Fermate di città: La riva

Ogni volta che mi trovo a Trieste, appena dalla stazione arrivo alle vie del centro e, da qui, alla riva che si affaccia sul mare, provo una fortissima emozione di infinito: una emozione che si incontra – e si scontra e, infine, viene sopraffatta da – una altrettanto forte emozione di finito.
La prima volta che ci sono stato (circa un quarto di secolo fa), imbevuto delle mie letture di poeti e scrittori triestini, avevo in mente soltanto di cercare le testimonianze della loro presenza. E, in effetti, le mie passeggiate sono cominciate con quello scopo: via San Nicolò e la Libreria Antiquaria di Umberto Saba erano la prima meta che volevo raggiungere appena sceso dal treno. Ma, prima di mettermi in cammino, non avevo fatto i conti con le emozioni di cui ho parlato qui sopra.

Invece, dopo aver girato a sinistra da via Roma per via San Nicolò, per caso mi sono voltato indietro e mi sono accorto che quella via, il cui inizio si trovava a circa duecento metri rispetto all’incrocio da dove ero arrivato, dalla parte opposta sembrava non avere fine. Per quello che ne sapevo (e che avevo controllato sulle cartine) non doveva essere una via tanto lunga.
Era già buio. Qualcuno stava abbassando la saracinesca della Liberia Antiquaria. Era il momento di andare in albergo.
Il giorno dopo la curiosità di percorrere verso il mare quella via che sembrava non avere fine è stata più forte di quella di entrare nella Libreria di Saba (dove, comunque, mi sono fermato il pomeriggio). Sono andato subito verso la riva. È stato lì, è stato davanti a una delle bitte da ormeggio (le «colonnine dei moli», come le chiama Giani Stuparich quando, nel suo racconto Un anno di scuola [1] accenna ai salti su quelle «colonnine» come a uno dei passatempi degli studenti del liceo “Dante”) che ho avvertito quelle emozioni contrastanti: è stato lì che ho conosciuto Trieste, prima ancora di percorrerla dal centro fino alle colline.
La poesia La riva l’ho scritta la sera di quello stesso giorno e l’ho pubblicata, parecchi anni dopo, quasi senza modifiche.

Quando, pochi giorni fa, sono tornato ancora una volta a Trieste, anche quelle emozioni sono tornate. Questa volta, in più, c’era Roberta, mia moglie, accanto a me a condividerle. È stato bellissimo.

Michele Tortorici, La riva, da: Viaggio all’osteria della terra (Manni, 2012)


La riva

Nella mattina di questo tredici di gennaio che nessuno aspettava
assolato − e invece inopinatamente
lo è − strade e piazze qui, e via San Nicolò prima di tutte, pare
che siano deliberate a incamminarsi verso dove possano
farsi inghiottire
dal mare, come dalle balene − o da altri grandi animali marini, non è
chiaro − sono stati inghiottiti, se stai a quello che si legge, profeti
e falegnami e burattini.

O piuttosto strade e piazze qui, e via San Nicolò prima di tutte, devo
pensare che siano immancabilmente tutti i giorni – non solamente
oggi, né solamente perché
è assolato questo tredici di gennaio – pronte
a offrirsi con temerarietà a una bocca
come di balena – o di altro grande animale marino. Via, lo capisci
appena le vedi che giocano strade e piazze qui per abitudine
d’azzardo. Puntano, senza nemmeno pensarci, sulla possibilità
che da quella bocca poi si possa uscire in qualche modo, puntano
sulla possibilità che il venir meno agli occhi sia un morire, sì, ma solo
per un po’, che poi si possa vivere di nuovo
come è accaduto, infatti, se stai a quello che si legge, a profeti
e falegnami e burattini. Per questo strade e piazze
qui si piegano per scendere
sulla riva a curiosare in tutte le incostanze possibili che il mare,
per sua natura, specchia del divenire.

La riva, dunque. Tutto − la partita, l’azzardo, le puntate − si gioca
in quel transito così sottile che la sera non lo vedi neppure
più sotto la riga di fari gialli disposti di traverso
al cielo nero: puoi soltanto immaginare tu,
la sera qui, che quel venire meno agli occhi, quel morire
di strade e piazze sia
cercare il mare e penetrarvi come in una bocca
di balena – o di altro grande animale marino.

La riva, dunque. La riva, lo capisci
appena la vedi che è sorella a te nella ricerca
di mortalità, che non gioca e non punta lei, che assiste a quel piegarsi
al mare di strade e piazze, lei, senza illusioni. La riva
lo sa che in quell’azzardo
il divenire le puntate le vince tutte lui: basta aspettare.

E lei, la riva, è qui che aspetta, appunto. Ci saranno
ancora – chissà – da qualche parte le colonnine dove i liceali
del “Dante” saltavano e ci saranno da ogni parte altri
segni − di sicuro − che il tempo ha sprofondati nelle lastre
di pietra che calpesti.

La riva è qui che aspetta, la conosce
la bocca come di balena dalla quale
strade e piazze qui, e via San Nicolò prima di tutte, pare
che siano deliberate
a farsi inghiottire. Conosce, la riva, le balene
dei tuoi sogni, dei tuoi libri e delle tue meraviglie; conosce bene
il nulla anche se provvisoriamente
ne emerge. E non gioca e non punta lei. È qui che aspetta, lo capisci
appena la vedi che è sorella a te nella ricerca
di mortalità.


[1] L’anno di scuola al quale si riferisce il racconto, pubblicato nel 1929, è il 1909/1910.

Fermate di città: La piazza rosa

Come promesso, continuo con la pubblicazione su questo blog di versi che ho scritto a proposito di città che ho via via incontrato nella mia vita.
Tra queste, Bologna mi è particolarmente cara: sia perché i momenti di lavoro che vi ho trascorso sono stati particolarmente belli e – come forse non si dice più – soddisfacenti; sia perché vi ho presentato spesso i miei versi (spesso aiutato da straordinari compagni di lettura) e ogni volta ho avvertito una intensa partecipazione emotiva del pubblico.
A questo si aggiunge che a Bologna si trovano amiche e amici carissimi, di quelli che vedi raramente e che, ogni volta, è come se li avessi lasciati il giorno prima.
Tutto questo non basta? E va bene: a Bologna ho mangiato alcuni dei piatti  più buoni della mia vita, in particolare, oltre a quelli serviti in tanti ristoranti e trattorie, quelli cucinati dalla mamma di Laura, una delle amiche del gruppo che ho appena detto.
Infine, perché non dirlo? Bologna mi è cara per la sua bellezza: qualche anno fa, quando i suoi portici sono stati dichiarati patrimonio mondiale dell’Unesco ho pubblicato su queste pagine la poesia intitolata, appunto, Sotto i portici, che avevo scritto parecchio tempo prima (senza aspettare l’Unesco): la trovate qui.
Per tutto questo, la pubblicazione qui di questi miei versi, mentre Bologna si riprende dopo l’alluvione che l’ha invasa, va considerata come una carezza a una persona alla quale si vuol bene.

Michele Tortorici, La piazza rosa, da: La mente irretita (Manni, 2008)


La piazza rosa

Piazza San Petronio a Bologna

Nella piazza rosa attraversata
dal suono di una piccola band con il suo jazz
d’annata che si spande
e suscita ogni tanto brevi applausi
filtrano pochi raggi che la fanno
infinita e le pietre grezze lentamente
si accendono di universi che non vedi.

Angeli affaticati vestono forse forme
d’uomini e non sai
riconoscere il divino e l’umano che il selciato
umido trattiene disegnando
orme d’ansia, impronte
di un comune vagare senza meta
un po’ per gioco, un poco
per cercare ombre di senso mentre imbrunisce
il rosa e si fa buio
e la notte incomincia e sai che deve
durare ancora, fare
vivere nuovi angeli e insieme vecchi
demoni fino alla fine che non giunge
aspettata mai e si improvvisa nuovo giorno.

Sono dunque sensi umani
– mani, braccia, sudori
sonno, stanchezza, desiderio –
tracce di quel divino che la piazza
rosa accoglie e dimentica e trascorre
tra suoni e colori nel momento che le pietre
grezze imbeve e riconosce
già sentite tormentate eccitazioni. Sono
dunque sensi umani – miei sensi, sensi di altri,
sguardi, passi – confini vivi
misure delle cose. Sono, siamo
un universo che ci fa
vivere tutti i giorni come uomini.


Inutile aggiungere che le città delle quali voglio parlarvi con i miei versi sono molte. Aspettatevi altre “fermate”.

Fermate di città

Ho scritto la poesia Fermate di città poco più di venticinque anni fa. Non considero mai importante il contesto biografico nel quale nasce un testo poetico, ma posso aggiungere, per soddisfare la curiosità di qualcuno dei circa venticinque lettori di questo blog, che allora facevo il pendolare tra Velletri e Roma e che la quantità di tempo che passavo sui mezzi pubblici costituiva una parte consistente della mia vita. È trascorso, dunque, poco più di un quarto di secolo, non faccio più il pendolare, ma  le cose che ho scritto allora in questa poesia a proposito del tempo passato sui mezzi pubblici di Roma mi rappresentano ancora perfettamente.

Fermate di città è stata pubblicata nella raccolta La mente irretita, pubblicata da Manni nel 2008 e il suo titolo è diventato anche il titolo di una sezione di quel libro nel quale erano riunite le poesie dedicate ad alcune città che avevo attraversato per un tempo più o meno lungo. Ecco, ora mi è venuto in mente di pubblicare su questo blog, dopo un lungo silenzio, alcune delle poesie che, in quella raccolta e in altre, ho dedicato alle città. Inutile dire che non potevo avviare questo nuovo percorso del blog se non con quei versi scritti poco più di un quarto di secolo fa. Eccoli, qui sotto.


Michele Tortorici

Fermate di città (da La mente irretita, Manni, 2008)

È un grano della mia quotidiana
stanchezza questo salire sull’autobus e aspettare
in piedi senza occhi, stretto
dalla calca, fermate di città e sentire scorrere
il selciato come pensieri logorati dal continuo
ritornare e poi da una memoria che li lega e così
li trattiene al di qua della possibile
dissipazione. Un poco sarà la quotidiana
routine di attraversare
posti sconosciuti, riconoscibili
però dai segni sempre uguali che ritrovo, sarà
il richiamo del sempre uguale tempo che separa
luoghi e luoghi e cieli visti
attraverso pareti di palazzi con le loro spie
di intonaco malato e di ringhiere
arrugginite, ma queste fermate di città
perseveranti, ogni giorno
ripetute, sono i confini
che conosco, i contorni della mappa che mi sono
costruita e che percorro
come – ricordo – le caselle
numerate della campana con i segni
di gesso tracciati sul marciapiedi e le ragazzine
che li saltavano. Sono – queste fermate – le pareti
che ritrovo anche al buio, la mia casa che si slarga
fino a qui, fino – ogni volta –
a un riconoscimento di me,
piuttosto che per chi o per come, per dove
mi trovo. Mi trovo
lungo piccole strade, binari
stretti da strisce gialle e mi attraversano
piccoli eventi che non saprei neppure
dire quando sono accaduti e chi c’era e chi
era passato prima ed era già altrove perché tutti
coloro che ho visto non ho mai saputo
chi erano. Sarà proprio per questo che ogni giorno
alle fermate riconosco
ciò che ritorna e ciò che passa e ombre e luci
e la città diventa mia.


Come al solito, e come è chiaramente detto nel saluto ai lettori di questo blog, non sarò un fulmine, ma, vi assicuro, tornerò presto con altri versi su altre città.

L’ultima àncora

Cinque favole di vita quotidiana e tre cronache sulla «bomba»

Esce oggi il mio nuovo libro di poesie.


Lo presento qui sotto con il testo che compare sul risvolto anteriore della copertina, risvolto nel quale, in modo certo non usuale, è l’editore stesso a raccontare la storia del libro, da quando gli ho presentato il progetto, che conteneva solo la prima parte, le Cinque favole di vita quotidiana, fino a quando è stato effettivamente realizzato con una seconda parte intitolata Tre cronache sulla “bomba”: e nessuno può dubitare di che bomba si tratti né dell’urgenza che mi ha spinto (si potrebbe dire costretto) ad aggiungere questi nuovi versi.
Un’urgenza tale che già il 30 aprile scorso ho deciso di pubblicare su questo blog (qui), mentre era ancora inedita, la poesia che costituisce ora la prima delle Tre cronache.

Ecco dunque che cosa racconta l’editore nel breve spazio del risvolto di copertina.

 


Questo libro stava per nascere come una raccolta di favole in versi, favole un po’ speciali, così come spiega ai lettori una breve premessa con le Istruzioni per l’uso.
Sono, infatti, favole che
«[…] non raccontano
malefici di streghe o crudeltà
di orchi che mangiano bambini, non trattano
di principi né di principesse e nemmeno
di animali fantastici o parlanti […].
Sono favole, insomma, «di vita quotidiana». Le Istruzioni per l’uso precisano:
«[…] ciò che raccontano,
magari, qualche volta, così come diceva
una canzone un po’ di tempo fa,
sarà capitato anche a voi».

Questo libro stava per nascere come una raccolta di favole in versi e basta. Favole, cioè racconti d’immaginazione, con al centro un argomento che all’autore sta molto a cuore: il tempo. Anzi, il tempo e i tempi, tanto è vero che l’ultima favola si intitola Il presente, il passato e il futuro.

Ma, a un certo punto, è arrivata la guerra. Qualcuno, dopo decenni, ha ricominciato a parlare concretamente di “bomba”, di quella “bomba”: sul tempo e sui tempi le favole non sono bastate più; ormai si trattava di cronaca. È nata così la seconda parte del libro, nella quale l’autore si dichiara pessimista:

«Pessimista? Sì, pessimista. Avviluppato,
però, in un groviglio dentro al quale
posso pensare
di scrivere parole sulla fine
con l’illusione che non finiranno».

L’editore non ha potuto che accompagnare il divenire dell’ispirazione dell’autore e, oggi, non può che condividere la sua «illusione», nel momento in cui consegna al lettore questo libro sul tempo e sui tempi: L’ultima àncora.


Da oggi il libro si può acquistare nelle librerie fisiche (con un ordine che verrà evaso più o meno in una settimana) e in quelle online. Meglio ancora se lo si acquista nella libreria dell’editore, a Roma, in via S. Francesco a Ripa 67 (dove, ovviamente, l’ordine verrà evaso sul momento), o sul suo sito, qui.
In un post che compie tra qualche giorno dieci anni (qui) invitavo i miei lettori a regalare per Natale un libro di poesia. Allora mi affrettavo a precisare che non parlavo soltanto dei miei libri. Qui vorrei suggerirvi di regalare per Natale ai vostri amici proprio questo mio libro: si tratta, infatti, di un libro che mi sento di definire “urgente”.

Salvare i libri

Oggi, nell’anniversario delle Bücherverbrennungen, i roghi di libri avvenuti la notte del 10 maggio 1933 a Berlino e nelle principali città della Germania, l’Associazione italiana Biblioteche ha promosso la manifestazione “Libri salvati”.

Partecipo con tutto il cuore a questa manifestazione perché il ricordo di quell’orrore della storia europea è diventato col tempo un pezzo della mia storia personale. Come credo sia un pezzo della storia personale di chiunque lavori con le parole.

Ecco dunque alcuni dei miei versi che rappresentano, mettono in scena – potrei dire –, il mio rapporto con i roghi dei libri.

Nel maggio di qualche anno fa, sconvolto da un grande dolore familiare, ho scritto la poesia che trascrivo in parte qui sotto e che è spiegata dall’esergo con la citazione di Calvino.

Michele Tortorici, Non sono bravo a fare lo sputafuoco, (da Il cuore in tasca, Manni, 2018)


La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile,
alla cosa assente, alla cosa desiderata o temuta,
come un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto.
Italo Calvino, Lezioni americane, 3 – Esattezza

Ho ricominciato: ho scritto, dunque, anche se ci sono volte – parlo
con cognizione di causa: ricordo, ecco, un giorno (il sette)
del mese di maggio del duemila e tredici –,
ci sono volte che le parole non vorreste proprio che uscissero
dalla vostra testa. A me è capitato
mica tante volte: poche. Però ricordo, ecco, quel giorno e i giorni
che l’hanno seguito: io volevo essere
allora uno sputafuoco, uno di quelli che davanti
ai tendoni del circo attirano il pubblico. Volevo sputare
una bella fiammata e ridurre le parole
che sarebbero dovute uscire
dalla mia testa, voom, in cenere. Perché da lì, dalla bocca
escono le parole che si trovano nella testa quando vogliamo che altri
le conoscano: in latino si diceva edere, ex dare, dar fuori
dalla bocca, appunto.
[…] Una fiammata, una bella
fiammata e tutte le parole che cercano
di uscire dalla testa attraverso la bocca ridotte,
voom, in cenere. Questo
desideravo quando, come vi ho detto, mi è capitato di volere essere
uno sputafuoco.

Non è giusto,
mi sono detto tuttavia e continuo a dirmi e dico a voi,
non è giusto
mai avercela
con le parole. Che colpa ne hanno? Bisogna saperlo, e difatti
l’ho sempre saputo, che le parole sono fragili ponti
di fortuna – ma che dico fragili, fragilissimi: perciò
da me prediletti – dove
passa la vita ed è necessario che passi anche la morte.

Non è giusto,
mi sono detto tuttavia e continuo a dirmi e dico a voi,
non è giusto
mai avercela
con le parole. E allora? Niente sputafuoco: mi è capitato
di volerlo essere, va bene, ma poi, basta! Niente fiamme, niente
cenere. Ho ricominciato, allora. Continuo
a costruire, come avevo fatto prima
di quel giorno di maggio, come avevo fatto sempre, nuovi fragili ponti
di fortuna. Continuo
a percorrere il mondo lungo queste vie sospese
sul vuoto: vie che però conosco bene; vie,
l’ho sempre saputo, dove
passa la vita ed è necessario
che passi anche la morte. Ho ricominciato. Che altro
avrei potuto fare? Non sono bravo
– sapete? –, non sono bravo per niente a fare lo sputafuoco.


Subito dopo, poiché mi sono reso conto dell’equivoco che quei miei versi potevano far sorgere, ho scritto quest’altra poesia

Michele Tortorici, Devo chiarire, (da Il cuore in tasca, Manni, 2018)


Devo chiarire,
a proposito del fatto che, come sputafuoco, avrei voluto
incenerire parole,
devo chiarire
che mi riferivo alle parole che stavano ancora dentro
alla mia testa, alle parole che se ne stavano
belle tranquille, ancora tutte rannicchiate lì: parole private, insomma,
di mia stretta – intima, direi – proprietà; niente di pubblico.

Devo chiarire
che non mi piace proprio, in generale, bruciare le parole. Perché,
a voi piace? C’è sempre il rischio
– a questo ho pensato solo dopo avere scritto
la poesia sullo sputafuoco –
c’è sempre il rischio che qualcuno vi prenda sul serio
che non capisca, che non disgiunga
il senso metaforico di quel bruciare
da quello letterale o, peggio, che non voglia vedere
la differenza tra il privato e il pubblico. C’è sempre il rischio
che qualcuno dica: «Ecco,
quello lì voleva fare un bel fuoco
con le parole che non gli erano ancora uscite
dalla testa e io voglio farlo
con le parole che sono uscite dalla testa di uno
che a me non piace. Perché
lui sì e io no?». Ce ne sono, statemi a sentire, di quelli
che non perderebbero un minuto se qualcuno
gli desse il la. Ce ne sono, statemi a sentire, di quelli
che non aspettano altro per fare, voom, un falò
– uno di quelli veri, e senza neppure
la virtù circense di uno sputafuoco –
delle parole di qualcuno
che non gli piace. Parole pubbliche, edite:
ricordate? edere, ex dare, dare fuori. Libri, ecco.

Devo chiarire
che non dimentico, che non riesco
– sapete? – a dimenticare i versi di Heine:
«Dort, wo man Bücher /
Verbrennt, verbrennt man auch am Ende Menschen».
Primo atto dell’Almansor.
«Là dove i libri /
si bruciano, si bruciano alla fine pure le persone».

Devo chiarire
che certe parole non le dimentico. Altro che bruciarle.


I versi di Heine che ho appena citati sono ora incisi in una iscrizione che sulla Opernplatz (oggi, ufficialmente, Bebelplatz, ma i berlinesi continuano a chiamarla come prima) precede e segue il Denkmal zur Erinnerung an die Bücherverbrennung realizzato nel 1995 da Micha Ullman: semplicemente una voragine le cui pareti sono ricoperte da scaffali vuoti.

Ecco, qui di seguito, i nomi degli autori i cui libri furono bruciati quel giorno:
Albert Einstein, Alexander Lernet-Holenia, Alfred Döblin, Alfred Kerr, Alfred Polgar, André Gide, Anna Seghers, Arnold Zweig, Arthur Schnitzler, Bertha von Suttner, Bertolt Brecht, Carl Sternheim, Carl von Ossietzky, Charles Darwin, Egon Erwin Kisch, Émile Zola, Erich Kästner, Erich Maria Remarque, Ernest Hemingway, Ernst Bloch, Ernst Erich Noth, Ernst Glaser, Ernst Toller, Erwin Piscator, Eugen Relgis, Felix Salten, Franz Kafka, Franz Werfel, Friedrich Engels, Friedrich Wilhelm Foerster, Georg Kaiser, Georg Lukács, George Grosz, Grete Weiskopf, H. G. Wells, Heinrich Eduard Jacob, Heinrich Heine, Heinrich Mann, Helen Keller, Henri Barbusse, Hermann Hesse, Ilja Ehrenburg, Isaak Babel, Iwan Goll, Jack London, Jakob Wassermann, James Joyce, Jaroslav Ha?ek, Joachim Ringelnatz, John Dos Passos, Joseph Roth, Karl Kraus, Karl Liebknecht, Karl Marx, Klaus Mann, Kurt Tucholsky, Lev Trockij, Leonhard Frank, Lion Feuchtwanger, Ludwig Marcuse, Ludwig Renn, Ludwig von Mises, Maksim Gor’kij, Marcel Proust, Marieluise Fleißer, Max Brod, Nelly Sachs, Ödön von Horváth, Otto Dix, Robert Musil, Romain Rolland, Rosa Luxemburg, Sigmund Freud, Stefan Zweig, Theodor Lessing, Thomas Mann, Upton Sinclair, Vladimir Lenin, Vladimir Majakovskij, Walter Benjamin, Werner Hegemann.

Vorrei concludere questo mio post con la citazione di poche parole di Thomas Mann (uno degli autori i cui libri furono, appunto, bruciati nella notte del 10 maggio del 1933) che mi sembrano attualissime. Già, perché il vero problema, quando qualcuno brucia dei libri, non è tanto il fatto che  li abbia bruciati, di per sé terrificante: il vero problema è ma il criterio con il quale vengono scelti i libri da bruciare; un criterio la cui definizione è, se possibile, ancora più terrificante.

In una discussione tra due dei personaggi simbolo de La montagna magica, Ludovico Settembrini e Leo Naphta, il secondo a un certo punto afferma: «[…] l’autorità è l’uomo, il suo interesse, la sua dignità, la sua salvezza, e tra questa autorità e la veritànon può esserci conflitto. Esse coincidono». Ed ecco la risposta:

«Sie lehren da einen Pragmatismus – erwiderte Settembrini – den Sie nur ins Politische zu übertragen brauchen, um seiner ganzen Verderblichkeit ansichtig zu werden. Gut, wahr und gerecht ist, was dem Staate frommt. Sein Heil, seine Würde, seine Macht ist das Kriterium des Sittlichen. Schön! Damit ist iedem Verbrechen Tür und Tor geöffnet un die menschliche Wahrheit, die individuelle Gerechtigkeit, die Demokratie – sie mögen sehen, wo sie bleiben …»

«Lei sta predicando un pragmatismo» rispose Settembrini «che basta trasporre sul piano politico per coglierne appieno la natura nefasta. È buono, vero e giusto soltanto ciò che giova allo Stato. La sua salvezza, la sua dignità, la sua potenza sono i criteri della morale. Ebbene! Con ciò si spalanca la porta a ogni crimine, e la verità umana, la giustizia individuale, la democrazia …, può ben vedere dove vanno a finire …»

 

 

Il mio nuovo romanzo:
Una confessione spontanea

Odetta alle prese con un omicidio: una sofferta ricerca e la scoperta del male.
Scelto come libro del mese di ottobre 2018 dalla piattaforma web di notizie EzRome

Odetta, protagonista anche del del mio precedente romanzo, Due perfetti sconosciuti, riesce, dopo parecchio tempo, a godersi un fine settimana più lungo del solito nella sua casetta al Circeo: un’oasi di pace in un complesso di villini, il Patio, che confina con il piccolo allevamento di bovini di Antonino Spano. Arrivata di giovedì, Odetta gusta questa sua vacanza facendo qualche bagno in tarda mattinata, qualche lavoro in giardino, qualche pettegolezzo con i vicini, qualche bella discussione letteraria con un vecchio professore in pensione. Tutto sembra procedere con la piacevole monotonia di sempre, quando il sabato mattina viene scoperto l’omicidio di Antonino Spano. Dopo i primi accertamenti svolti nella stessa giornata di sabato, la domenica mattina i proprietari di quelle casette vengono chiamati al commissariato di Terracina a dire quello che sanno per chiarire il quadro della situazione.
Ultima a essere chiamata è Odetta. Oltre a comunicarle l’ora dell’omicidio, il commissario le rivela che il vecchio professore in pensione, a lei così caro, la sera prima si è presentato in commissariato e ha chiesto: «Prendete me». Che voleva dire? Il commissario considera quella frase una confessione spontanea, ma insincera: insomma il professore si è messo in mostra per qualche stravagante motivo (che il commissario conosce, ma che non vuol rivelare a Odetta), però non c’entra niente con l’omicidio. Tanto è vero che parecchi testimoni hanno visto all’ora del delitto un vagabondo uscire dal terreno di Antonino e dileguarsi verso sud. La polizia lo cerca.
Odetta potrebbe fare la sua chiacchierata con il commissario e andarsene in santa pace, ma la sua voglia di conoscere e di percorrere strade lastricate da dubbi la induce a chiedere al commissario qualche notizia in più. I dubbi, allora, si fanno sempre più numerosi e quelle strade che lei vuole percorrere a tutti i costi la portano, infine, a vedere molto da vicino il “male”.

Sì, Una confessione spontanea è un romanzo nel quale Odetta percorre strade lastricate da dubbi per arrivare a conoscere il “male”: il male che non è soltanto nell’omicidio in sé, quanto nelle ragioni che l’hanno causato. Odetta, però, non è una filosofa e non è neanche la «miss Marple del Portonaccio» come qualcuno la apostrofa alla fine del romanzo. Preferisce le battute dei film di Totò ai trattati di filosofia e, proprio perché è una accanita lettrice di Agatha Christie, sa bene che le sue strade lastricate da dubbi sono molto più tortuose, ma anche molto più divertenti, di quelle di solito seguite da miss Marple.
Odetta non rinuncia mai alle sue divagazioni, alle sue osservazioni “divergenti”, fino a occuparsi del naso del commissario («quel suo naso così importante, da autorevole capo di una tribù di pellirosse»), delle sue funzioni intestinali, delle sue simpatie (o nostalgie) politiche. Infine, Odetta ha una capacità autocritica e autoironica che di solito gli investigatori non hanno.
Così, il romanzo si sviluppa, per tutta la sua prima parte con una leggerezza che raggiunge in certi momenti il tono della comicità o addirittura della farsa per poi precipitare, nel finale, in una quasi inaspettata tragedia.

Il mio primo romanzo, Due perfetti sconosciuti è uscito ormai cinque anni fa. Allora mi sono quasi giustificato con i miei lettori per avere abbandonato, sia pure momentaneamente, il terreno della poesia. Posso dire oggi che quel terreno non l’avevo mai lasciato. Difatti, in questi anni ho pubblicato altre tre raccolte di versi: la più corposa Il cuore in tasca (Manni, 2012); la più intrigante Fine e principio (Anicia, 2015: mi dispiace, questo volume non è in vendita, potete trovare le copie numerate fuori commercio soltanto alle mie letture o presentazioni), la più recente Piante del mio giardino (Campanotto, 2018).
Ma quello che vorrei sottolineare qui è che quella esperienza di prosa creativa, dopo decenni nei quali la mia prosa si era esercitata soltanto nella scrittura di saggi letterari, mi ha in certo modo segnato. Mi ha fatto capire, in particolare, che anche la prosa può essere animata da un ritmo. Certo: un ritmo che non ha niente a che vedere con quello determinato nella poesia dalla presenza del verso; e tuttavia, comunque, un ritmo.
Per accentuare a modo mio la presenza di un ritmo nella prosa narrativa, ho adottato per il mio primo romanzo uno stile che aveva degli esempi fuori d’Italia – il più bello, a mio parere, La cote 400 di Sophie Divry (tradotto in italiano con il titolo La custode di libri, Einaudi, 2012) –, ma non ne ha, ancora oggi, qui da noi, a parte i miei romanzi, ovviamente. Ecco di che si tratta.
Gli eventi vengono narrati, non attraverso descrizioni dell’autore (neppure nella finzione della narrazione in prima persona, nei panni di un personaggio) magari inframezzate da dialoghi, ma soltanto attraverso un dialogo. Il protagonista dialoga con uno o più interlocutori e da quel dialogo il lettore è informato di ciò che accade direttamente da colui che partecipa a quegli accadimenti. Da dove nasce, in tutto ciò, il nuovo e particolare ritmo narrativo? Dal fatto che, di quel dialogo, lo scrittore trascrive soltanto le battute del protagonista e omette quelle dei suoi interlocutori. Da qui, un vero e proprio “balletto” tra lettore e testo. Il lettore legge la battuta del protagonista. Subito dopo un’altra battuta. In mezzo deve inserirsi lui, con la sua immaginazione, la sua capacità di costruire egli stesso la parte mancante del dialogo o, semplicemente, le mosse dell’interlocutore. Faccio due esempi.
Il libro di Sophie Divry comincia con queste battute:


Si svegli! Che fa, dorme? La biblioteca apre soltanto fra due ore, qui non ci si può stare. È il colmo: adesso ci rinchiudono i lettori, nel mio seminterrato. A questo punto me le hanno fatte proprio tutte, qua dentro. È inutile che gridi, io non c’entro niente … Ma so chi è lei, lei lo conosce bene, questo posto. A forza di passarci le giornate a perdere tempo, doveva pur capitare che ci restasse di notte. No, non vada via, già che è qui mi dia una mano.


In questo breve testo il lettore, oltre a trovare alcune informazioni essenziali (l’azione si svolge in una biblioteca; in quella biblioteca è stato trovato un vagabondo etc.), è indotto a intervenire almeno tre volte. La prima per immaginare come può essere (ancora insonnolito, sporco, con i vestiti stazzonati etc.) il tipo trovato a dormire nel seminterrato della biblioteca: questo è un intervento abbastanza tradizionale; accade spesso con tutti gli stili narrativi ed è il bello della lettura. Ma il più bello viene dopo. Il lettore è indotto a intervenire una seconda volta per immaginare che cosa può aver gridato il vagabondo svegliato dagli armeggi della bibliotecaria. La terza volta il lettore interviene per immaginare il movimento del vagabondo che stava per andar via e che viene invece fermato dalla battuta della protagonista.

Il secondo esempio lo prendo dal mio nuovo libro, Una confessione spontanea. Con una avvertenza. L’editore de La custode di libri non ha ritenuto di dovere andare mai a capo (forse su indicazione dell’autrice?) e questo implica un po’ di fatica in più da parte del lettore per individuare di volta in volta dove finisce una battuta. Il mio (benemerito e paziente) editore e io abbiamo invece convenuto che fosse utile andare a capo alla fine di ciascuna battuta. E qui il “balletto” diventa molto più facile: il lettore, appena ci fa un po’ l’abitudine (direi già alla fine della prima pagina del libro), capisce benissimo che, quando vede un “a capo”, in quell’intervallo tra la fine di una riga e l’inizio della successiva, tocca a lui, tocca alla sua immaginazione, tocca alla sua capacità di mettersi nei panni dell’interlocutore del protagonista.
Avrete notato che ho usato sempre il maschile: in realtà, a farla da padrone ne La custode di libri e nei miei romanzi sono donne; protagonista dei miei romanzi è Odetta. Il secondo esempio lo traggo da alcune sue battute di dialogo. Convocata al commissariato di Terracina per testimoniare in merito all’omicidio di Antonino Spano, Odetta non perde l’occasione per lasciarsi andare alle sue amate divagazioni, persino in quella situazione non proprio piacevole e persino con il commissario che svolge l’indagine e che avrebbe ben altro da fare. Ecco alcune battute del suo dialogo con il commissario. Argomento: la pubblicità.


Certo! Per quante volte possano replicare uno spot, la replica che ne fanno non serve ad aumentare il tasso di verità di quello che lo spot proclama, “reclama”, si sarebbe detto una volta. Ricorda? La pubblicità si chiamava réclame.
Davvero? Beh, era molto tempo fa.
Bravo, i tempi di Carosello.
Per carità. Balle anche quelle di Carosello. In ogni caso, apprezzo molto che lei partecipi alle mie divagazioni con qualche intervento calzante.
Sì, torno subito al fatto, ma mi lasci dire che non ne ho nessuna nostalgia.
Di Carosello naturalmente.


In questo caso è tutto più facile per il lettore: ogni volta che vede un “a capo” sa bene che deve intervenire. La prima volta per immaginare l’obiezione del commissario (che non sa nulla di réclame) e per determinare sempre meglio, anche in base a questa obiezione, oltre che per altri sparsi indizi precedenti, l’età del commissario. La seconda volta per accorgersi che il commissario, per quanto giovane, sa che comunque, tanto tempo fa, c’era Carosello. La terza per verificare che il commissario, un po’ ingenuo, pensa che le pubblicità dei tempi di Carosello fossero veritiere. La quarta per raffigurarsi con che parole, e magari con che mossa, il commissario possa aver spinto Odetta a «tornare al fatto» e la quinta per accertarsi che il commissario ogni tanto lascia perdere e non segue più le divagazioni di Odetta. Queste informazioni sono tutte nelle battute di Odetta, ma il lettore se ne appropria negli “a capo”, con il suo passo, ormai, da ballerino provetto: infatti con queste battute siamo ormai a pagina 20 di Una confessione spontanea. Odetta è già da un pezzo in azione con le sue chiacchiere.

Trascinare lo sguardo fuori da questa notte

Molti anni fa – ma non vi dico quando – ho scritto la poesia che potete leggere qui sotto. Dopo parecchio tempo ho deciso di inserirla in una nuova raccolta, quella che sarebbe poi uscita con il titolo Il cuore in tasca (Manni, 2016). Mentre venivano stampate le bozze del libro, nel luglio del 2016, ne ho parlato con la mia cara amica e traduttrice Danièle Robert, perché proprio in quei giorni era scomparso il poeta francese Yves Bonnefoy (nella foto qui sotto), del quale nella poesia cito (e traduco a modo mio) un verso bellissimo.

È stata Danièle Robert a parlare di quella mia poesia inedita ispirata al verso di Bonnefoy con Florence Trocmé, curatrice del bellissimo sito di poesia Poezibao, impegnata a preparare un hommage al poeta appena scomparso. È successo, così, che Florence Trocmé, colpita da quei versi, li abbia voluti inserire all’interno del suo hommage, sia in italiano sia nella traduzione che nel frattempo ne aveva fatto Danièle Robert. Insomma, prima ancora di essere pubblicata in volume, quella poesia è uscita, con la traduzione francese, nell’hommage di Poezibao a Yves Bonnefoy (vi si accede da questa pagina), unico testo di un poeta italiano. Nel frattempo Florence Trocmé mi ha convinto a cambiare il titolo di quella poesia: da Leggo disordinatamente, il titolo diventò così Dragué fut le regard hors de cette nuit. Si deve proprio a questo cambio “in corsa”, quando già erano state corrette le seconde bozze, un clamoroso errore di stampa nel titolo (ciò che non è mai accaduto nei libri di Manni e che rende Il cuore in tasca una specie di “Gronchi rosa” di questo benemerito editore). Queste vicende mi tornano in mente di quando in quando da un po’ di tempo, perché mi sembra che questa poesia, con una storia così lunga alle spalle, abbia assunto oggi una pregnanza e una attualità che non aveva neanche – forse – quando l’ho scritta.

Michele Tortorici, Dragué fut le regard hors de cette nuit * (da Il cuore in tasca, Manni, 2016)


Leggo disordinatamente, più ancora di sempre. Oggi, per esempio,
ho letto qualche poesia di Bonnefoy, parecchie pagine di un saggio
sull’invenzione del romanzo e, come se i due libri si fossero
accordati fra loro per trovare
un compagno adatto, infine ho letto settanta
pagine circa di una biografia
– autore francese, è ovvio – di Moravia (mi sono accorto,
durante questa lettura, a proposito, che di Moravia ho letto
meno di quello che avrei dovuto – forse voluto, non lo so neanche).

«Trascinato fu lo sguardo fuori da questa notte» scrive Bonnefoy.

Leggo disordinatamente, più ancora di sempre, e scrivo
anche senza nessun intendimento
preciso. Insomma, le parole entrano
nella mia testa e ne escono in tutte
le direzioni possibili. Grazie
a questo loro andirivieni capace di tenermi
ben sveglio mi chiedo: come
trascinare lo sguardo fuori da questa notte?

Leggo disordinatamente e le parole entrano
nella mia testa e ne escono con movimenti
vorticosi che in parte
mi sfuggono. Richiedono pazienza – molta
pazienza, credetemi – per essere ricomposte, per essere messe, cioè,
a posto: da una parte, intendo, quello che leggo e dall’altra
quello che dico e che scrivo. È grazie a questa pazienza – potrei dire
persino testardaggine – che mi chiedo: come
trascinare lo sguardo fuori da questa notte?

È notte, appunto, qui attorno. Dipende da questo se, più ancora
di sempre, leggo disordinatamente e scrivo
anche senza nessun intendimento
preciso parole che mi inducono
a un lavorio continuo e hanno bisogno
di pazienza – di molta
pazienza, credetemi. Come
trascinare lo sguardo fuori da questa notte, dato
che, senza ragione, tutto
è notte qui attorno?


* Verso tratto dalla poesia di Yves Bonnefoy Art de la poesie, in Pierre écrite, Mercure de France, Paris, 1965. La traduzione, «Trascinato fu lo sguardo fuori da questa notte» è mia.

Le api del mio giardino (e le altre)

20 maggio 2018: prima Giornata mondiale delle api

Accolgo con gioia la notizia (fornita dall’Ansa, ma – mi sembra – ben poco ripresa dalla stampa, tutta protesa a informarci del “royal wedding”) che, dopo decenni di disattenzione delle istituzioni nazionali e sovranazionali verso i metodi della produzione agricola, qualcuno si è accorto dell’importanza delle api. Si tratta, niente meno, della Fao (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura).

Un’ape su un fiore di peonia nell’isola di Mainau, la cosiddetta “Blumeninseln” (Isola dei fiori) sul lago di Costanza. La foto è mia.

Ecco, nella convinzione – finalmente! – che tutti i paesi e i singoli individui debbano «fare di più per proteggere le api e gli altri impollinatori», la Fao ha istituito la Giornata mondiale delle api che si celebra oggi per la prima volta. Ho deciso, in questa occasione senza i miei soliti indugi e ritardi, che fosse il caso festeggiare tempestivamente l’evento.
Come? Naturalmente con alcuni versi. Si dà il caso, infatti, che delle api io parli, senza che nessuno me l’abbia suggerito, nel mio libro più recente, Piante del mio giardino, del quale vi ho dato notizie nel post precedente.
In questo mio libro parlo delle api una prima volta, rapidamente, a proposito di quegli sciami che, proprio in questa stagione, anzi in questi giorni, volano sui grappoli di fiori bianchi delle robinie e che, oltre al resto, «offrono, per la somma / dei molti ronzii, un’armonia la cui origine / accidentale non toglie niente alla grazia / musicale del risultato ultimo». Ma soprattutto ne parlo a proposito della mietitura delle spighe di lavanda, che deve ancora venire: il suo tempo verrà tra la fine di giugno e i primi di luglio. Il fatto è che le api sono molto ghiotte del polline della lavanda. Ma c’è un modo per non disturbarle. Di questo parlano i versi che seguono. Il libro Piante del mio giardino, edito da Campanotto, è già in libreria. Se non doveste trovarlo, lo riceverete più o meno una settimana dopo l’ordine. Altrimenti si trova nelle librerie on line.


[…]
Quando mi decido a mieterle devo stare attento
a non infastidire le api che, innumerevoli,
si affollano intorno alle spighe fiorite: si affollano
– è proprio la parola giusta – tanto che a volte
avrei persino un certo timore a passare lì a fianco,
se le stesse api,
quando mi avvicino, non mostrassero
una certa indifferenza e non dessero prova,
in questo modo, di volere
intrecciare con me una di quelle amicizie basate
sul principio, che forse sarà un po’ cinico ma certo
è efficace, di evitare
a vicenda di molestarsi. Rispettoso
della natura di questa amicizia,
per non molestare le api, sistemo ogni volta
tutta la faccenda della mietitura quando loro
si sono già ritirate: me la sbrigo
in non più di un’ora, alle luci
estreme del giorno. Aspetto
difatti che si sia allontanata anche l’ultima
«ape tardiva», come la chiamerebbe il mio caro,
indimenticabile Giovannone, Giovannino,
però, per le sorelle nelle quali i ricordi
d’infanzia prevalevano
sulla considerazione delle visibilmente non piccole
dimensioni del fratello poeta. Parlo – devo
proprio spiegarlo? – di Pascoli: vi avevo
preavvertiti[1].


 


[1] In alcuni versi precedenti avevo infatti preannunciato questa mia citazione pascoliana

Scusate il silenzio

È davvero da molto tempo che non scrivo su questo blog. I miei venticinque lettori non devono pensare però che mi sia dimenticato di loro. È vero piuttosto il contrario: ho pensato al mio pubblico e ho scritto molto e, poiché la capacità di scrivere non è infinita, ho dovuto trascurare questo blog, anziché altro (gli editori sono più esigenti dei lettori di blog). Quello che ho scritto in questi mesi sarà pubblicato, penso, tra la fine di quest’anno e i primi mesi del prossimo. Avremo quindi modo di riparlarne.
Tuttavia, per farmi perdonare del lungo silenzio, vi propongo una poesia tratta dalla sezione Senza ragione della mia nuova raccolta di versi Il cuore in tasca. Ecco, questa poesia parla proprio del silenzio, già nel titolo: La speranza e il silenzio. Anzi, ve lo anticipo, parla proprio di una delle ragioni del silenzio di questo blog, anche se si tratta di ragioni riferite nientemeno al luglio del 2012 (l’intervento che cito nella poesia è questo): ma c’è proprio tanta differenza tra allora e oggi? La speranza e il silenzio sarà uno dei testi che leggerò domani, quando Valerio Marucci presenterà Il cuore in tasca alle 17 nel Salone Borrominiano della Biblioteca Vallicelliana di Roma. Buona lettura.

Michele Tortorici, La speranza e il silenzio (da Il cuore in tasca, Manni, 2016)


In questi giorni che la speranza è – come direbbe
il nostro caro e amato padre Dante –
«buia assai più che persa», il fatto che con calma io me ne vada
a spasso con le mani dietro la schiena
per il Corso può sembrare incoerente. Qualcuno potrebbe accusarmi
di scarso impegno sociale. Altri
potrebbero sollecitarmi a scrivere, se non
tutti i giorni almeno qualche volta, sul mio blog,
micheletortorici punto ittì, parole di fuoco, utili
a scuotere coscienze. Ma
c’è già chi ne scrive: lascio fare. Nel mio blog, poi,
figuriamoci! L’ultimo
post che ho scritto parlava di Ovidio, anche se l’argomento
che mi ero imposto di affrontare era quello dell’acqua
come bene comune: lo vedete? Le mie parole
si rivelano, a ben considerare, sempre inutili. Sono inguaribile.

In questi giorni che la speranza è – come direbbe
il nostro caro e amato padre Dante –
«buia assai più che persa», le parole,
quelle che, con il chiarore che hanno naturalmente
dentro di sé, potrebbero
attenuare l’oscurità mi va di pensarle e poi,
questo è il fatto, invece che di scriverle sul mio blog, mi va di tenerle
a mente come facevo con le filastrocche
che mio padre cantilenava; mi va di tenerle
a mente come se potessi imprigionarle per un incantesimo
nel tronco di una vecchia pianta – sono vecchio, infatti – rimasta
tanto tempo nello stesso posto. E queste vecchie piante, come tutte
le piante del resto, sono mute. E le filastrocche
hanno sì parole, ma le loro parole
sono senza ragione e sono senza senso, lo sanno tutti:
uno due e tre
né lu papa nun è re,
nun è re né lu papa
né lu beccu nun è crapa,
nun è crapa né lu beccu
né lu rusignolu nun è sceccu
.

Il fatto è che c’è un grande silenzio nella mia testa. E le parole
che penso con il fine preciso di dirle e di scriverle, quelle
inutili della poesia, non spezzano
questo silenzio, piuttosto lo accrescono. Non è da pochi giorni
d’altro canto, non so più nemmeno io da quanto tempo succede,
che la speranza è «buia assai più che persa». E pensare parole,
quelle utili
a scuotere le coscienze, scriverle
sui blog o sui giornali – lo fanno in tanti –
non funziona, è evidente. Bisogna pensarle, è vero. Bisogna pensarne
anche di quelle che possono sembrare utili: utili
almeno per scongiurare l’accusa
di scarso impegno sociale. Bisogna pensarne mica tante, però,
di queste parole. Soprattutto,
penso che sia meglio evitare di fare ricorso alle solite
parole. Allora, meglio le filastrocche. Mio padre, poi,
ne trovava di originali tanto che in seguito non le ho più sentite
dire da nessuno, mi sono rimaste
a mente, sarà per un incantesimo, anche se magari
non ricordo proprio
tutte le strofe, tutte le rime:
nun è sceccu lu rusignolu,
continua così, va bene, e poi? Forse continuava
né la ramorazza non è citrolu,
ma non ricordo proprio più: che peccato! Silenzio.

Ecco, il silenzio. Non dico tanto: se con un minuto
di silenzio si ricordano i morti, quanto dovrebbe durare
il silenzio necessario per pensare ai vivi? Proviamo
un’ora. Si potrebbe ripetere
la prova una volta la settimana. Poi si potrebbe ripetere due volte,
tre volte, quattro, cinque, sei, sette volte la settimana: una volta
al giorno, dunque,
da raggiungere con un buon allenamento
perché è faticoso
il silenzio. La potremmo chiamare l’ora
della speranza, l’ora che la speranza
diventa meno buia, meno persa: senza ragione, solo per il silenzio.


Nonostante tutto, Auguri!

Il solstizio d’inverno e la speranza della luce
in un rito del 21 dicembre a Salisburgo

L’arrivo dei Perchten nella Domplatz di Salisburgo

Oggi, più o meno a quest’ora (scrivo alle 16.30) o poco più tardi, si svolge a Salisburgo, davanti alla cattedrale, un rito pagano. Vi ho assistito di persona quasi dieci anni fa mentre nella grande Domplatz fervevano le attività delle bancarelle del Christkindlmarkt, il mercatino di Natale. E per questo, capite, il ricordo di quel ventuno dicembre mi è venuto in mente proprio in questi giorni.
Dalla scalinata della chiesa è uno spettacolo vedere quel mercatino nel buio della sera che sembra precipitare troppo presto e che però, lì, mette ancora più in rilievo lo scintillio delle luci.
Mi trovavo sulle scale per scattare qualche foto di quello spettacolo quando ho visto arrivare un gruppo di “mostri” danzanti. Subito si sono create due ali di folla, una dalla parte del mercatino e una dalla parte della cattedrale. In mezzo, la danza dei mostri si è conclusa, dopo molte evoluzioni, intorno a un fuoco che simboleggiava la speranza del risorgere della luce a primavera. Così mi spiegava, con pazienza per la mia pessima comprensione del tedesco, un salisburghese. Di fronte al mio stupore, lui sembrava compiaciuto del fatto che un rito pagano si svolgesse liberamente davanti alla cattedrale e in presenza delle bancarelle di Natale: «Die Hoffnung ist immer gut»,”La speranza è sempre un bene”, credo che mi abbia detto. E poi qualcos’altro che non ho capito.

Ho chiesto in seguito informazioni anche ad altre persone e ho saputo che, nelle religioni pagane pre-cristiane di quella zona delle Alpi, Frau Perchta, il capo di quei “mostri”, era una creatura semidivina che soprintendeva al passaggio del solstizio d’inverno. Le creature demoniache che l’accompagnavano si chiamavano Perchten. Le maschere che attraversavano la piazza rappresentavano per l’appunto queste straordinarie creature disposte a celebrare la luce persino nel giorno più breve e buio dell’anno. Un segno di speranza – di cocciuta speranza, mi verrebbe da dire – che mi ha quasi commosso allora e mi ha di nuovo e più fortemente commosso quando l’ho ricordato nei giorni scorsi di fronte allo scempio del mercatino di Natale sul Ku’damm di Berlino.
Attraverso quel rito salisburghese si capisce infatti perché, con o senza Frau Perchta, nessuno da quelle parti può pensare di rinunciare ai mercatini, simbolo essi stessi della luce nei giorni più bui dell’anno. Chi lo facesse rinuncerebbe anche alla speranza nel domani. E difatti i mercatini, che non sono come tanti credono soltanto un luogo di shopping ma un’importante festa di futuro, continuano a essere aperti, in Germania, in Austria e dovunque questa tradizione sia radicata.
E ci aiutano a sperare, quei mercatini. Ci aiutano tutti: noi tranquilli cittadini d’Europa così come i disperati delle parti del mondo distrutte dalle guerre. Nel profondo del buio, c’è chi celebra la luce perché sa che verrà.
Per questo, nonostante tutto, Auguri!

Trascrivo qui sotto una poesia che ho scritto allora, poco dopo essermi allontanato dalla Domplatz di Salisburgo, e che mi sembra, anche vista con il senno di poi, abbastanza rappresentativa dello spirito di quel rito del 21 dicembre.

Michele Tortorici, Il baratto dei Perchten (da Viaggio all’osteria della terra, Manni, 2012)


E poi i Perchten la luce, che la notte
precipitosa del ventuno
di dicembre aveva spenta, l’hanno riaccesa loro con le fiaccole
e insieme con le danze che mimavano
più lunghe giornate e facevano già festa
alla venuta della primavera.

Nella piazza infuocata Frau Perchta e i Perchten barattavano
– se ho ben capito – l’adesso con il dopo, il freddo e il buio
presenti con la stagione ancora da venire.

Un baratto speciale: come è possibile calcolare
la congruità di uno scambio tra quello che c’è e la speranza
di quello che sarà? Anche se
– a dire il vero – i Perchten di tutto il susseguirsi
delle stagioni, per il fatto
che di anno in anno ugualmente
si ripetono, sanno – o credono
di sapere – pressoché tutto, pensano comunque
di potersi fidare. La notte
del solstizio, in ogni caso, non hanno dubbi i Perchten
sul crescere del giorno il giorno dopo.