipote Lorenzo quella di Cesare Borgia e a Giuliano la duplice parte di una “alternativa a” o di un “sostenitore e consigliere di” Lorenzo. Tocca davvero ai Medici? Figuriamoci!
C’è da ridere, e certamente Machiavelli ride amaro. Sa perfettamente di avere scritto qualcosa di comico e sa che i lettori informati dei fatti rideranno. Infatti è perfettamente consapevole che né Giuliano né Lorenzo hanno la minima possibilità di imitare Cesare Borgia.
Forse Leone X potrebbe essere accreditato della forza e dell’astuzia necessarie per rappresentare la parte che era stata di Alessandro VI, ma probabilmente gli mancano l’audacia e la spregiudicatezza indispensabili. Ma che dire degli altri due? Machiavelli pensa in un primo tempo, come scrive al Vettori, di dedicare il Principe a Giuliano (proprio come gli aveva dedicato il sonetto caudato dal carcere e, forse, con lo stesso spirito di irrisione verso se stesso, verso il dedicatario e verso tutto il mondo), ma questi non ne vuol sapere di lui, anzi è ben contento quando da Roma, dal cardinale Giulio suo cugino (futuro papa Clemente VII), arriva per iscritto a tutti coloro che sono vicini ai Medici l’ordine perentorio – testualmente – di «non si impacciare con Niccolò». Il fatto è che Giuliano, come tutti sanno, è un imbelle: nel 1515, il 29 giugno riceverà il comando dell’esercito del papa per la guerra contro Francesco I di Francia e già l’8 agosto dovrà essere sostituito per febbri e convulsioni. Da chi sarà sostituito? Proprio dal nipote Lorenzo. Bene, si dirà: c’è dunque un comandante militare; ecco a chi poteva giovare l’esempio del Valentino, ecco chi poteva imitare le sue azioni e la sua virtù. Tuttavia la semplice ipotesi che Lorenzo potesse essere il nuovo Cesare Borgia faceva ridere Machiavelli e i suoi contemporanei.
E quando, tra il 1515 e i primi del 1516, Machiavelli si decide a dedicare l’opera a Lorenzo, tra sé e sé ride certamente di gusto, anche se amaramente. Il giovane Lorenzo, per le testimonianze dei contemporanei, era bello sebbene forse piccolo di statura (come lascerebbe intendere il nome di Lorenzino con il quale era spesso citato anche in documenti ufficiali). Il suo problema era quello di essere spinto dalla madre ad ambizioni forse incompatibili con le sue capacità, giudicate a suo tempo non grandissime dai precettori che ne avevano seguito gli studi. In ogni caso, almeno dal 1515 (quindi già prima che Machiavelli gli dedicasse il Principe), era anche gravemente debilitato dalla sifilide di cui morirà nel 1519 a ventisette anni. È vero: proprio in quell’estate del 1515, come ho ricordato qui sopra, Lorenzo veniva nominato capitano delle truppe pontificie; ma, a dispetto del titolo altisonante di cui poté fregiarsi, non combatté nemmeno un minuto. Il papa suo zio, mentre lo nominava capitano, tramite un agente segreto trattava con Francesco I per sottrarsi agli impegni dell’alleanza con Massimiliano Sforza. Il compito di Lorenzo non era pertanto quello di combattere, ma quello di perdere tempo e di trattenere l’esercito tra la Romagna e la Lombardia. L’operazione riuscì e l’esercito pontificio si sottrasse così alla rovinosa sconfitta di Meregnano. Successivamente, il compito di Lorenzo come capitano delle truppe pontificie fu quello di intrattenere piacevolmente Francesco I e, a quanto pare, svolse questo compito con grande efficacia, tra feste, balli e giochi delle carte.
Ma torniamo al 1513 e ai mesi nei quali Machiavelli scrive i primi undici capitoli del Principe e si rompe il capo per trovare uno della famiglia Medici al quale dedicare il suo “trattatello”. In quel periodo accade un episodio causato dal fatto che Lorenzo, come nipote del Magnifico, ci teneva a portare il soprannome del nonno. Un bel guaio per uno che non era certo all’altezza. È lo storico dell’epoca Giovanni Cambi (nelle sue Istorie[17], scritte dai primi del secolo fino al 1535, anno della sua morte) a ricordare questo episodio che la dice tutta sul soggetto in questione e sull’opinione che di lui avevano i fiorentini. Nel settembre del 1513, proprio mentre Machiavelli scriveva i primi undici capitoli del Principe, a un fiorentino che aveva usato per il nipote il soprannome “il Magnifico” spettante al nonno un mercante aveva ribattuto: «Magnifico merda!». Questo mercante era Francesco del Pugliese. Il fatto dovette essere particolarmente clamoroso per essere citato in un libro di storia; e lo fu probabilmente sia per l’importanza del personaggio (che non era uno qualsiasi: in casa aveva un dipinto del Botticelli e le spalliere dei suoi divani erano state dipinte da Piero di Cosimo) sia perché un soldato che aveva ascoltato la conversazione (inconsapevole di passare, sia pure anonimo, alla storia con quel suo comportamento tanto zelante) denunciò Francesco del Pugliese e questi fu esiliato da Firenze per otto anni (in effetti sarebbe morto in esilio nel 1519). Questo fatto dà l’idea di come Lorenzo fosse apprezzato dai concittadini e di come i fiorentini ridessero di lui, incuranti persino dei rischi che correvano.
Non smentisce la poca considerazione generale verso Lorenzo una famosa (o famigerata) lettera di Machiavelli al Vettori datata febbraio-marzo 1514 (quindi scritta proprio nei giorni nei quali Machiavelli portava a termine gli ultimi capitoli del Principe e, probabilmente, pensava al dedicatario dell’opera):


Io non voglio lasciare indreto di darvi notizia del modo del procedere del Magnifico Lorenzo, che è suto infino ad qui di qualità, che gli ha ripieno di buona speranza tutta questa città; et pare che ciascuno cominci ad riconoscere in lui la felice memoria del suo avolo. Perché sua M.tia è sollecita alle facciende, liberale et grato nella audienza, tardo et grave nelle risposte. El modo del suo conversare è di sorte, che si parte dagli altri tanto, che non vi si riconosce drento superbia; né si mescola in modo, che per troppa familiarità generi poca reputatione. Con e giovani suoi equali tiene tale stilo, che non gli aliena da sé, né anche dà loro animo di fare alcuna giovinile insolentia. Fassi in summa et amare et reverire, più tosto che temere; il che quanto è più difficile ad observare, tanto è più laudabile in lui.

[…] Et benché io sappia che da molti intenderete questo medesimo, mi è parso di scrivervelo, perché col testimone mio ne prendiate quel piacere che ne prendiamo tutti noi altri, e quali continuamente l’observiamo, et possiate, quando ne habbiate occasione, farne fede per mia parte alla santità di Nostro Signore.


Il corsivo di quest’ultima frase è mio ed è la sottolineatura del motivo preciso per il quale Machiavelli, che doveva ben conoscere l’episodio del “Magnifico merda”, scrive questo vero e proprio “elogio di Lorenzo” al Vettori: Machiavelli lo scrive – è evidente e dichiarato – perché il Vettori lo riferisca al papa e perché lo stesso Lorenzo lo venga a sapere e sia portato perciò a non tener conto dell’avversione che la famiglia Medici ha contro di lui.
Ma, ripeto, sia Machiavelli sia i fiorentini (quando di lì a poco avrebbero conosciuto il Principe), non potevano che ridere dell’accostamento tra Cesare Borgia e Lorenzo “il Magnifico merda”.
Il fatto è che Machiavelli non è uno qualsiasi: quando è disperato, la butta sul comico. I critici in genere non la pensano così e nessuno ha mai visto niente di comico nel VII capitolo del Principe. Ma i lettori di queste mie osservazioni, con il dovuto rispetto per la critica machiavelliana presente e passata (tra questa mi ci metto anch’io, che in un saggio di quarant’anni fa – più ossequioso verso la tradizione critica – sostenevo una posizione diversa[18]), provate invece a ripensare alle pagine del VII capitolo del Principe che ho citate qua sopra, con in mente questa idea: l’attore che avrebbe dovuto impersonare Cesare Borgia era Lorenzo, il “Magnifico merda”, con a fianco Giuliano, un pusillanime, pauroso, indeciso, sempre bisognoso di appoggiarsi all’autorità altrui. L’effetto comico è straordinario. È precisamente lo stesso di un film, Totò contro Maciste (qui a fianco una scena “esplicativa”), nel quale il compito di salvare l’Egitto dei Faraoni da un Maciste indemoniato veniva affidato all’illusionista da circo Totokamen con l’assistenza, pensate un po’, di Tarantenkamen, un Nino Taranto strepitoso! Al centro del Principe c’è sì la disperazione, dovuta a una lucidissima visione politica. Ma c’è anche una tanto amara quanto sfrenata comicità.
D’altro canto, non è l’unica volta che Machiavelli la butta sul comico proprio quando è disperato. Il sonetto dal carcere che ho citato qui sopra è già una testimonianza con valore di prova. Ma ci sono almeno altri due episodi che attestano questa tendenza del carattere del nostro scrittore.
Il primo risale alle nozze di Lorenzo con Maddalena de La Tour d’Auvergne, celebrate in Francia nel 1518, circa due anni dopo che Machiavelli aveva dedicato il Principe al giovane rampollo di casa Medici. Per quella occasione, come è noto, Machiavelli scriverà La mandragola, rappresentata a Firenze, sempre alla presenza di Lorenzo, sia all’annuncio delle nozze, tra gennaio e febbraio del 1518, sia al ritorno degli sposi dalla Francia, nel settembre di quello stesso anno. E ancora una volta la butta sul comico, a spese del dedicatario Lorenzo, probabilmente incapace di capire la presa in giro ai suoi danni. Nel Prologo, parlando dell’autore della commedia (cioè di se stesso) e sottolineando che è «di poca fama», Machiavelli aggiunge che, se la materia della commedia non è degna di uno studioso gli spettatori devono scusarlo perché, ecco le sue parole:


[…] s’ingegna
con questi van’ pensieri
fare el suo tristo tempo più suave
perché altrove non have
dove voltare el viso,
ché gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altra virtùe,
non sendo premio alle fatiche sue.


Machiavelli, insomma, dice: vedete, questo qui non mi utilizza come esperto delle questioni di politica estera e io, che volete che faccia? scrivo una commedia. Ma il più bello è che nel V atto, Machiavelli inserisce un esplicito riferimento alla prevenzione delle malattie veneree e lo fa davanti a un fresco sposo malato di sifilide che probabilmente è così rimbecillito dalla malattia che non ha nemmeno capito il riferimento e se la ride della grossa. Bisogna dire qui, per ricordare anche l’incoscienza di Lorenzo, che nel frattempo egli aveva contagiato del suo male la giovane moglie e che entrambi ne sarebbero morti poco più di un anno dopo le nozze lasciando una bambina in fasce, la piccola Caterina, orfana – si può dire – dalla nascita, ma destinata a diventare, malgrado la stupidità di suo padre, regina di Francia.
Il secondo episodio risale al maggio del 1521, quando finalmente i concittadini di Machiavelli, anche quelli vicini ai Medici, si ricordano di lui e gli affidano di nuovo un incarico politico. In quegli anni, a parte gli studi storici (nel 1520 lo Studio di Firenze gli commissiona le Storie fiorentine) è come se egli non fosse mai esistito, come se non fosse il più intelligente esperto di politica disposto a servire Firenze. Nell’estate del 1520 era stato sì mandato in legazione a Lucca, ma a riscuotere crediti per conto di mercanti fiorentini, in seguito al fallimento del lucchese Michele Guinigi. Una vergogna! Infine, nel maggio del 1521, un incarico ufficiale assegnato a Machiavelli dagli Otto di pratica[19]: era ora!

Francesco Guicciardini

Se non fosse che quell’incarico consisteva nella ricerca di un predicatore in quel di Carpi, dove si teneva il Capitolo generale dei Francescani. In questo caso, se non una vergogna, certo una umiliazione profonda. La disperazione di Machiavelli, nel vedere a che cosa lo vogliono ridotto, raggiunge probabilmente il livello di guardia: altri si sarebbero suicidati per molto meno. E invece lui reagisce ancora una volta buttandola sul comico. In questo caso ha un complice d’eccezione: Francesco Guicciardini, allora altissimo funzionario alle dipendenze di Leone X (che sarebbe morto il 1° dicembre successivo), governatore di Modena e Reggio e quindi con giurisdizione anche su Carpi.
I due non si conoscono direttamente anche se ciascuno di essi ha stima dell’altro per ciò che ne ha sentito e che ne ha letto. Machiavelli passa a trovare Guicciardini prima di procedere nella sua ambasceria, i due familiarizzano e il primo coinvolge il secondo in uno scherzo ai danni dei frati francescani riuniti: si tratta di far credere loro che egli sia stato inviato per una missione diversa da quella della ricerca di un predicatore, una missione segreta che probabilmente riguarda uno o più di loro. Per ottenere questo effetto e far preoccupare i frati i due si mettono d’accordo sul fatto che il governatore mandi ogni giorno un messo con una gran mole di documenti. Machiavelli penserà, dal canto suo a tenere a Carpi un atteggiamento misterioso, da inquisitore. Lo scherzo va avanti e Machiavelli invia a Guicciardini il 17 maggio una lettera esilarante che comincia con un profluvio di titoli altisonanti seguiti da una imbarazzante dichiarazione sul modo in cui il legato di Firenze a Carpi, Machiavelli, aveva ricevuto il messo del Governatore Guicciardini.


Magnifice vir, major observandissime. Io ero in sul cesso[20] quando arrivò il vostro messo, et appunto pensavo alle stravaganze di questo mondo, et tutto ero volto a figurarmi un predicatore a mio modo per a Firenze, et fosse tale quale piacesse a me, perché in questo voglio essere caparbio come nelle altre oppinioni mie. Et perché io non mancai mai a quella repubblica, dove io ho possuto giovarle, che io non l’habbi fatto, se non con le opere, con le parole, se non con le parole, con i cenni, io non intendo mancarle anco in questo. Vero è che io so che io sono contrario, come in molte altre cose, all’oppinione di quelli cittadini: eglino vorrieno un predicatore che insegnasse loro la via del Paradiso, et io vorrei trovarne uno che insegnassi loro la via di andare a casa il diavolo; […]
Io sto qui ozioso, perché io non posso eseguire la commessione mia insino che non si fanno il generale e i diffinitori[21], e vo rigrumando[22] in che modo io potessi mettere infra loro tanto scandolo che facessino, o qui o in altri luoghi, alle zoccolate; e se io non perdo il cervello, credo che mi abbia a riuscire; e credo che il consiglio e l’aiuto di vostra signoria mi gioverebbe assai.


A un certo punto entrambi si accorgono che lo scherzo è riuscito solo a metà: colui che ospita in casa sua Machiavelli ha subodorato l’inganno. Ed ecco il commento del legato di Firenze a Carpi, in una lettera al Governatore del 19 maggio:


Cazzus! E’ bisogna andar lesto con costui, perché egli è trincato come il Trentamila diavoli[23]. E’ mi pare che si sia avveduto che volete la baia.


Questa capacità di buttarla sul comico nuoce al Machiavelli? Nuoce – per quanto più direttamente riguarda l’oggetto di queste mie osservazioni – al capitolo VII del Principe e al Principe in generale? Certo che no. Alla persona Machiavelli questa capacità aggiunge un tratto umano sul quale forse si è poco ragionato, ma che certamente, al di là di ogni discorso critico, ce la rende più vicina. Per il Principe non solo non costituisce una diminuzione di valore, ma, semmai ve ne fosse bisogno, costituisce una aggiunta di pregio teorico. L’improponibile, e perciò comico, modello proposto ai Medici nel capitolo VII è il segno che Machiavelli non sperava in alcun modo che la sua opera avesse un effetto pratico immediato: egli la scriveva, consapevolmente, per i posteri. E ai posteri lasciava, oltre e più che un concreto suggerimento in merito a come salvare l’Italia (suggerimento, comunque, da non sottovalutare), una indicazione di metodo che ne avrebbe fatto il fondatore non solo della scienza politica moderna, ma, come afferma Josef Macek, «delle scienze umanistiche tutte»[24]. Certo, con un amaro sorriso sulle labbra.


[1] a Sinigaglia nelle sua mani: qui Machiavelli non dice altro. La “Strage di Senigallia”, avvenuta in due fasi fra il 31 dicembre 1502 e il 18 gennaio 1503, era un evento al tempo stesso politico e di cronaca nera noto a tutti in quegli anni, come potrebbe essere oggi l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre 2001. Machiavelli stesso, legato della Repubblica fiorentina presso Cesare Borgia, ne aveva prima riferito alla Cancelleria con dettagliate relazioni scritte proprio mentre accadevano i fatti (dei quali, per altro, il Valentino lo informava momento per momento) e ne aveva scritto poco dopo, sempre nel 1503) in una più distesa opera, Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini: in sostanza, Cesare Borgia aveva simulato la volontà di stringere un accordo di pace con i capi Orsini e con i loro alleati e, una volta riunitili a Senigallia, li aveva fatti ammazzare tutti, uno dopo l’altro: prima i capitani degli eserciti, Vitellozzo Vitelli e Oliverotto da Fermo e poi il potentissimo capo della famiglia, Paolo Orsini, non prima di aver avuto da suo padre, papa Alessandro VI, che anche a Roma gli Orsini erano stati messi in condizione di non nuocere (da qui i diciotto giorni di distanza tra i primi omicidi e gli altri).
[2] quegli eserciti addosso: quelli di Francia da una parte e di Spagna, dall’altra.
[3] tratti di corda: molti uscivano invalidi da questa tortura. Lo spiega bene il Belli in un sonetto scritto nel 1835 in occasione della costruzione di «una fetta de difizzio» (cioè di una piccola e stretta parte di un palazzo) al posto dell’impianto per la tortura pubblica della corda (usata in quel caso come punizione per reati gravi) che si trovava a Roma in via del Corso, non lontano da piazza del Popolo, e che era rimasto in funzione fino a non molto tempo prima: «la corda ar Corzo era un supprizzio / che un galantomo che l’avessi presa / manco era bbono ppiù a sservì la cchiesa, / Manco a ffà er ladro e a gguadaggnà ssur vizzio» (G.G. Belli, Lo spiazzetto de la corda al Corzo, Sonetti, n. 1735, 12 novembre 1835).
[4] Roberto Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Firenze, Sansoni, 1978(7), p. 216.
[5] Nicolò Machiavelli, Tutte le opere, a c. di Mario Martelli, Firenze, Sansoni, 1971, p. 1003.
[6] geti: ‘lacci di cuoio’.
[7] perché … poeti: vuol dire che i poeti non stanno a lamentarsi della propria condizione.
[8] né fu mai … in Roncisvalle: non c’era tanto fetore a Roncisvalle dopo la strage di paladini, (sott. nonostante il così grande numero di cadaveri).
[9] in Sardigna: nella località con questo nome, nei pressi di Firenze, dove si buttavano gli avanzi della macellazione.
[10] par che ‘n terra … Mongibello: sembra che in terra si abbattano i fulmini di Giove e le eruzioni dell’Etna (Mongibello).
[11] Troppo alto da terra!: probabilmente si riferisce proprio a un’osservazione fatta dai torturatori nei confronti di coloro che venivano sottoposti ai “tratti di corda”.
[12] Pro eis ora: “Prega per loro”, la preghiera con la quale i condannati a morte venivano accompagnati verso il patibolo.
[13] che al padre … tolga: tanto da togliere la fama (s’intende di “pietosi”) al padre (Lorenzo il Magnifico) e al nonno (Cosimo de’ Medici) che, per la verità, non erano poi così famosi per questa virtù.
[14] paululo: ‘piccolo’.
[15] beccaio: ‘macellaio’.
[16] loto: ‘sudiciume’.
[17] Giovanni Cambi, Istorie pubblicate da Fr. Ildefonso di San Luigi, Firenze, Cambiagi Stampatore, 1786, vol. 3, p. 28.
[18] Michele Tortorici, Machiavelli, Ariosto, Castiglione: rivoluzione e resa nella svolta del primo Cinquecento, in “La rivista trimestrale”, 69-70, 1981-1982
[19] Gli “Otto di pratica” erano stati istituiti nel 1480 dal Consiglio dei settanta con l’incarico della condotta della politica estera e militare di Firenze. Negli anni dei quali stiamo parlando erano poco più di una commissione al servizio dei Medici, quindi, dopo la morte di Lorenzo, del cardinale Giulio.
[20] cesso: sì, proprio così: la parola, in tanti secoli, non ha cambiato significato.
[21] diffinitori: ‘aiutanti’.
[22] rigrumando: ‘rimuginando’.
[23] egli è trincato come il Trentamila diavoli: ‘egli è furbo come un mostro infernale’; il Trentamila diavoli era, appunto, il nome di un mostro infernale popolarmente noto a Firenze.
[24] Josef Macek, Machiavelli e il Machiavellismo, Firenze, La Nuova Italia, 1980, p. 61.

La novella di Cisti Fornaio:
Giovanni Boccaccio ci inganna [II]

4. Dove passeggiano Geri Spini e Matteo d’Acquasparta?
  Proviamo a immaginarlo

In un precedente intervento (riprendo da lì la numerazione dei paragrafi) ho cercato di spiegare come la novella di Cisti fornaio (Decameron, VI, 2), apparentemente leggera, piena di atti cortesi e raccontata con il tono incantato di una favola, sia in realtà una vera e propria trappola per il lettore: i tempi descritti dalla novella (e precisamente indicati dall’autore: «avendo Bonifazio papa […], mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne»: dunque l’estate del 1300) erano stati per Firenze tutt’altro che incantati. Altro che favola, una tragedia! A loro volta, i personaggi che si fermano a bere il vino di Cisti, Geri Spini e Matteo d’Acquasparta erano stati tutt’altro che che allegri e amabili gentiluomini disposti a passeggiate spensierate per le vie della città. Ci troviamo di fronte, come ho dimostrato, a un vero e proprio inganno perpetrato dal Boccaccio nei confronti dei suoi lettori. Ma è un inganno palese: lo scrittore vuole che il lettore sappia di essere ingannato: infatti i contemporanei dello scrittore, i primi lettori del Decameron, sapevano perfettamente in quale situazione si era trovata la loro città nei mesi terribili di quella ambasciata; e noi, che contemporanei non siamo, possiamo saperlo altrettanto bene se appena leggiamo qualche pagina del Compagni o del Villani o una biografia di Dante. È davvero singolare che nessun critico del Boccaccio abbia notato finora la contraddizione palese fra il tono della novella e il tempo e i luoghi nei quali essa è collocata.

I tempi e i luoghi, ho detto. Nel precedente intervento, oltre a dare il testo della novella, ho descritto i tempi e i personaggi. Qui è necessario che io mi occupi dei luoghi dove la novella stessa si svolge. Per farlo, provo a immaginare quale fosse il percorso seguito dall’ambasceria papale in compagnia di Geri Spini. Tuttavia assicuro i miei lettori che un freno alla mia immaginazione è costituito da un forte ancoraggio delle mie ipotesi a fatti certi.

Parto da una dato incontrovertibile: anche per quanto riguarda i luoghi, come fa per i tempi, il Boccaccio ci fornisce indicazioni molto precise. Geri Spini e Matteo d’Acquasparta, con i loro “famigliari” (più probabilmente un piccolo stuolo di guardie del corpo, se si considerano le circostante non favorevoli e le persone non immacolate delle quali stiamo parlando), usciti da palazzo Spini in piazza Santa Trinita (indicata nella piantina qui sotto con il triangolo rosso in basso a sinistra), «quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi passavano» (la chiesetta, demolita nell’800, si trovava nel 1300 nel posto indicato nella piantina dal quadrato rosso: oggi è il punto nel quale via Monalda confluisce in piazza Strozzi). Qui, accanto alla chiesa o proprio di fronte a essa, Cisti aveva il suo forno; e questo è un fatto storicamente dimostrato che avvalora le indicazioni di luogo fornite dal Boccaccio: Domenico Maria Manni, nella sua Istoria del Decamerone di Giovanni Boccaccio, scrive: «[…] in un libro manoscritto in cartapecora della Congrega maggiore del 1300, appunto, tra i nomi dei confrati e commessi di essa Congrega, chiesa per chiesa, sotto quelli di Santa Maria Ughi, a carte 69 tergo, vi si legge il nome di Cisto fornaio»[1]. «Passavano», è scritto nella novella; quindi, per trattare «i fatti del papa», dopo essere “passati” davanti al forno di Cisti e dopo avere approfittato del suo buon vino, andavano da qualche altra parte. Dove?

Mi sono impegnato a basarmi su fatti certi. E i fatti ci dicono che quelle di Matteo d’Acquasparta e del suo accompagnatore fiorentino non erano passeggiate qualsiasi. Quei due non avevano nessuna voglia di andare a zonzo. Dopo la entrata in carica dei nuovi sei priori (15 giugno) l’Acquasparta sperava di ottenere, anche approfittando dei continui scontri tra Bianchi e Neri, la concessione della “balìa”. Egli chiedeva cioè per se stesso, data la situazione eccezionale di lotte intestine, la somma dei poteri normalmente affidati ai priori e al Consiglio dei Cento: oggi parleremmo di una dichiarazione dello stato d’assedio con la nomina di un comandante supremo. Una trattativa così delicata portava senza ombra di dubbio il legato del papa nella sede dei priori e non, come pure è stato sostenuto[2], a discutere con i capi dei Bianchi e dei Neri. Si può pensare che avrebbe voluto essere lui, data l’altissima autorità della quale era rappresentante, a ricevere i priori: non certo a palazzo Spini, magari in una sede ecclesiastica. Ma ciò non era assolutamente possibile, neanche in una situazione eccezionale. I priori infatti, una volta eletti, per i due mesi di durata del loro mandato non potevano muoversi dalla loro sede. Dal 1301 questa sede sarebbe stata definitivamente collocata nel nuovissimo Palazzo della Signoria. Ma in quell’estate del 1300 il palazzo era ancora in costruzione e la sede provvisoria si trovava o nella Torre della Castagna (oggi all’incrocio tra via Dante Alighieri e piazza San Martino: nella piantina è indicata con il triangolo rosso in alto a destra) o, poco più in là (venendo da Santa Maria degli Ughi), nel popolo di San Procolo (oggi subito al di là di via del Proconsolo).
Chiunque potrebbe notare che la via più breve per andare da piazza Santa Trinita alla Torre della Castagna o a San Procolo non passava affatto per Santa Maria degli Ughi e, dunque, per il forno di Cisti. La via più breve (nella piantina è il percorso verde) passava per quelle che oggi sono via di Porta Rossa, via della Condotta e, da qui, a sinistra per l’attuale via dei Magazzini: ed ecco, in fondo a via dei Magazzini, piazza San Martino e, sulla destra della piazza, la Torre della Castagna. Pochi minuti a piedi anche se, magari, senza il vino di Cisti. Non deve essere stato, tuttavia, un bicchiere di vino, per quanto buono, fresco e appena spillato, a convincere il legato del papa e Geri Spini a fare una via più lunga. No, il fatto è che a via della Condotta, all’altezza di quello che ancora oggi si chiama vicolo de’ Cerchi, c’erano le case di Vieri de’ Cerchi (inquadrate nella piantina in un rettangolo rosso), capo dei Bianchi e padre di Ricoverino il cui naso (lo ricorda bene chi ha letto l’intervento precedente) era stato tagliato poco più di un mese prima, durante i disordini di Calendimaggio, proprio da Piero Spini, figlio di Geri: insomma, per il padre del feritore di Ricoverino non era tanto raccomandabile passare da quelle parti; e nemmeno per quello strano legato del papa così amico dei Neri doveva essere tanto sicuro passare sotto la casa del capo dei Bianchi. In alternativa l’ambasceria papale accompagnata da Geri Spini doveva fare un percorso che, partendo da Piazza Santa Trinita, attraversava le odierne via Tornabuoni, via Porta Rossa (per un piccolo tratto), via Monalda, piazza Strozzi (nell’angolo dove si trovava Santa Maria degli Ughi), via degli Anselmi, un piccolo tratto di via Pellicceria, la stretta via di San Miniato tra le torri, un piccolo tratto di via Calimala, via Orsanmichele, via de’ Tavolini, via Dante Alighieri per arrivare, da qui, in piazza San Martino.

Ecco spiegato, allora, il passaggio di Geri Spini e Matteo d’Acquasparta davanti al forno di Cisti. Nulla vieta, è ovvio, che lungo quel percorso i due coltivassero anche altri interessi oltre a quello del buon vino. Poco prima di raggiungere Santa Maria degli Ughi la piccola comitiva passava proprio davanti alla Torre della famiglia Strozzi (oggi in via Monalda 15: il palazzo Strozzi che noi conosciamo sarebbe stato costruito solo tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, poco più avanti a sinistra rispetto alla chiesetta); e gli Strozzi, che in quegli anni cominciavano ad allargare i propri affari, guardavano certamente con attenzione alla possibilità di affiancare gli Spini nei prestiti al papa le cui casse erano allora vuote[3]. Chissà: forse il banchiere e l’ambasciatore avevano a loro volta interesse a prendere contatti con un altro banchiere, oggi diremmo, d’assalto e comunque ben fornito di contanti. Non lo sapremo mai, ma certo la Torre degli Strozzi era lì. La chiesetta di Santa Maria degli Ughi si trovava, inoltre, a metà strada tra Palazzo Spini e la Torre degli Agli (oggi in via dei Vecchietti 6, che è fuori dalla piantina riportata qui sopra). Quella degli Agli (una antica e nobile famiglia schierata con i Neri) era la più munita torre di Firenze. E anche in questo caso si può realisticamente immaginare che i due singolari personaggi non disdegnassero di dare un’occhiata a qualche posto ancora più munito di palazzo Spini: un posto che poteva rivelarsi utile nel caso dell’aggravarsi dei problemi – diciamo così – di ordine pubblico. Fatto sta che, quando la necessità si presentò davvero, dopo l’attentato di metà aprile, il cardinale scelse effettivamente un sito particolarmente munito, anche se, come si è visto nell’intervento precedente, preferì andare oltrarno (quindi completamente fuori dal centro cittadino) dai Mozzi, al di là del Ponte alle Grazie.

Molte ipotesi si possono avanzare, ma una cosa è certa: per Matteo d’Acquasparta e Geri Spini l’attraversamento del centro di Firenze non era affatto una passeggiata. Gli spostamenti da palazzo Spini dovevano essere motivati da ragioni di importanza vitale, nel senso letterale del termine: nel senso, cioè, che ciascuno dei due personaggi rischiava la vita ogni volta che si esponeva in pubblico. Tutti i dati storicamente documentati, la effettiva esistenza del forno di Cisti, il reale svolgersi nell’estate del 1300 dell’ambasceria di Matteo d’Acquasparta, le trattative (certe) che portavano (molto probabilmente) il legato del papa nella sede dei priori e altri dati ancora servono al Boccaccio per intessere meglio il suo inganno.
È possibile che i due e la loro scorta si fermassero effettivamente da Cisti (almeno una volta lo avranno anche fatto, perché no?), ma tutto impedisce di pensare alla spensierata piacevolezza di quella sosta in una città devastata dalla guerra civile e spaventata dalle decisioni che il papa avrebbe potuto prendere; inoltre l’esilio di Geri Spini e l’attentato a Matteo d’Acquasparta fecero certamente – e malamente – finire senza nessun convito di addio qualunque tipo di passeggiata, sia che fosse dettata dagli obblighi e dalle finalità dell’ambasceria (un periodo di “balìa” di Matteo d’Acqusparta, motivato dai disordini in atto, ma in realtà con lo scopo di facilitare il passaggio di Firenze e della Tuscia nel Patrimonio di San Pietro), sia che fosse ispirata da qualche più gaudente motivazione.

5. Perché il Boccaccio ci inganna?

Resta da capire perché il Boccaccio abbia intessuto il suo inganno. Che fosse un inganno, che egli ne fosse consapevole e che abbia impiegato tutta la sua arguzia per far sì che i suoi contemporanei percepissero con chiarezza tutta la falsità di quel racconto fin troppo leggiadro di una città incantata è certo. Per averne un’ulteriore conferma basta pensare a ciò che il Boccaccio osserva, circa venti anni dopo avere scritto quella novella, nel suo commento al VI canto dell’Inferno, quello nel quale Dante parla del suo incontro con Ciacco nel terzo cerchio[4]. Compiuta, con la descrizione dei fatti di quella terribile estate (e con l’esplicito richiamo all’ambasceria dell’Acquasparta), un’analisi approfondita dei versi con i quali Ciacco profetizza i disordini e le divisioni di Firenze[5], il Boccaccio conclude: «Nondimeno, chi di questa istoria vuole pienamente sapere, legga la Cronica di Giovanni Villani, per ciò che in essa distesamente si pone»[6]. Più chiaro di così?

Perché, allora, l’inganno? Naturalmente, questa è oggi una domanda senza risposta. Posso solo dire, per non lasciare incompiuta questa mia analisi, che a me questa novella fa venire in mente, per una certo non casuale associazione di idee, una delle scene più famose della cinematografia mondiale: quella nella quale Charlie Chaplin, ne Il grande dittatore, rappresenta Hitler che gioca con un mappamondo e bamboleggia, nella stanza dalla quale decideva la morte di milioni di esseri umani, con allegri passi di danza. La situazione, a pensarci bene, è la stessa. Ne Il grande dittatore, sia l’autore del film sia gli spettatori sapevano benissimo che Hitler aveva tutt’altro che giocato e bamboleggiato: e l’effetto di tragedia si moltiplica proprio per il paradosso dell’immagine apparentemente comica e ludica. Allo stesso modo, nella novella di Cisti Fornaio, il bamboleggiamento di due mascalzoni per le strade di Firenze e gli scambi di cortesie tra uno di questi e un fornaio dovevano creare, per paradosso, un effetto di particolare inquietudine nell’animo di chi, appena letta la collocazione temporale della novella, era necessariamente portato a ricordare i giorni della tragedia fiorentina. L’unica differenza è che il film di Chaplin fu realizzato, come è noto, in medias res, nel pieno dell’accadere delle cose (nel 1940), mentre il Boccaccio propone la sua novella a mezzo secolo esatto degli eventi ai quali si riferisce. Ma lo sgomento degli spettatori de Il grande dittatore e dei lettori della novella di Cisti fornaio è certamente paragonabile: terminata la lettura della seconda novella della sesta giornata del Decameron, un lettore fiorentino del XIV secolo doveva essere sconvolto.


[1] Giovanni Maria Manni, Istoria del Decamerone di Giovanni Boccaccio, Firenze, 1742, pp. 392-393.
[2] Il Manni, nell’opera citata qui sopra, ipotizza che l’ambasceria pontificia si recasse alternativamente dai Cerchi e dai Donati, ma questo sarebbe potuto accadere se Matteo d’Acquasparta avesse avuto effettivamente intenzione di fare da paciere, ciò che è escluso tanto dalla testimonianza del Compagni quanto dalle analisi dei documenti svolte dagli storici posteriori, fino a oggi.
[3] Era stata molto costosa per Bonifacio VIII la guerra contro i Colonna e i francescani spirituali estremisti (tra i quali Iacopone da Todi), che si era conclusa appena un anno prima (estate 1299) con distruzione di Palestrina. Avevano poi dissanguato le casse del pontefice le altre spese dedicate al tentativo fallito, ma dispendiosissimo, di costruire una nuova città più a valle di quella distrutta). È forse opportuno ricordare che la guerra contro i Colonnesi fu condotta con la forma di una “crociata” e che in quell’epoca il fidato Matteo d’Acquasparta (i cui confratelli francescani spirituali erano assediati da Bonifacio) aveva avuto dal papa l’incarico di predicare la crociata, tra l’altro, proprio in Toscana.
[4] È probabilmente un caso, ma non si può non notare la vicinanza di date tra il giorno nel quale Dante immagina avvenuta la profezia di Ciacco (l’8 aprile del 1300), i fatti di Calendimaggio annunciati nella profezia (verificatisi appena tre settimane dopo) e l’ambasceria di Matteo d’Acquasparta (cominciata il 1° giugno, quindi un mese esatto dopo Calendimaggio) durante la quale il Boccaccio colloca il tempo della novella di Cisti fornaio.
[5] Rispondendo alla domanda con la quale Dante gli aveva chiesto: «ma dimmi, se tu sai, a che verranno / li cittadin de la città partita; s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione / per che l’ha tanta discordia assalita» (vv. 60-63), Ciacco risponde:
«[…] dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione
Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testè piaggia».
Inferno, vv. 64-69.
[6] Giovanni Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante, a c. di Giorgio Padoan, Milano, Mondadori, 1965, p. 354.

La novella di Cisti fornaio:
Giovanni Boccaccio ci inganna [I]

1. Il testo della novella

Quella di Cisti fornaio è la seconda novella della sesta giornata del Decameron. Tutti l’abbiamo probabilmente studiata a scuola. Ma forse nessuno si è reso conto che, nello scriverla, il Boccaccio ha deciso di ingannare i suoi lettori: non una, ma più volte e in modo decisamente inquietante. Non se ne sono accorti, che io sappia, neanche i critici letterari e gli specialisti del Boccaccio. Ma leggiamo la novella e poi vedremo se l’inganno c’è e, se sì – come io sostengo –, di che inganno si tratta.


Cisti fornaio con una sola parola fa raveder messer Geri Spina
d’una sua trascutata domanda

– Belle donne, io non so da me medesima vedere che più in questo si pecchi, o la natura apparecchiando a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna apparecchiando a un corpo dotato d’anima nobile vil mestiero, sì come in Cisti nostro cittadino e in molti ancora abbiamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d’altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio. E certo io maladicerei e la natura parimente e la fortuna, se io non conoscessi la natura esser discretissima e la fortuna aver mille occhi, come che gli sciocchi lei cieca figurino. Le quali io avviso che, sì come molto avvedute, fanno quello che i mortali spesse volte fanno, li quali, incerti de’ futuri casi, per le loro oportunità le loro più care cose ne’ più vili luoghi delle lor case, sì come meno sospetti, sepelliscono, e quindi ne’ maggior bisogni le traggono, avendole il vil luogo più sicuramente servate che la bella camera non avrebbe. E così le due ministre del mondo spesso le lor cose più care nascondono sotto l’ombra dell’arti reputate più vili, acciò che di quelle alle necessità traendole più chiaro appaia il loro splendore. Il che quanto in poca cosa Cisti fornaio il dichiarasse, gli occhi dello ‘ntelletto rimettendo a messer Geri Spina, il quale la novella di madonna Oretta contata, che sua moglie fu, m’ha tornata nella memoria, mi piace in una novelletta assai piccola dimostrarvi.
Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i fatti del Papa trattando, avvenne che, che se ne fosse cagione, messer Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua arte esserceva. Al quale quantunque la fortuna arte assai umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna, che egli n’era ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna altra abbandonare splendidissimamente vivea, avendo tra l’altre sue buone cose sempre i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado.
Il quale, veggendo ogni mattina davanti all’uscio suo passar messer Geri e gli ambasciadori del Papa, e essendo il caldo grande, s’avisò che gran cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco; ma avendo riguardo alla sua condizione e a quella di messer Geri, non gli pareva onesta cosa il presummere d’invitarlo ma pensossi di tener modo il quale inducesse messer Geri medesimo a invitarsi. E avendo un farsetto bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali più tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l’ora che egli avvisava che messer Geri con gli ambasciadori dover passare si faceva davanti all’uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d’acqua fresca e un picciolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevano d’ariento, sì eran chiari: e a seder postosi, come essi passavano, e egli, poi che una volta o due spurgato s’era, cominciava a ber sì saporitamente questo suo vino, che egli n’avrebbe fatta venir voglia a’ morti.
La qual cosa avendo messer Geri una e due mattine veduta, disse la terza: «Chente è, Cisti? è buono?»
Cisti, levato prestamente in piè, rispose: «Messer sì, ma quanto non vi potre’ io dare a intendere, se voi non assaggiaste.»
Messer Geri, al quale o la qualità o affanno più che l’usato avuto o forse il saporito bere, che a Cisti vedeva fare, sete avea generata, volto agli ambasciadori sorridendo disse: «Signori, egli è buono che noi assaggiamo del vino di questo valente uomo: forse che è egli tale, che noi non ce ne penteremo»; e con loro insieme se n’andò verso Cisti.
Il quale, fatta di presente una bella panca venire di fuor dal forno, gli pregò che sedessero; e alli lor famigliari, che già per lavare i bicchieri si facevano innanzi, disse: «Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno ben mescere che io sappia infornare; e non aspettaste voi d’assaggiarne gocciola!» E così detto, esso stesso, lavati quatro bicchieri belli e nuovi e fatto venire un piccolo orcioletto del suo buon vino, diligentemente diede bere a messer Geri e a’ compagni, alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo davanti bevuto; per che, commendatol molto, mentre gli ambasciador vi stettero, quasi ogni mattina con loro insieme n’andò a ber messer Geri.
A’ quali, essendo espediti e partir dovendosi, messer Geri fece un magnifico convito, al quale invitò una parte de’ più orrevoli cittadini, e fecevi invitare Cisti, il quale per niuna condizione andar vi volle. Impose adunque messer Geri a uno de’ suoi famigliari che per un fiasco andasse del vin di Cisti e di quello un mezzo bicchier per uomo desse alle prime mense. Il famigliare, forse sdegnato perché niuna volta bere aveva potuto del vino, tolse un gran fiasco.
Il quale come Cisti vide, disse: “Figliuolo, messer Geri non ti manda a me.”
Il che raffermando più volte il famigliare né potendo altra risposta avere, tornò a messer Geri e sì gliele disse; a cui messer Geri disse: “Tornavi e digli che sì fo: e se egli più così ti risponde, domandalo a cui io ti mando.”
Il famigliare tornato disse: “Cisti, per certo messer Geri mi manda pure a te.”
Al quale Cisti rispose: “Per certo, figliuol, non fa.”
“Adunque, “ disse il famigliare “a cui mi manda?”
Rispose Cisti: “A Arno.”
Il che rapportando il famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s’apersero dello ‘ntelletto e disse al famigliare: “Lasciami vedere che fiasco tu vi porti”; e vedutol disse: “Cisti dice vero”; e dettagli villania gli fece torre un fiasco convenevole.
Il quale Cisti vedendo disse: “Ora so io bene che egli ti manda a me”, e lietamente glielo impié.
E poi quel medesimo dì fatto il botticello riempiere d’un simil vino e fattolo soavemente portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli disse: “Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m’avesse spaventato; ma, parendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi dì co’ miei piccoli orcioletti v’ho dimostrato, cioè che questo non sia vin da famiglia, vel volli staman raccordare. Ora, per ciò che io non intendo d’esservene più guardiano, tutto ve l’ho fatto venire: fatene per innanzi come vi piace.”
Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendé che a ciò credette si convenissero, e sempre poi per da molto l’ebbe e per amico.


2. Il disvelamento dell’inganno

Boccaccio, ho scritto nell’introdurre questa novella, inganna i suoi lettori più volte. Vediamo ora di disvelare in che cosa consistono questi inganni.

La novella di Cisti fornaio illustrata
in un manoscritto del XV secolo

Il primo consiste proprio nella collocazione della novella all’interno della sesta giornata. A conclusione della giornata precedente la regina designata, Elissa, aveva stabilito il tema al quale i novellatori si sarebbero dovuti attenere: «[…] voglio che domane con l’aiuto di Dio infra questi termini si ragioni, cioè di chi con alcun leggiadro motto, tentato[1], si riscotesse[2], o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno». Ebbene, Cisti, come è ben chiaro a chiunque abbia letto il testo qui sopra, non viene affatto provocato, semmai è lui che provoca: beveva così «saporitamente questo suo vino, che egli n’avrebbe fatta venir voglia a’ morti», racconta il Boccaccio. Cisti non fugge neanche «perdita o pericolo o scorno», ma esercita con accorta liberalità un atto (anzi, molti atti) di cortesia. Pampinea, la narratrice di questa novella, non rispetta l’argomento proposto per la giornata. Si potrebbe dire che “è andata fuori tema”.
Altri due inganni si trovano nel titolo. Già con le prime parole, la caratterizzazione di Cisti come «fornaio» ci induce a pensare che la novella abbia qualcosa a che vedere con il pane. Niente di più ingannevole: si parla, invece, di vino. Successivamente, sempre dal titolo, siamo indotti a credere che Geri Spini abbia rivolto a Cisti una domanda azzardata («trascutata»): questa sarebbe la provocazione richiesta – l’abbiamo appena visto – dall’argomento della giornata. Ma la domanda non c’è, anche qui si tratta di un inganno: Geri Spini non fa a Cisti alcuna domanda; rimedia invece, con intuito forse tardivo, a un atto di scortesia di un suo servo.
Due elementi strutturali che hanno grande rilievo nel complesso narrativo del Decameron, il tema della giornata e il titolo della novella, portano il lettore completamente fuori strada, tanto che, quando questi (dopo un lungo incipit teorico su natura e fortuna: se non un altro inganno, almeno un piccolo dirottamento) arriva a leggere la parte della novella nella quale viene effettivamente raccontato il fatto che riguarda Cisti, non si raccapezza più e comincia a domandarsi se il Boccaccio non ce l’abbia con lui.

E naturalmente, non è finita qui. Infatti, l’inganno più grande riguarda il tono della novella.
È un tono di tranquillità e di pace, di scambio di parole e di azioni cortesi; un tono che rimanda a una vita cittadina ordinata, serena. Quella di Cisti fornaio è stata sempre considerata la novella che dimostra come la cortesia venga dal cuore e non dallo stato sociale e come la nobiltà d’animo prescinda da quella di nascita. E l’autore fa di tutto per spingerci a non pensare ad altro che a queste belle e nobili cose. La novella sembra quasi una favola. Abbondano i superlativi (da grandissimo a ricchissimo a bianchissimo a carissimo) e i diminutivi-vezzeggiativi (da orcioletto a botticello), gli aggettivi di senso positivo (bello, buono, nobile), gli avverbi ancora più positivi (da splendidissimamente e saporitamente a lietamente e soavemente). Scrive Luigi Russo all’inizio di una analisi della novella che ha fatto storia: «Tutta la novelletta spira leggiadria e urbanità». E, qualche pagina dopo, conclude: «Il Boccaccio ha avuto il merito di avere appuntito fino all’estremo questa nota dell’urbanità di un uomo, di una città, con una leggerezza e una snellezza rara. La brevità delle parole è il motto araldico di questa spiritualità fiorentina dei tempi di Cisti e di messer Geri»[3].

3. Che tempi erano quelli nei quali si svolge il fatto raccontato e chi erano, storicamente, i protagonisti?

Già: i tempi di Cisti e di messer Geri. Che tempi meravigliosi erano? In che mondo incantevole, anzi incantato, si erano svolti fatti tanto “leggiadri” e “urbani”? Boccaccio, con il gusto perverso di chi inganna ma vuole che il suo inganno venga scoperto, non ce lo nasconde, anzi, in mezzo a tante smancerie, ci fornisce un indizio certo: era il periodo nel quale Bonifacio VIII aveva mandato a Firenze una ambasceria «per certe sue gran bisogne». Poteva essere più preciso di così? Quella ambasceria – famosissima, anzi famigerata – si era svolta dai primi di giugno alla fine di settembre del 1300. Si trattava dunque di un tempo, lontano appena mezzo secolo dalla composizione della novella, tanto terribile che nessuno dei contemporanei dello scrittore poteva averlo dimenticato e che anzi tutti ricordavano certamente con angoscia. Lo ricordava per esperienza diretta chi aveva una sessantina di anni. Chi era più giovane lo ricordava per i racconti atterriti che aveva ascoltato dai più anziani. Infine, chi aveva visto sprofondare le memorie di famiglia tra i morti della peste recente (quella del 1348: il Decameron, ambientato come si sa nel periodo della peste, fu scritto subito dopo, tra il 1348 e il 1351 o poco oltre), lo sapeva bene per aver letto le pagine desolate che ne avevano scritto gli storici. Tra le altre, era certamente diffusa tra i contemporanei del Boccaccio in particolare la Nuova cronica di Giovanni Villani, che, pubblicata nel 1333, aveva goduto di un successo straordinario proprio negli anni immediatamente precedenti e successivi alla peste. Insomma, tutti i fiorentini che leggevano il Decameron sapevano che il mondo nascosto dal Boccaccio sotto tanti inganni non era stato affatto un concentrato di leggiadria e urbanità, ma era stato al contrario un tempo tristissimo durante il quale a Firenze ci si azzuffava tra Bianchi e Neri e, proprio con quella ambasceria, si era corso il rischio concreto di diventare, insieme con tutta la Toscana, una parte periferica del patrimonio di San Pietro.

Tornerò, alla fine della seconda parte di questo mio intervento, sui motivi che possono avere spinto il Boccaccio a perpetrare un inganno tanto più inquietante quanto (anzi: proprio perché) più palese. Ma qui, stupito del fatto che nessun critico abbia mai còlto questo aspetto della novella, voglio approfondire la questione del tempo. L’ambasceria di cui si parla era quella inviata dal papa a Firenze dopo i fatti di “Calendimaggio”. Il primo di maggio (alla latina: “Calendimaggio”, appunto) del 1300, allora a Firenze giorno della festa della primavera, i Neri avevano approfittato della confusione e della folla per assaltare un gruppo di Bianchi in Piazza Santa Trinita. Il figlio del capo dei Bianchi, Ricoverino de’ Cerchi, durante la zuffa aveva avuto il naso tagliato: non una ferita qualsiasi, ma un oltraggio, uno sfregio di solito riservato ai prigionieri di guerra (il Compagni parla in abbondanza di nasi tagliati nella sua Cronica a proposito dell’assedio di Pistoia, I, xxvi). Il 13 maggio Bonifacio VIII invia al al duca di Sassonia, elettore dell’Impero, una lettera chiedendogli di adoperarsi presso l’imperatore Alberto d’Austria, perché andassero a buon fine le trattative riguardanti la rinuncia ai diritti imperiali sulla Tuscia a favore della Santa Sede; il 23 maggio nomina suo legato a Firenze Matteo d’Acquasparta; questi parte il 26 da Roma, arriva a Firenze ai primissimi di giugno e si stabilisce a casa di Geri Spini. Tutto in fretta e furia: bisognava far presto. Le «gran bisogne» derivavano dal fatto che Bonifacio VIII, come Dante sospettava e come dimostra la lettera del 13 maggio[4], voleva integrare la Tuscia nel patrimonio di san Pietro utilizzando i Neri fiorentini, tra i quali c’erano i suoi banchieri, per raggiungere il suo scopo a partire dalla più importante e ricca città della regione. Per farlo, quale pretesto migliore di quello offerto dalle divisioni interne ai vari comuni e, in particolare, a Firenze?

Matteo d’Acquasparta e Geri Spini: oggi ci si chiede chi erano costoro, ma i fiorentini del XIV secolo lo sapevano benissimo.
Per quanto riguarda il primo, bisogna dire che Bonifacio VIII, data l’importanza di quelle sue «gran bisogne», non aveva mandato un ambasciatore qualsiasi. Matteo d’Acquasparta era nientemeno che l’ex ministro generale dell’ordine dei frati minori (1287) eletto cardinale nel 1288, teologo conosciuto in tutta Europa, sottratto ai suoi studi e prestatosi facilmente (troppo facilmente per Dante, che ne parla – male – nel XII del Paradiso) a quella che potremmo chiamare la diplomazia d’assalto del papa.
Di Geri Spini il Boccaccio ci dice che «fu in grandissimo stato» presso il papa. Era, infatti, il suo banchiere. Non proprio l’onestà fatta persona: diciamo che era una specie di Michele Sindona dell’epoca. Ed era anche il padre di Piero Spini, colui che aveva tagliato il naso a Ricoverino de’ Cerchi. Dunque Geri era sì un Sindona, ma dotato anche – in proprio e senza bisogno di appoggiarsi ad altre organizzazioni criminali – delle capacità di un capomafia abbastanza spregiudicato da utilizzare il figlio come picciotto. Geri Spini era stato inoltre colui che, la sera di Calendimaggio, proprio come un capomafia sicuro della sua impunità, aveva offerto l’ospitalità del suo palazzo fortificato (che si trovava – e si trova tuttora – su un lato di piazza Santa Trinita), non solo al figlio, ma a tutti i Neri coinvolti nell’aggressione ai Bianchi e nel ferimento di Ricoverino de’ Cerchi.

Ecco presso quale fior di gentiluomo aveva preso alloggio Matteo d’Acquasparta. Da quel palazzo, dal luogo dove si era svolta la zuffa che aveva incendiato Firenze e aveva offerto al papa il destro per una disinvolta operazione di espansione del Patrimonio di San Pietro, prendeva le mosse, nell’inganno propinato dal Boccaccio ai suoi lettori, la passeggiata sfarfalleggiante e piena di moine e cortesie che vedeva fianco a fianco un rappresentante di primo piano della parte dei Neri e il prestigioso ambasciatore del papa. È molto probabile che il periodo nel quale si svolgevano queste passeggiate debba essere collocato tra la metà del mese di giugno, quando Matteo d’Acquasparta aveva certamente già preso i contatti che gli servivano con gli esponenti della politica e delle istituzioni di Firenze, e la metà del mese di luglio, tra il 15 e il 18, giorni dopo i quali, come vedremo tra poco, il legato papale aveva certamente interrotto qualunque tipo di camminata per le strade di Firenze.

Il Boccaccio, per ingannare ancora di più i suoi lettori, non li avverte in nessun modo che la permanenza del legato del papa presso Geri Spini, indipendentemente dalle più o meno leggiadre passeggiate, non era stata tutta rose e fiori (ricordo ancora che, comunque, i contemporanei dello scrittore lo sapevano benissimo). Tra maggio e giugno Bianchi e Neri avevano continuato a fronteggiarsi, se non con morti e feriti, con risse e scontri continui. E il 23 giugno, vigilia di san Giovanni patrono di Firenze, un altro momento di festa, la processione in onore del santo, alla quale certamente era presente il legato pontificio, si era trasformata in un’ennesima zuffa. Con il pretesto della quale Matteo d’Acquasparta aveva chiesto pieni poteri (la “balia”). A chi li aveva chiesti? Questo è il bello: li aveva chiesti al Consiglio dei Cento nel quale sedeva Dino Compagni e ai sei priori appena nominati per il semestre dal 15 giugno al 15 agosto, tra i quali si trovava Dante Alighieri.
Sì, i giorni di quelle – secondo il Boccaccio – amene passeggiate non erano stati soltanto quelli nei quali si era giocato, con le armi di una guerra civile latente, il destino di Firenze; erano stati anche quelli nei quali Dante, con i provvedimenti adottati come priore, aveva deciso a sua volta il proprio destino di uomo e di intellettuale: un anno e mezzo dopo, Dante, condannato dal governo dei Neri (che avevano preso ormai il potere aiutati da un altro “inviato del papa, Carlo di Valois) per una serie di accuse inverosimili e infondate, prendeva la via dell’esilio.
Uno degli atti dei priori che certamente non era piaciuto né a Matteo d’Acquasparta né al papa fu proprio quello di non concedere la “balia” al legato, il quale fu costretto a passare i mesi da giugno a settembre in tentativi continui – e inutili – di acquisire poteri che gli consentissero di consegnare Firenze al Papa. Durante quei mesi, tra il 15 e il 18 luglio, non si è mai saputo se per effetto di un complotto o per l’azione di uno scriteriato (come afferma il Compagni) il cardinale fu oggetto di un attentato mediante un colpo di balestra schivato per poco. Da quel giorno si rinchiuse nelle fortificatissime case dei Mozzi (che si trovavano oltrarno, poco al di là del Ponte alle Grazie, quindi ben fuori dalle agitate strade del centro cittadino)[5] e il contrasto tra Firenze e il papa divenne, se possibile, ancora più aspro. Ma, quel che conta ai fini dello smascheramento dell’inganno boccaccesco, è che certamente Il legato pontificio non fece più passeggiate né amene né sgradevoli in mezzo a una città così poco sicura per lui. Nel frattempo, come è noto, i priori avevano mandato in esilio i capi dei Bianchi e dei Neri. I primi (tra i quali Guido Cavalcanti) avevano accettato di partire subito per Sarzana; gli altri si erano invece rifiutati in un primo tempo di partire per Città delle Pieve, ma entro la prima metà di luglio partirono. Non risulta che, dopo l’attentato, l’Acquasparta sia tornato a palazzo Spini. E, tra l’altro, Geri Spini era tra i capi dei Neri esiliati: quindi, tra la metà di luglio e i primi di agosto doveva trovarsi a Città della Pieve. A fine settembre Matteo d’Acquasparta, nel lasciare Firenze, lanciava l’interdetto[6] sulla città. Sarebbe stata una rovina, in primo luogo per i Neri, tra i quali si annoveravano i più ricchi banchieri della città. Se non fosse che Corso Donati, lasciato illegalmente l’esilio umbro, si recò personalmente da Bonifacio VIII e lo convinse a revocare l’interdetto. Quanti imbrogli nella novella, quanti imbrogli!

Questo è il tempo, certo piuttosto lontano dalla leggiadria e cortesia che spirano da tutte le righe della novella. E i luoghi? Dei luoghi, in particolare di quelli della passeggiata che avrebbe portato Matteo d’Acquasparta e Geri Spini a passare davanti alla chiesa di Santa Maria degli Ughi, parlerò in un prossimo intervento. Questo è già abbastanza lungo e devo un grazie di cuore ai lettori che sono arrivati fin qui.


[1] tentato: ‘provocato’.
[2] si riscotesse: ‘reagisse’.
[3] Luigi Russo, Letture critiche del Decameron, Bari, Laterza, 1956, pp. 225-230.
[4] Dante sospettava, come detto nel testo, che proprio questi fossero i disegni del papa e aveva ragione. A lungo molti storici hanno pensato che l’autore della Commedia esagerasse con i suoi timori relativi alla volontà di espansione territoriale dello Stato della Chiesa da parte di Bonifacio VIII. Ma documenti pubblicati di recente e relativi alla corrispondenza del papa nei giorni precedenti l’ambasceria di Matteo d’Acquasparta (tra questi la lettera citata) ci dicono che Bonifacio VIII aveva proprio intenzione di fare quello che Dante temeva: prendersi la Toscana. Si veda: Federico Canaccini, Matteo d’Acquasparta tra Dante e Bonifacio VIII, Roma 2008.
[5] Il Canaccini si domanda «se la scelta di risiedere presso i Mozzi fosse […] dettata dalla volontà di sminuire le voci che volevano l’Acquasparta colluso coi Neri, essendo i Mozzi Bianchi, o dalla maggiore sicurezza che le fortificazioni, di cui era dotata la loro dimora, potevano garantire». Si veda: Federico Canaccini, Bonifacio VIII e il tentativo di annessione della Tuscia, in: “Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medioevo”, 112 (2010), p. 494, ora anche on line qui. Probabilmente i motivi erano tutti e due. Bisogna inoltre considerare che i Mozzi erano dei Bianchi un po’ speciali, in quanto erano «soci degli Spini presso la curia papale» (Gino Luzzatto, Note a Dino Compagni, Cronica, Torino, Einaudi, 1968, p. 52) e dunque molto interessati sul piano economico, indipendentemente da ogni appartenenza di consorteria, a favorire il legato pontificio.
[6] interdetto: l’interdetto era, in realtà, una misura prevista dal diritto canonico mediante la quale venivano, appunto, interdetti il culto e i sacramenti. Essa però comportava, come conseguenza indiretta, la possibilità per i debitori di non pagare i propri debiti ai cittadini colpiti dall’interdetto.

La poesia visiva

A proposito della mostra Belle parole a Fano

Poco meno di due settimane fa ho pubblicato un post, Che vergogna!, a proposito delle tragicomiche avventure di un mio viaggio a Fano. A Fano ero andato per vedere la interessantissima mostra di poesia visiva Belle parole che si è svolta fino al 28 giugno scorso nelle sale della Galleria Carifano a Palazzo Corbelli. Avevo promesso che ne avrei parlato ed ecco le mie riflessioni in proposito.

La mostra ha presentato al pubblico, per la prima volta tutte insieme, molte importanti testimonianze di poesia visiva e, in particolare, di quella corrente nata nel 1963 con il “Gruppo 70” e cresciuta poi fino agli anni Novanta del secolo scorso in quella vera e propria officina di idee costituita da Campanotto Editore. In questa straordinaria casa editrice l’espressione della poesia visiva è stata favorita, da una parte, dalla lungimiranza e dalla lucidità di Franca Campanotto – grande “signora” dell’editoria italiana scomparsa purtroppo tre anni fa – e, dall’altra, dalla creatività del suo direttore editoriale Carlo Marcello Conti, artista e poeta egli stesso, sempre disponibile alle avventure della mente.
Le opere esposte (tra le più importanti, quelle di Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini, Mirella Bentivoglio, Michele Perfetti, Lucia Marcucci, Adriano Spatola, Gian Paolo Roffi) ci hanno ricordato la volontà di quel gruppo di poeti di trasformare la poesia in comunicazione plurimediale, anzi in un «neo-volgare» mediale, cioè in un linguaggio comprensibile a tutti (a differenza di quello della contemporanea neo-avanguardia), disponibile alla contaminazione con la tecnologia e capace, proprio per la sua semplicità di approccio, di demistificare i prodotti della moda e della pubblicità, magari facendo loro il verso. In questo universo mediale la parola non solo si mescolava con altri media, ma assumeva a sua volta una duplice medialità: continuava sì a essere testo verbale scritto, composto di segni alfabetici, ma diventava al tempo stesso segno iconico in grado di interagire con altri segni iconici mediante le tecniche più svariate. Si può dire che il “Gruppo 70” portava così a compimento il lungo cammino cominciato dalla poesia contemporanea nel momento in cui aveva preso coscienza di quella che chiamerei la solitudine – ma anche, perciò, la autonoma significatività – del testo poetico scritto.

Eugenio Miccini, Il poeta incendia la parola,
s.d.,
Tecnica mista su cartoncino

Per capire in che cosa è consistito questo cammino è necessario qui un approfondimento (per cui potete leggere anche questo mio intervento di qualche tempo fa). In breve, il testo poetico è stato per millenni un testo verbale fonico. La forma scritta attraverso la quale esso ci è stato tramandato sui vari supporti che la storia via via ha offerto – da ultimo, la carta stampata – non ha mai avuto altro valore che quello di testimone: textus/testis, come dicevano i latini con un azzeccato gioco di parole. Questa condizione millenaria si è modificata solo intorno alla fine del XVIII secolo. Più o meno in quel periodo la lettura privata del nuovo genere letterario di massa, il romanzo, una lettura fatta da soli e solo con gli occhi, ha, per così dire, contagiato anche quella della poesia, che da Esiodo fino ad allora era stata fatta in pubblico e ad alta voce. Da allora il testo poetico è stato percepito dal lettore come testo verbale scritto. Poco più di un secolo dopo questa svolta alcuni poeti, in particolare Apollinaire e i futuristi, hanno avvertito la possibilità di un uso nuovo e diverso di quel testo verbale scritto che da tempo non era più semplice trascrizione del suono delle parole, ma aveva una sua piena e totale autonomia: hanno cioè utilizzato quello testo, quell’insieme di segni alfabetici, come segno iconico. Il risultato più importante e più poeticamente riuscito di questa nuova assunzione del testo poetico come testo anche iconico sono certamente i Calligrammes di Apollinaire (qui il sito di riferimento), ma non mancano esempi molto belli di poesia visiva futurista (uno di questi, Paesaggio+temporale di Giacomo Balla, esempi lo trovate nell’intervento già richiamato). Ormai da un secolo, dunque, il testo di una poesia che noi vediamo scritto su una pagina, da quella stessa pagina, ci occhieggia con gli attributi di un grafo. E non solo nei testi dei poeti che, più consapevoli di questa svolta, hanno volutamente prodotto testi di poesia visiva, come quelli, appunto, del “Gruppo 70”, ma nei testi di tutti i poeti. La collocazione dei versi sulla pagina non si limita più soltanto all’indicazione dell’a capo: è diventata ormai anche una indicazione visiva, un segnale stradale lungo il percorso della fruizione del testo poetico. È sufficiente pensare, per rendersene conto, alla collocazione tipografica dei versi sulla pagina, con rientri, spaziature e con ogni genere di deformazione dell’andamento lineare della riga su cui viene collocato il verso.

Lucia Marcucci, Polluzione 1971,
Tecnica mista su carta

Rispetto a questi interventi tipografici che troviamo più o meno diffusi in quasi tutti i libri di poesia stampati nell’ultimo secolo, la poesia visiva opera un processo di semplificazione. Nessuna ambiguità, nessun occhieggiamento: il segno verbale scritto, la parola scritta con i segni alfabetici, diventa in tutto e per tutto segno iconico e si affianca senza stridere ad altri segni iconici che nulla hanno a che vedere con l’alfabeto. In qualche caso, anche tra le opere esposte a Fano, la parola è assente e allora – a mio parere – è difficile parlare ancora di poesia visiva e non di opera d’arte visuale. In tutti gli altri casi, la parola non perde importanza, ma, come nella pubblicità, si assolutizza in uno slogan, in un titolo, diventa un motto da ricordare. «Il poeta incendia la parola», un tema sul quale Eugenio Miccini è tornato più volte, è tutto questo: è lo slogan di un manifesto pubblicitario nel quale è affiancato a una fiammata di testi, è il titolo dell’opera ed è un motto che ben sintetizza l’attività dei poeti del “Gruppo 70” e, in fondo, di tutti i poeti. «Polluzione» è il titolo di un testo di tre righe (tre versi? credo di sì) che Lucia Marcucci fa confrontare e contrastare, nella loro linearità, con un profilo che definirei arcimboldiano, ridotto però al rigore della quadricromia. In tutti e due i casi, come fare a non sussultare, a non lasciarsi coinvolgere emozionalmente da quell’incendio o da quell’esplosione? L’effetto è appunto quello di una pubblicità, la cui essenza è smentita però dalla assoluta non commerciabilità dell’oggetto proposto – la poesia, la guerra atomica – ed è perciò smontata e svelata nei suoi meccanismi suasori.

Il fatto che la poesia visiva non abbia avuto eredi diretti dopo il quarantennio di piena attività nel quale si è sviluppata a partire dalla metà degli anni Sessanta non vuol dire che essa non sia stata fertile. Da quel terreno è cresciuta una nuova consapevolezza della ampiezza dei confini del testo poetico e, nel praticare quello stesso terreno, così strettamente legato al segno iconico, la poesia ha riscoperto paradossalmente il valore del suono della parola: molti poeti visivi hanno acquisito nuove contaminazioni con i media digitali e sono oggi performer di testi multimediali. Alcuni poeti visivi sono stati anche poeti sonori (si pensi ad Adriano Spatola e Gian Paolo Roffi). Allontanarsi dalle origini ha aiutato insomma a ritornare più vicini alle origini, quando il testo poetico – testo verbale fonico – si mischiava a quello musicale, alla danza e costituiva, ogni volta che veniva eseguito, un evento al quale si poteva ben attribuire il nome di «Poesia totale» coniato in un saggio del 1978 da Adriano Spatola. Un grazie di cuore agli organizzatori della mostra Belle parole che ci ha fatto riflettere su tutto questo.

Per ricordare Elio Filippo Accrocca

Il 17 aprile scorso la Biblioteca comunale di Cori ha ricordato il poeta Elio Filippo Accrocca nel giorno nel quale avrebbe compiuto 91 anni. Da molti considerato romano, Accrocca è invece nato a Cori – e lì è ora sepolto – e la Biblioteca comunale è, giustamente, a lui intitolata. L’occasione del ricordo può dunque sembrare legata a una ragione locale.
Ma c’è una ragione più generale per la quale quel ricordo è stato non solo bello, ma anche necessario. Accrocca è infatti uno di quegli scrittori dei quali si tende a non parlare più. E invece è un poeta da rileggere, da studiare (si trova nelle antologie scolastiche? non lo so) e, semmai, ancora da scoprire nelle sue inesauribili – ma mai fini a se stesse – invenzioni linguistiche.
Proprio per questo ad Accrocca è necessario accostarsi con l’umiltà e la curiosità di chi si accinga a esplorare una regione sconosciuta, con la consapevolezza del rischio di perdersi nel dedalo delle numerose e diverse strade che questo poeta ha percorso (o anche soltanto tentato) e, infine, con la stessa pazienza e pervicacia con la quale lui ha lavorato nell’ambito della ricerca formale e si è avventurato negli universi di parole e di cose tra i più ricchi che la produzione poetica della seconda metà del Novecento ci abbia offerto.

I libri di E. F. Accrocca
nella Biblioteca di Cori

In questa così mossa e variegata prospettiva, bisogna stare attenti a non farsi condizionare dagli esordi di questo poeta, fin troppo fortunati – verrebbe da dire -, con un’opera, Portonaccio (1949), presentata da Ungaretti e pubblicata dall’editore di poesia allora più importante in Italia, Scheiwiller di Milano. È infatti assolutamente necessario in questo caso, ancora più che in altri, che esordi pur così importanti non si costituiscano come una categoria di giudizio e, meno che mai, come una categoria di appartenenza. Quando Accrocca ha pubblicato Portonaccio, si era in piena età del neorealismo.
Erano gli anni nei quali la particolare forza degli eventi vissuti ispirava anche quegli autori che, provenienti dall’esperienza ermetica, potevano sembrare meno ricettivi rispetto al peso di una storia tanto ingombrante. Per quello che riguarda lo stesso Ungaretti, erano gli anni de Il dolore (1947), de La terra promessa (1950), di Un grido e paesaggi (1952); Eugenio Montale scriveva le poesie de La bufera e altro (1956); Salvatore Quasimodo pubblicava quelle traumaticamente nuove – per lui e per la lirica italiana – di Giorno dopo giorno (1947). Insomma, anche i poeti che avevano partecipato con maggiore intensità e coerenza alla stagione ermetica, come riconobbe Carlo Bo, accantonato per un momento il loro «antico patrimonio», sentirono l’obbligo di «far partecipare le cose alla lezione della nostra vita».
Figuriamoci i poeti più giovani, in particolare quelli della «generazione del ‘20». In loro l’urgenza di dire spingeva a tradurre in versi esperienze di vita e memorie di lotta, sofferenze passate e presenti, insomma, il difficile rapporto con la vita e con la realtà di anni assai duri che per loro erano anche stati quelli nei quali erano diventati uomini. Tra le altre, la voce di Accrocca si distingueva, secondo il giudizio del suo maestro-amico Ungaretti, in virtù di una «estrema tenerezza di fronte alla terribilità degli eventi», di una «tenerezza quasi silenziosa per la sua intensità di commozione davanti a inermi povere cose, a poveri esseri travolti». Un fatto era già certo, tuttavia, anche per Ungaretti: che la poesia di quel suo giovane allievo era «la più refrattaria a farsi attanagliare in regole che non fossero quelle reclamate dalla propria ispirazione».
La raccolta di Portonaccio esprime le certezze di un ventenne: l’orrore della guerra, la solidità dei rapporti umani, il trascorrere delle stagioni e delle generazioni. L’orizzonte del ponte sulla ferrovia è allora il primo orizzonte urbano che, nella storia poetica di Accrocca, assume un significato e, dunque, ha bisogno di dare parole tanto alla storia quanto alla vita quotidiana. Ma questo è, appunto, il “primo” orizzonte che questo poeta esplora. Portonaccio apre un ciclo che si conclude dieci anni dopo – dopo Caserma ‘50 (1951) e Reliquia umana (1955) – con Ritorno a Portonaccio (1959). Il «ritorno», la chiusura del ciclo, è già un’apertura al nuovo, e si risolve nella scoperta di una nuova certezza: l’amore per la vita che nasce, per la vita del figlio atteso e arrivato. Sono dieci anni di una difficile ricerca di equilibrio tra un’ispirazione diciamo così popolare – con il rischio di populismo facile (anche nello stile) sempre incombente sui giovani poeti di quel periodo – e l’eredità ungarettiana o meglio, come si dovrebbe ormai riconoscere, tra quella ispirazione popolare e una complessa eredità culturale che, attraverso la mediazione di Ungaretti, risaliva assai più indietro e recuperava echi profondi della nostra tradizione letteraria fino a Pascoli, fino a Leopardi e addirittura fino a Foscolo.

Il fatto è che, con la fine degli anni Cinquanta l’insufficienza degli strumenti formali del neorealismo si fa sempre più evidente e, tra i poeti che provenivano da quell’esperienza, proprio Accrocca, più di ogni altro, coglie il senso del lavoro della neoavanguardia e utilizza a pieno i contributi derivanti dalla sperimentazione sul linguaggio e sui linguaggi. Intendiamoci: Accrocca si guarda bene dall’aderire, per così dire, dall’esterno alla ricerca del «Gruppo ‘63». Egli è spinto da un’esigenza profonda di rivedere le proprie certezze, di recuperare sul piano del dubbio i valori in precedenza asseriti senza se e senza ma. Comincia allora, con la svolta segnata dalla raccolta Innestogrammi/Corrispondenze (1966), la lunga stagione delle «domande», terminata poi soltanto con la morte del poeta.
In quella raccolta Accrocca parte dalla constatazione che l’Io è «fatto di molti innesti», che si sdoppia (Innestogrammi, III), che ha un suo proprio tempo e un suo proprio spazio. Lo stesso orizzonte cittadino, nella raccolta Roma così (1973), assume contorni nuovi rispetto al decennio di Portonaccio, e si colloca dentro coordinate del tutto soggettive. Noi non sappiamo dove avrebbe condotto questo lavoro di ricerca intrapreso da Accrocca. Non lo sappiamo e non lo sapremo mai perché le domande che egli andava via via ponendosi assumono improvvisamente il tono e il contenuto delle domande più tragiche che un uomo possa rivolgere a se stesso sul senso della vita: quelle su una vita che non c’è più. La vita del figlio di Accrocca attesa e fatta poesia sin da quando prendeva forma nel ventre materno, e poi accarezzata e descritta nelle promesse e nelle speranze di futuro, si era fermata nel 1973 per un incidente di moto.
L’epoca delle domande, aperta dal dubbio sul linguaggio e sui linguaggi, sul rapporto tra linguaggio e verità, approda allora in questi anni al problema – insolubile – della verità tout court. Le domande dell’ultima sezione di Siamo non siamo (1974) – intitolata proprio così Domande – e quelle de Il superfluo (1980) hanno ormai questa dimensione: «Sei finalmente appagata, Negazione? / Sarò sempre tuo ospite, Tenebra? / Mai più risalirò da questo abisso?». È la dimensione della ricerca assoluta e, lo avvertiamo nel profondo quasi con un brivido, della ricerca dell’Assoluto. Questa ricerca è la vera «condanna per chi resta»: l’appello alla ragione; la lente della follia.
L’evento tragico che le poesie di quegli anni testimoniano come un interminabile e interminato verbale, non è solo un trauma: è una ruga profonda che segna la vita di Accrocca; un solco che si apre anche nel suo mondo poetico. Ormai nulla per lui sarà più come prima. La sua poesia degli anni Ottanta è infatti come un inesausto tentativo di risalire dall’abisso della non conoscenza, di recuperare con le parole un rapporto con il passato che gli consenta di accettare il presente. La stagione delle domande sfocia allora in quel lunghissimo dialogo-soliloquio che costituisce, con le poesie dell’ultimo ventennio, il più straordinario poema intimo che sia stato scritto nel Novecento da un poeta italiano. Esempi del genere si trovano solo nella poesia americana dei Beats, per esempio in Kaddish, il bellissimo poema scritto da Ginsberg tra il 1957 e il 1959 in morte della madre.


Qualcuno capirà perché riempi
di parole la pagina. Forse tenti
di ricolmare in qualche senso il vuoto
che fra te si frappone
e quella moto …


(Tergicristallo, da Lo sdraiato di pietra)

In questi versi si può forse raccogliere il senso ultimo del poema – chiamiamolo così, perché si tratta, lo ripeto, di ben più che di qualche raccolta di poesie – intitolato Lo sdraiato di pietra e dedicato al Babuino, a quella singolare statua mutila da cui prende il nome una delle vie più famose di Roma. Il sottotitolo di quel libro è: «Colloquio-soliloquio a tu per tu col “babuino” che è in noi».
Negli ultimi venti anni della sua vita Accrocca si è affaticato in dialoghi in cui, data la natura dell’interlocutore, abbiamo in realtà il perenne riproporsi di domande a se stesso sul senso dell’esistenza e, ancora una volta ma più drammaticamente che mai, sul senso della poesia: domande che ormai si esprimono in parole «al servizio del segno», in versi tipograficamente spezzati, come se fossero anch’essi alla ricerca di un porto di pace, di un luogo dove sostare pur senza ricevere – mai – una risposta.
Il Babuino, Via del Babuino diventano ora il nuovo orizzonte urbano di Accrocca, un orizzonte – l’ultimo – che fa tutt’uno con una figura, quella del figlio, sempre presente, spesso partecipe del dialogo-soliloquio. È un segmento nella «avventura del tempo», dove si rivelano e assumono senso i sedimenti della vita di un angolo di città: gli accumuli di spazzatura e di catrame; gli intonaci delle pareti; i sampietrini della strada che non si calpestano mai due volte.
Tempo e parola: è necessario soffermarsi su queste due dimensioni del rapporto tra il poeta e lo «sdraiato di pietra». Il tempo, fermato da quella moto, ha ora un enorme spessore nel passato, fluttua nel presente fino a identificarsi, in qualche misura, con la «corrente che fluttua sulla strada» della poesia La polvere (che trascrivo qui sotto) e si schiaccia addirittura nel futuro, in quello che il poeta chiama con lucida rabbia il «raggiro del futuro». La parola assume ora il senso magico che i pitagorici attribuivano al numero e il peso di un «bagaglio che dentro ti trascini», un bagaglio assai «più pesante di quello che si vede: / l’interno è ingombrante come il passato» (Quadrato della magia).
Ecco che tempo e parola si toccano e si contagiano: non è un caso forse che tra le ultime poesie de Lo sdraiato di pietra ve ne sia una, La durata, che cerca appunto di misurare il tempo della parola, la sua durata, la sua storia. Nel rapporto tra queste due dimensioni, la morte che ci ha portato via questo poeta ancora nel pieno della sua attività era una variabile possibile. L’interlocutore del Babuino, anzi, l’aspettava da tempo, ben sapendo che «la vita / […] non volta la sabbia delle clessidre» (La sabbia).
Ogni volta che rileggiamo quest’ultimo grande poema di Accrocca, le domande che il poeta si è posto per tanti anni ci toccano sempre più nel profondo, ci coinvolgono come se diventassero a poco a poco le nostre, come se da sempre avessimo voluto porle alla nostra intelligenza e al nostro cuore. Quelle domande sono una continua scoperta di bisogni della nostra anima, di prospettive del nostro pensiero. Quando, leggendo i suoi versi, ce le troviamo davanti come un’improvvisa necessità, allora ci sentiamo più ricchi. O forse, semplicemente, più uomini.
Questo è il grande dono della poesia di Accrocca.

Elio Filippo Accrocca, La polvere (da Lo sdraiato di pietra)


/… di un fiume si sa la destra e la sinistra
seguendo la corrente
               ma una strada non ha
il verso decifrabile.
               Nemmeno il presidente della Rai
ti conosce, non sa dove ti trovi,
ignora il grado della tua solitudine …/

Non sei che un guscio vuoto, Babuino,
creatore del nulla, irriconoscibile
involucro di elementi che formicolano
indaffarati nello specchio delle vetrine immobili:
la loro varietà sa di colore espanso
che una suola o un tacco può travolgere
inavvertitamente
               senza ragione o scelta …

ma una traccia del nulla è già mistero
che contiene lo scotto di quel vuoto:
               nella «vetrina»
ci sei anche tu, irriconoscibile, sdoppiato nel tempo,
oggetto dentro il raggio d’uno sguardo,
figura, sei persona, nome, età, forma, volto
che insegui con il margine dell’occhio
a catturare un simbolo
               che non ha peso, che non ha misura

La tua velocità, buio, è superiore
a quella della luce …

Un’occhiata al rettangolo irregolare di cielo
di tanto in tanto per staccare lo sguardo
dalle strisce, ma la pupilla
               è meccanismo terrestre,
sa di vincolo umano, d’esistenza
Tu ignori curve/sfere/ellissi,
le leggi si attrazione, le linee dell’universo,
sopporti appena i tagli del momento,
la tenerezza dei colori, i toni dell’altrui
               modulazione, lo spazio tra le cose,
la mia voce che sorprende anche me

e questa è vita
che a millimetri annoveri decifrando
la corrente che fluttua sulla strada
enumerando volti che incornici sotto il vetro
               delle tue parole,
offrendo tempo, un dono senza prezzo
che da solo disperderai dal tuo comune livello
               con le mani inesistenti:
altra polvere non avrai che queste pagine …


Omero: la straordinaria invenzione
della metafora-specchio

Affrontare oggi un discorso sulla metafora si rivela di una complessità inaudita. Non perché sia difficile in sé. Il fatto è che nel corso dei secoli retori, studiosi di estetica e di poetica, linguisti, semiologi – e chi più ne ha più ne metta – hanno fatto a gara a complicare le cose. Non è questo il luogo per mettere ordine nella questione. Posso però cercare almeno di riportare una certa chiarezza e semplicità, questo sì.
Per farlo basta che io ritorni, con un salto all’indietro di quasi duemilatrecentocinquant’anni, alle origini della questione, che si trovano in Aristotele e precisamente nella Poetica (scritta all’incirca fra il 334 e il 330 a.C.) e nella Retorica (scritta negli anni immediatamente successivi). Ecco i brani che ci interessano.

Aristotele, Poetica, 1457b


La metafora consiste nel trasferire a un oggetto il nome che è proprio di un altro.


Aristotele, Retorica, 1406b


Anche la similitudine è una metafora: la differenza tra le due è piccola. Quando infatti Omero dice di Achille: “Egli balzò come un leone”, questa è una similitudine; qualora dicesse “balzò un leone”, sarebbe una metafora.


Aristotele, Retorica, 1410b


Noi apprendiamo soprattutto dalle metafore. Quando infatti il poema chiama la vecchiaia “paglia”[1], realizza un apprendimento e una conoscenza attraverso il genere: entrambe le cose sono infatti sfiorite.
 Anche le similitudini dei poeti ottengono lo stesso effetto: se quindi esse sono buone, appaiono spiritose [ἀστεῖον φαίνεται]. La similitudine è infatti, come abbiamo detto prima, una metafora che differisce perché vi è aggiunto qualcosa; perciò essa è meno piacevole, perché ha maggior lunghezza: essa non identifica i due termini, quindi la mente non esamina la relazione.


Particolare del “Busto di Aristotele” conservato a Palazzo Altemps, Roma. Copia romana dall’originale di Lisippo

È difficile? No. A queste parole chiarissime Aristotele ne aggiunge poche altre per distinguere i vari tipi di metafora: nella sua classificazione sono metafore anche figure retoriche che noi, ancora una volta complicando le cose, chiamiamo iperbole, metonimia e sineddoche. Un pochino di più il filosofo greco si dilunga per spiegare bene in che cosa consiste quello che egli chiama il rapporto di “analogia”. Ma queste precisazioni, per quanto anch’esse brevi e chiare, non ci interessano. Infatti, se ho citato Aristotele qui, è solo perché egli risolve all’origine il problema del rapporto tra metafora e similitudine. Sono la stessa cosa («anche la similitudine è una metafora»): consistono entrambe in un meccanismo di sostituzione. Nel caso della similitudine, ci avverte il filosofo, la mente non si trova di fronte a uno scambio secco e quindi ha più difficoltà a vedere la relazione diretta. Il poeta, di conseguenza, aggiungo io, deve essere particolarmente bravo per suscitare nel lettore la riflessione necessaria a innescare il processo al tempo stesso di meraviglia e di conoscenza che la metafora produce.

Detto questo (che potrà servire anche in altre occasioni nelle quali vorrò parlare di metafore), vengo al dunque: a quella straordinaria invenzione omerica che, nel titolo di questo mio intervento ho chiamato “metafora-specchio”, una figura, a quanto mi risulta, non studiata (ma non sono un grecista e, se qualcuno dei lettori sa di studi in proposito vorrei che me li segnalasse). Chi vuole può chiamarla “similitudine-specchio”. Io, sia per comodità, sia perché considero utile seguire alla lettera l’indicazione di Aristotele, la chiamerò, in ogni caso, metafora.
Per capire, al di là del nome, di che cosa si tratta vediamo un primo esempio, con l’avvertenza che i tre casi di metafora-specchio nei quali mi sono imbattuto si trovano tutti nell’Odissea.
In questo primo esempio, Odisseo, dopo essere finalmente tornato a Itaca su una nave dei Feaci, si trova nella capanna del porcaro Eumeo, da sempre fedele alla sua famiglia. Non ha ancora rivelato a nessuno la sua identità e, anche a Eumeo, si è presentato come un vecchio mendicante un tempo ricco e felice. A un certo punto in quella stessa capanna arriva Telemaco, di ritorno da un viaggio a Pilo e a Sparta dove si era recato per chiedere a Nestore e a Menelao notizie di suo padre. Ed ecco la descrizione del modo in cui Eumeo accoglie Telemaco (le citazioni che seguono sono tratte dalla traduzione dell’Odissea di G.A. Privitera, Fondazione Lorenzo Valla, 1981):


[…] Andò incontro al signore,
gli baciò il capo e i due occhi belli
ed entrambe le mani: copioso gli sgorgò il pianto.
Come un padre affettuoso accoglie suo figlio
che torna da una terra lontana il decimo anno,
l’unico figlio diletto, per cui patì tanti dolori,
così il mandriano baciò allora Telemaco simile a un dio
abbracciandolo stretto, quasi fosse scampato alla morte;
[…]


Odissea, XVI, 14-21

Omero, nel ritratto immaginario (copia romana di un originale greco del II sec. a. C.) conservato a Louvre

In questa metafora il meccanismo di sostituzione è, in apparenza, abbastanza semplice: il poeta sostituisce le parole “il mandriano baciò Telemaco commosso e felice” con quelle introdotte dal «come» (ὡϛ δὲ) e concluse dal «così … allora» (ὣϛ τότε). La commozione e la felicità ci vengono fatte conoscere, invece che con due parole generiche, attraverso una frase che ci racconta come un padre accoglie suo figlio dopo tanto tempo e dopo aver patito molti dolori. Questa è, insomma, la specificità del sentimento di commozione e felicità provato da Eumeo. Ma è impossibile non notare che il padre di Telemaco, quello che non vede il figlio da tanto tempo (qui δεκάτῳ ἐνιαυτῷ ha il senso generico di ‘dopo tanti anni’), è proprio davanti a Eumeo: la metafora usata dal poeta per farci conoscere nel dettaglio i sentimenti di Eumeo si rispecchia nel personaggio che è lì, che partecipa alla scena. La metafora assume così, per chi legge, una forza doppia, spiega i sentimenti di Eumeo e ricorda la presenza di Odisseo che è, non per metafora, ma davvero, «il padre affettuoso che accoglie suo figlio … per cui patì tanti dolori». E, attraverso la forza raddoppiata della metafora, il lettore finisce per trovarsi anch’egli lì, finisce per essere non più soltanto lettore, ma per provare una condivisione totale dell’intreccio di sentimenti che si sviluppa nella povera capanna.

Omero aveva già fatto, se così si può dire, una prova, certo meno diretta e coinvolgente ma tecnicamente assai simile, della metafora-specchio. L’esempio che propongo ora è tratto dal sesto canto dell’Odissea. Si riferisce al momento nel quale, nella terra dei Feaci, Nausicaa gioca con le compagne: un grido di gioco sveglia Odisseo (che la notte precedente è approdato naufrago in quella terra) e questi, dopo qualche esitazione (anche perché è nudo) si rivolge a Nausicaa. Ecco i due momenti:


Come sui monti va Artemide saettatrice,
sull’immenso Taigeto o per l’Erimanto,
lieta tra cinghiali e cerve veloci,
e con lei giocano le ninfe dei campi,
figlie di Zeus egioco, Gioisce Leto nell’animo,
e lei col capo e la fronte supera tutte,
e facilmente si nota e tutte son belle;
così tra le ancelle spiccava la vergine casta.
[…]
«Ti supplico, o sovrana: un dio sei forse o un mortale?
Se un dio tu sei – essi hanno il vasto cielo –
assai somigliante ad Artemide, la figlia del grande Zeus,
mi sembri in volto, statura ed aspetto
[…]»


Odissea, VI, 102-109 e 149-152

Anche qui la metafora si rispecchia: in questo caso non propriamente nel personaggio Odisseo, ma nelle parole che egli rivolge a Nausicaa. Omero, ancora una volta, ci spiega con precisione un fatto (qui la bellezza di Nausicaa, nell’esempio precedente i sentimenti di Eumeo) mediante una metafora: Nausicaa spicca tra le compagne come Artemide, quando va a caccia, spicca, sotto gli occhi felici della madre Latona (Leto), tra le ninfe dei campi. E poco dopo, ecco che, come da uno specchio, le parole di Odisseo riflettono quanto il poeta ci ha appena spiegato con la metafora. Rispetto all’esempio precedente, qui la metafora-specchio suscita meno emozione, ma la tecnica è la stessa.

L’ultimo esempio che propongo è anche il più bello: forse – lasciatemelo dire – in questo esempio risplende la metafora più bella della storia della poesia. Siamo nel ventitreesimo canto. Penelope ha finalmente riconosciuto Odisseo e gli ha spiegato perché aveva tanto esitato a convincersi che fosse proprio lui.


Disse così e in lui suscitò ancor più la voglia di piangere:
piangeva stringendo la sposa diletta, accorta.
Come appare gradita la terra a coloro che nuotano
e di cui Posidone spezzò la solida nave,
sul mare, stretta dal vento e dal duro maroso:
e pochi sfuggirono all’acqua canuta nuotando
alla riva, e la salsedine s’è incrostata copiosa sul corpo,
e toccano terra con gioia, scampati al pericolo;
così le era caro lo sposo, guardandolo.
Non gli staccava più le candide braccia dal collo.
Aurora dalle rosee dita sarebbe spuntata che ancora piangevano,
se la dea glaucopide Atena non avesse pensato altre cose:
fece lunga alla fine la notte, trattenne
Aurora dall’aureo trono vicino all’Oceano, non le fece aggiogare
i cavalli dai piedi veloci che portano agli uomini il giorno,
Lampo e Fetonte, i puledri che portano Aurora.


Odissea, XXIII, 231-246

Qui, credo, c’è poco da spiegare di fronte al rivelarsi di tanta bellezza: la metafora mediante la quale il poeta ci spiega i sentimenti di Penelope, si rispecchia talmente in Odisseo che “è” Odisseo. La metafora usata qui da Omero è infatti nient’altro che la descrizione di Odisseo così come egli giunge, naufrago, nella terra dei Feaci. E c’è, nella descrizione che già parla da sé, persino una spia che il poeta consegna con cura al lettore perché egli non abbia più dubbi: il particolare della “salsedine”. Di Odisseo approdato alla terra dei Feaci Omero aveva detto infatti che era κεκακωμένοϛ ἃλμῃ (“bruttato dalla salsedine”) e del naufrago al quale paragona Penelope dice che πολλὴ δὲ περὶ χροῒ τέτροφεν ἅλμη (la salsedine s’è incrostata copiosa sul corpo): e ἃλμῃ / ἅλμη sono entrambe in fine di verso: un bel modo di ricordare al lettore il suono di una parola. Ecco, vuol dire Omero, ti ho dato questo indizio decisivo; ora lo capisci che è proprio di Odisseo che parlo nella metafora? lo capisci che, attraverso la metafora, voglio dirti che Penelope sente già Odisseo dentro di sé? Certo, il lettore non può non averlo capito: prima ancora che Atena predisponga tutto perché la notte duri a lungo e favorisca un lungo amore, Penelope si è già congiunta con Odisseo. Così “le era caro lo sposo” come egli era, anzi, senza che la stessa Penelope potesse saperlo (il momento dei racconti deve ancora venire e verrà, di fatto, poco dopo) come egli era stato in uno dei momenti più difficili del suo lungo viaggio. Il suo cuore è il suo sposo, è Odisseo, è quell’Odisseo sopra il quale il tempo, come il mare, è duramente passato.
Non aggiungo nient’altro. Soltanto, vi prego: rileggete ad alta voce il brano che ho trascritto qui sopra e lasciatevi andare all’emozione.


[1] Omero, Odissea, XIV, 213

La «lampada accesa»

Dante era più avanti di Papa Francesco?

Nel discorso tenuto all’Angelus domenica 9 febbraio Papa Francesco ha ripreso e commentato due immagini del Vangelo del giorno. Nel brano citato (Matteo, 5, 13-16), Gesù dice ai suoi discepoli:


Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.


Riferendosi all’immagine della “lampada accesa” il papa ha detto (cito direttamente dalla pagina web della Libreria Editrice Vaticana che contiene anche le note relative alla risposta della folla):


[…] Ma che bella è questa missione di dare luce al mondo! È una missione che noi abbiamo. È bella! È anche molto bello conservare la luce che abbiamo ricevuto da Gesù, custodirla, conservarla. Il cristiano dovrebbe essere una persona luminosa, che porta luce, che sempre dà luce! Una luce che non è sua, ma è il regalo di Dio, è il regalo di Gesù. E noi portiamo questa luce. Se il cristiano spegne questa luce, la sua vita non ha senso: è un cristiano di nome soltanto, che non porta la luce, una vita senza senso. Ma io vorrei domandarvi adesso, come volete vivere voi? Come una lampada accesa o come una lampada spenta? Accesa o spenta? Come volete vivere? [la gente risponde: Accesa!] Lampada accesa! È proprio Dio che ci dà questa luce e noi la diamo agli altri. Lampada accesa! Questa è la vocazione cristiana.


Quella della «lampada accesa» è in effetti una immagine di grande intensità che, prima ancora dei Vangeli, affonda le sue radici nella tradizione dell’Antico Testamento. Il papa, in queste sue parole, ne ha tratto spunto per ricordare ai cristiani la natura e la bellezza della loro missione – finalmente qualcuno che parla della “bellezza” del comportamento umano! –, che è quella di essere accesi e dare la luce.
Come non concordare, in particolare da una prospettiva laica, con questa impostazione che mette da parte secoli di proselitismo e di propaganda e privilegia la funzione della testimonianza e – mi sembra –, anche se non detto esplicitamente, del servizio? Tuttavia a chi ha letto la Commedia dantesca, a chi, come me, attraverso il poema dantesco, ha ricostruito certi aspetti fondanti della cultura medievale resta l’impressione che Papa Francesco avrebbe potuto dire qualcosa di più.
Infatti la cultura medievale e Dante, che ne ha dato la più alta e vigorosa sintesi, manifestano nella lettura della metafora della “lampada accesa” una straordinaria apertura della quale oggi riusciamo ad apprezzare tutta quella forza vitale che forse non sempre è stata vista nella sua pienezza.
Gli intellettuali cristiani del medioevo avevano un problema che noi non abbiamo: come evitare di perdere tutta la ricchezza e bellezza della cultura pagana pur riconoscendo l’insufficienza oggettiva del suo essere pre-cristiana? La soluzione fu trovata in quello che poi Dante, nel Convivio, definì come sovrasenso «allegorico». Attribuire ai testi (a tutti i testi, ma in particolare a quelli dei poeti pagani) un sovrasenso allegorico consentiva di vedervi «una veritade ascosa sotto bella menzogna». Attraverso questa interpretazione, il senso «litterale» dei testi provenienti dall’antichità pagana, che nella visione cristiana era di per sé falso, poteva però essere visto come custodia di una verità; e nulla impediva ai lettori cristiani di cercare legittimamente tale verità negli scrittori pagani.
Questa impostazione, che ha fatto degli intellettuali cristiani medievali – da Agostino a Dante – i più grandi traghettatori della cultura e della letteratura pagana per i secoli successivi e per noi (che saremo loro eternamente grati), è certamente, come ho scritto poco fa, di straordinaria apertura. Ma, bisogna aggiungere, Dante va oltre e compie un passo in avanti decisivo. Il luogo, famosissimo, nel quale egli compie questo passo è il XXII canto del Purgatorio.
Riassumo brevemente la situazione. Nel canto XX Dante e Virgilio, mentre si trovano nella quinta cornice del Purgatorio dove ci si pente del peccato di avarizia, avvertono un terremoto e sentono un grido corale di tutte le anime: “Gloria in excelsis Deo”. Nel canto XXI appare improvvisamente loro un’ombra che li saluta con «Dio vi dea pace» e li accompagna. Quest’anima spiega ai due la ragione di ciò a cui hanno assistito: il Purgatorio è «libero […] da ogni alterazione» che riguardi la terra e tutti i fenomeni che vi accadono sono dovuti alla volontà di Dio; in particolare, la terra vi trema non per ragioni fisiche, ma «quando alcuna anima monda / sentesi, sì che surga o che si mova / per salir su; e tal grido seconda»: il terremoto avviene cioè quando una delle anime che stanno espiando i loro peccati si sente purificata (monda) ed è quindi libera di salire al Cielo; e il “Gloria” accompagna la raggiunta liberazione dell’anima. L’ombra che è apparsa a Dante e Virgilio e che ha chiarito loro ciò che è effettivamente accaduto è proprio l’anima che si è appena liberata. Ma chi è? Virgilio glielo chiede. Senza sapere, a sua volta, chi sia colui che gli pone la domanda, l’ombra rivela di essere il poeta Stazio, dichiara che l’Eneide è stata per lui una potente fonte di ispirazione e conclude: «per esser vivuto di là quando / visse Virgilio, assentirei un sole / più che non deggio al mio uscir di bando». Insomma, Stazio afferma che sarebbe stato disposto ad accettare un anno in più di pene del Purgatorio, se avesse potuto conoscere «di là», sulla terra, Virgilio. Una bestemmia mentre sta per ascendere al Paradiso? No.

Perché quella espressione di Stazio non debba essere considerata una bestemmia lo capiamo nel XXII canto. Qui Virgilio, interpretando anche la curiosità di Dante, chiede infatti a Stazio quando e in che modo era divenuto cristiano e ne riceve una risposta tanto inaspettata quanto importante per capire ciò di cui sto parlando: la posizione degli intellettuali cristiani del medioevo nei confronti del paganesimo. Vale la pena leggere i versi bellissimi con i quali Stazio risponde a Virgilio (Purgatorio, XXII, 64-73):


 […] Tu prima m’invïasti
verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
e prima appresso Dio m’alluminasti.
 Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e se non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte,
 quando dicesti: «Secol si rinnova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenïe discende da ciel nova».
 Per te poeta fui, per te cristiano:
[…].


Virgilio – questo il senso delle parole di Stazio – era stato colui che lo aveva spinto alla poesia (‘a bere nella grotte del Parnaso’, sede delle Muse) e anche colui che lo aveva scortato con la sua luce verso Dio. Virgilio aveva fatto con Stazio come il servo che di notte con la lampada fa luce a chi lo segue, ma non a se stesso. Infatti, pur non essendo cristiano, Virgilio aveva ispirato il cristianesimo a Stazio con i versi della sua IV Egloga nei quali aveva cantato l’avvento di un’età nuova e di una nuova progenie divina («Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit Virgo, redeunt Saturnia regna; / ima nova progenies caelo demittitur alto»). Stazio, per merito di Virgilio, era diventato poeta; ma era anche diventato cristiano. Di conseguenza Stazio deve proprio a lui il fatto di non essere stato dannato e perciò, quando si è detto disposto a un anno in più di Purgatorio se gli fosse stato possibile vivere nello stesso periodo di chi gli ha ispirato la conversione e lo ha spinto a battezzarsi non ha pronunciato una bestemmia, ma ha affermato un principio di eterna gratitudine.

Qui non importa il fatto che la notizia della conversione di Stazio sia storicamente molto poco attendibile. Anzi proprio questo rende ancora più importante il fatto che Dante abbia creato dal nulla questo bellissimo episodio. Se lo ha creato è stato proprio perché aveva bisogno di testimoniare il suo passo in avanti. Non soltanto Dante riconosce a Virgilio la presenza, nella sua Egloga, di una verità (anzi di una profezia, come si credeva nel medioevo) nascosta nei suoi versi inevitabilmente, dolorosamente, falsi; gli riconosce il fatto che quella verità potesse essere “lampada accesa”. Virgilio, pur non cristiano (e perciò destinato eternamente al Limbo), ha portato la “lampada accesa”; l’ha portata dietro di sé, tanto da non poterne vedere egli stesso la luce, ma l’ha portata!
Si tratta di una affermazione di importanza straordinaria. Dante ha reinterpretato la cultura medievale con una lucidità e una ampiezza di orizzonte che gli hanno consentito di trarne delle conseguenze di eccezionale modernità: tra le altre – ecco il grande passo in avanti del quale ho parlato -, quella di riconoscere, lui cristiano, agli altri, ai non cristiani, la possibilità di essere “lampada accesa”. Quando Dante sarà alle soglie del Paradiso terrestre, sulla cima della montagna del Purgatorio, una figura non ancora ben spiegata dalla critica, Matelda, lo accoglierà confermando le parole di Stazio: «Quelli ch’anticamente poetaro / l’età de l’oro e suo stato felice, / forse in Parnaso esto loco sognaro» (Purgatorio, XXVIII, 139-141). Il Parnaso, cioè l’ispirazione poetica, ha consentito ai poeti pagani di superare se stessi come in un sogno, ma, soprattutto, ha consentito loro di essere “lampade accese” pur non essendo, non potendo essere, cristiani. Le verità che essi avevano espresso, pur essendo di necessità nascoste «sotto bella menzogna», erano comunque in grado di fare luce, anzi, di fare quella particolare luce che scorta alla fede in Dio.

Avanti, papa Francesco, è il momento di riprendere Dante e di accettare, anzi di affermare, che un non cristiano può essere anche lui “lampada accesa” e fare luce a cristiani e non cristiani, a credenti e non credenti, insomma a tutti quelli che hanno la volontà di vederla, quella luce: una volontà che rappresenta anch’essa una “bella missione”, perché, se c’è bisogno nel mondo di chi fa luce, c’è anche bisogno di chi è disposto a riceverla.

La Cavalla storna di Giovanni Pascoli

La cavalla storna di Giovanni Pascoli è una poesia di grande interesse e, se non altro per la fama indiscussa della quale ha goduto per molti decenni, merita un posto d’onore nella storia critica di questo poeta.

Il motivo della fortuna che La cavalla storna ha avuto per più di mezzo secolo risiede probabilmente nel fatto che questa poesia possiede un ritmo di cantilena facilmente memorizzabile e quindi ben si adattava a un insegnamento nel quale la “poesia a memoria” costituiva – forse non a torto: ma su questo bisognerebbe scrivere un altro post – uno degli elementi fondanti del programma di italiano di tutti i gradi di scuola. Il ritmo di cantilena, per altro, è dato, più che dagli endecasillabi (una misura di verso per lo più estranea a questo tipo di uso), dalla rima baciata che li lega a due a due dall’inizio alla fine.
Il motivo della sua dimenticanza è forse lo stesso, dato che nel secondo Novecento si è manifestata da parte della critica una maggiore predilezione per le poesie pascoliane di più rilevante impegno sperimentale proprio sul piano del ritmo e del metro.
Eppure, anche in questo testo, mi sembra, il metro è usato in maniera tutt’altro che tradizionale e credo che un criterio meno pregiudiziale di lettura avrebbe indotto anche i critici più amanti della sperimentazione ad analisi più attente e avrebbe evitato condanne sommarie. La cavalla storna, infatti, nonostante la sosta obbligata alla fine di ogni coppia di versi, si rivela, per quanto riguarda il ritmo, una sorta di ripido tragitto in discesa che conduce il lettore dalla “Torre” del primo verso, in una corsa quasi a perdifiato, fino alla vera e propria “rivelazione” dell’ultimo verso: la conferma, attraverso il nitrito della cavalla, di un nome, quello dell’assassino del padre del poeta.
Quest’ultimo, Ruggero Pascoli, era stato ucciso nel 1867 proprio a causa di interessi legati all’amministrazione della tenuta della Torre, di quella “Torre”: lo sapevano tutti e probabilmente tutti sapevano – ma, per omertà, non dicevano – chi era il mandante dell’omicidio che aveva incaricato uno o due sicari e che poi, comunque, era prudentemente emigrato in America. Giustizia, perciò, non era mai stata fatta.
Questa poesia, uscita nell’edizione del Canti di Castelvecchio del 1903, quindi quasi quarant’anni dopo quel tragico evento, costituisce a suo modo, e proprio per il ritmo che la lega tutta in un unico respiro, un atto d’accusa reso con assoluta precisione nell’immagine del penultimo verso: «Mia madre alzò nel gran silenzio un dito». Essa trasforma l’evento privato in un canto epico: tanto è vero che Giuseppe Nava ha evidenziato nel testo indubitabili richiami virgiliani e omerici.
Insomma, La cavalla storna è una poesia che vale la pena di rileggere e, magari – lo consiglio di tutto cuore -, di rileggere a voce alta. In ogni caso è bene vederne anche lo straordinario manoscritto che non esito a definire “multimediale” e che pubblico qui sotto.

Giovanni Pascoli, La cavalla storna (da: Canti di Castelvecchio, 1903)


Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.
Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;
che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.
Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,
tu dài retta alla sua piccola mano.
Tu ch’hai nel cuore la marina brulla,
tu dài retta alla sua voce fanciulla”.
La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte.
O nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:
adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l’agonia…”
La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.
Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:
lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole”.
Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbracciò su la criniera
“O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!
a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona… Ma parlar non sai!
Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come”.
Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.
La paglia non battean con l’unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.
Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome… Sonò alto un nitrito.


Il suono e il senso nel testo poetico:
due esempi di un contrasto inestinguibile

Alla sera di Ugo Foscolo e A sé stesso di Giacomo Leopardi

Sosteneva un mio alunno, niente meno negli anni Settanta del secolo scorso (io allora ero un giovane insegnante; lui ora è un medico affermato), che la diversità della poesia dalla prosa dipende dal fatto che «i poeti vanno a capo quanno je pare». Cito spesso questa sua affermazione perché è assolutamente vera.
Questo andare a capo non perché il foglio di carta impedisce di proseguire oltre, ma perché si decide di farlo è, in effetti, il marchio della poesia: i versi possiamo ben definirli come le righe che hanno la lunghezza decisa chi le scrive e non quella casualmente determinata dalla misura del foglio (e nemmeno da quella – sia chiaro – di un supporto digitale: per esempio dello schermo sul quale siete intenti a leggere questo mio intervento). I versi potranno essere di poche sillabe – anche di una, sia pure in rari casi – o di moltissime, come nell’Urlo di Allen Ginsberg; potranno essere racchiusi all’interno di una tradizione (che offre per altro un’ampia libertà di opzioni) o, diversamente, potranno essere composti con scelte di ritmo non legate alla tradizione ma direttamente dipendenti dall’ispirazione personale del poeta; tuttavia, quando finiscono, proprio con quel loro finire, vogliono dire qualche cosa. Il poeta che li fa finire a un certo punto li fa finire lì per una ragione precisa. Altrimenti non è un poeta, ma un più o meno rispettabile versificatore della domenica.
Ora, ciò che i versi vogliono dire con il suono specifico che assumono perché finiscono proprio a un certo punto è indipendente, ma perciò stesso necessariamente in contrasto rispetto al senso che lo stesso testo avrebbe avuto se fosse stato scritto senza quelle decisioni di andare a capo. Ho ricordato in un altro mio saggio (pubblicato sulla rivista on line Chaos e Kosmos) quanto affermato da Giorgio Agamben: «in ogni enunciato poetico […] il discorrere della lingua in direzione del senso è come percorso in controcanto da un altro discorso, che va dall’intelligenza alla parola, senza che nessuno dei due compia mai il suo intero tragitto per riposarsi l’uno nella prosa e l’altro nel puro suono». (La fine del poema, in Categorie italiane, Laterza, 2010). E d’altro canto, come ricorda lo stesso Agamben, Paul Valéry non aveva forse visto nella poesia una «hésitation prolongée entre le son et le sens»?
La fine del verso viene spesso sottolineata da un richiamo sonoro. Nella tradizione, il più frequente di questi richiami è la rima, ma il più speciale (tra qualche riga capirete perché) è l’enjambement: questa particolarissima figura di ritmo consiste nel fatto che la sospensione del suono determinata dalla fine del verso interrompe il normale, disteso e unitario fluire di un sintagma; in questo caso il richiamo sonoro della fine del verso esalta in modo particolare il contrasto con il senso: il suono e il senso, in quell’a capo, lottano fisicamente tra di loro, si potrebbe dire che si prendono a pugni e impegnano di conseguenza in modo straordinario la coscienza e l’intelligenza del fruitore del testo poetico. Lo stesso Agamben scrive: «La consapevolezza dell’importanza di questa opposizione della segmentazione metrica a quella semantica ha condotto alcuni studiosi a enunciare la tesi (da me condivisa) secondo cui la possibilità dell’enjambement costituisce il solo criterio che permette di distinguere la poesia dalla prosa. Poiché che cos’è l’enjambement, se non l’opposizione di un limite metrico a un limite sintattico, di una pausa prosodica a una pausa semantica? Si dirà, dunque, poetico il discorso in cui questa opposizione è, almeno virtualmente, possibile, prosaico quello in cui essa non può aver luogo». (Corn, in Categorie italiane, Laterza, 2010). Ecco perché scrivevo poco fa che l’enjambement è il più speciale di tutti i richiami sonori. Ed ecco anche perché quel mio vecchio alunno aveva assolutamente ragione.

Cerco di spiegare subito, con due esempi, quanto ho appena scritto. Ecco due poesie che certamente avete già lette e che vi prego di leggere, questa volta, a voce alta:

Ugo Foscolo
Alla sera


 Forse perché della fatal quïete
tu sei l’immago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
 e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
 Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
 delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.


Giacomo Leopardi
A se stesso


Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, nè di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.


Se avete seguito la mia indicazione di leggere a voce alta, avete certamente avvertito dalla vostra stessa voce, l’importanza che assumono in queste poesie i richiami sonori delle rime e, soprattutto, degli enjambements.
Per quanto riguarda il cenno d’intesa – l’occhiolino, verrebbe da dire – che ciascuna parola in rima fa all’altra, è inutile sottolineare che si tratta, appunto, di un cenno d’intesa: «orme», «torme» e «dorme» non hanno nessun legame di senso, ma il suono le mette insieme, contribuisce, persino, a farcele ricordare in questa sequenza. Il poeta mette in mostra gli attrezzi del suo mestiere. Anche tra «sento» e «spento», tra «Dispera» e «impera» non c’è legame di senso, ma il suono ce le avvicina in modo ‘volutamente disordinato’ (e quindi senza nessun contributo alla memorizzazione del testo), perché questa è una stanza di canzone libera leopardiana: i versi hanno ancora misure tradizionali (sono settenari ed endecasillabi) ma il ritmo della stanza scorre secondo una misura dettata dalla ispirazione del poeta e non dalla tradizione, che pure – non bisogna dimenticarlo – fa parte di quella ispirazione.
Ma veniamo agli enjambements, ai numerosi enjambements. Ogni volta che noi leggiamo «fugge / questo reo tempo» o «dorme / quello spirto guerrier», o «Assai / palpitasti» o «Omai disprezza / te, la natura, il brutto / poter», e in tutte le altre situazioni analoghe, la fine del verso ci costringe a fermarci. A fermarci, sì, sia pure per poco, ma la fine del verso è una svolta: bisogna affrontarla come si farebbe se si andasse in macchina e ci si trovasse davanti a un tornante; guai a non rallentare, si rischia di finire in una scarpata. Ebbene, ogni volta che noi ci fermiamo per affrontare il tornante costituito dal passaggio tra la fine di un verso e l’inizio di quello successivo, se c’è un enjambement, noi, sia pure per un attimo, non abbiamo certezze sul senso di ciò che verrà dopo. Se c’è un enjambement il tornante si rivela di quelli da capogiro nei quali, prima di svoltare, si vede solo il vuoto. Attenzione!
Prendiamo gli esempi che ho citati dalla poesia Alla sera. Alla fine di un verso leggiamo una terza persona del verbo («fugge», «dorme»). Ora, mentre affrontiamo il tornante, aspettiamo di sapere qual è questa persona, quello che nell’analisi sintattica chiamiamo il soggetto del verbo. Potrebbe essere chiunque: in quella frazione di tempo nella quale ci prepariamo a curvare, noi, se siamo individui pensanti, non possiamo non porci una domanda, non azzardare un’ipotesi. Il suono, anzi, il silenzio che fa parte di quel suono squaderna davanti alla nostra incertezza tutti i suoi dissapori con il senso. Solo dopo che abbiamo compiuto la svolta, la nostra coscienza, che era rimasta vigile e ci aveva fatto trattenere il respiro (la «hésitation prolongée entre le son et le sens» della quale parla Paul Valéry), si placa. Solo dopo che abbiamo compiuto la svolta, la lotta si rivela un modo per attrarre la nostra attenzione, come quando due bambini improvvisamente cominciano a bisticciare davanti ai propri genitori in un pomeriggio troppo tranquillo. «Ci siamo anche noi: che, ve ne siete dimenticati?» ecco quello che vogliono dire.
Ancora più complesso, nella poesia A sé stesso, il caso di «Omai disprezza / te, la natura, il brutto / poter» etc.: che cosa succede esattamente? Perché Leopardi è andato a capo a questo punto.
Qui la fine del verso, al tempo stesso, raddoppia il dubbio e lo risolve. Quando leggiamo «disprezza» non sappiamo neppure se questa forma è la seconda o la terza persona del verbo. Fermarci ci fa disperare, aspettiamo con ansia di sapere che cosa sta succedendo in quel ring dove lottano il suono e il senso: ma, proprio per questo, non dobbiamo affrettare il passo: dobbiamo invece rallentare ancora di più, come all’inizio di un tornante particolarmente scosceso o senza nessun riparo dallo strapiombo. Infine, quando la «hésitation» è diventata quasi un’apnea, arriviamo al «te» del verso successivo. Ma, effettuata la svolta, il nostro disorientamento è al massimo, continuiamo a vedere solo il vuoto: ora conosciamo il complemento oggetto di «disprezza»; ma il soggetto? qual è il soggetto, diamine?
Ho scritto che la fine del verso qui raddoppia il dubbio, ma anche che lo risolve. Sì, perché mentre leggiamo, in fine di verso (e dunque ci fermiamo), «Omai disprezza», ri-sentiamo nelle nostre orecchie, sia pure rovesciato come in una immagine speculare, un suono che abbiamo ascoltato qualche verso prima, questa volta all’inizio: «T’acqueta omai». Questa sorta di eco al contrario ci fa capire che il poeta si rivolge a se stesso (il soggetto di «disprezza» è ‘tu’; e «disprezza» è, dunque, un imperativo) e che l’acquietarsi e il disprezzare, congiunti dal suono dell’«omai» come da una catena, sono una cosa sola: l’ «omai disprezza / te» è spiegato dal «T’acqueta omai» e, a sua volta, gli dà completezza attraverso un ulteriore, raffinatissimo e raro richiamo sonoro: lo straordinario rispondersi in posizione chiastica (cioè incrociata, di “eco al contrario”, come ho scritto poco fa), da una parte, dell’assonanza tra le vocali ‘e’ e ‘a’ delle ultime due sillabe di «disprezza» e «acqueta» e, dall’altra, dell’«omai».
È un turbine: il suono e il senso si trovano in un turbine, o meglio lo provocano con la loro lotta, ma noi usciamo da quel turbine con una coscienza – e dunque con una comprensione – più radicata e più piena, di ciò che abbiamo letto, arriviamo – per parafrasare un verso di Esiodo – al «disvelamento del vero significato» di ciò che abbiamo pronunciato e ci arriviamo proprio attraverso il nostro essere presi da quel turbine; il suono della nostra voce ha attivato il «contatto» che ci trasforma, che cambia la nostra stessa coscienza.

La fine del verso comporta dunque per chi legge, ogni volta, una scelta e persino una assunzione di responsabilità: come continuare? Ogni volta il senso non è scontato, siamo noi a doverlo dare. Se il poeta decide lui quando far finire la riga, il lettore, dopo quella fine, prende a sua volta, nel silenzio che segue ogni riga, una decisione e diventa co-autore del testo poetico che legge. Se legge (o ascolta qualcuno che legge) a voce alta, naturalmente.