Ogni volta che mi trovo a Trieste, appena dalla stazione arrivo alle vie del centro e, da qui, alla riva che si affaccia sul mare, provo una fortissima emozione di infinito: una emozione che si incontra – e si scontra e, infine, viene sopraffatta da – una altrettanto forte emozione di finito.
La prima volta che ci sono stato (circa un quarto di secolo fa), imbevuto delle mie letture di poeti e scrittori triestini, avevo in mente soltanto di cercare le testimonianze della loro presenza. E, in effetti, le mie passeggiate sono cominciate con quello scopo: via San Nicolò e la Libreria Antiquaria di Umberto Saba erano la prima meta che volevo raggiungere appena sceso dal treno. Ma, prima di mettermi in cammino, non avevo fatto i conti con le emozioni di cui ho parlato qui sopra.
Invece, dopo aver girato a sinistra da via Roma per via San Nicolò, per caso mi sono voltato indietro e mi sono accorto che quella via, il cui inizio si trovava a circa duecento metri rispetto all’incrocio da dove ero arrivato, dalla parte opposta sembrava non avere fine. Per quello che ne sapevo (e che avevo controllato sulle cartine) non doveva essere una via tanto lunga.
Era già buio. Qualcuno stava abbassando la saracinesca della Liberia Antiquaria. Era il momento di andare in albergo.
Il giorno dopo la curiosità di percorrere verso il mare quella via che sembrava non avere fine è stata più forte di quella di entrare nella Libreria di Saba (dove, comunque, mi sono fermato il pomeriggio). Sono andato subito verso la riva. È stato lì, è stato davanti a una delle bitte da ormeggio (le «colonnine dei moli», come le chiama Giani Stuparich quando, nel suo racconto Un anno di scuola [1] accenna ai salti su quelle «colonnine» come a uno dei passatempi degli studenti del liceo “Dante”) che ho avvertito quelle emozioni contrastanti: è stato lì che ho conosciuto Trieste, prima ancora di percorrerla dal centro fino alle colline.
La poesia La riva l’ho scritta la sera di quello stesso giorno e l’ho pubblicata, parecchi anni dopo, quasi senza modifiche.
Quando, pochi giorni fa, sono tornato ancora una volta a Trieste, anche quelle emozioni sono tornate. Questa volta, in più, c’era Roberta, mia moglie, accanto a me a condividerle. È stato bellissimo.
Michele Tortorici, La riva, da: Viaggio all’osteria della terra (Manni, 2012)
La riva
Nella mattina di questo tredici di gennaio che nessuno aspettava
assolato − e invece inopinatamente
lo è − strade e piazze qui, e via San Nicolò prima di tutte, pare
che siano deliberate a incamminarsi verso dove possano
farsi inghiottire
dal mare, come dalle balene − o da altri grandi animali marini, non è
chiaro − sono stati inghiottiti, se stai a quello che si legge, profeti
e falegnami e burattini.
O piuttosto strade e piazze qui, e via San Nicolò prima di tutte, devo
pensare che siano immancabilmente tutti i giorni – non solamente
oggi, né solamente perché
è assolato questo tredici di gennaio – pronte
a offrirsi con temerarietà a una bocca
come di balena – o di altro grande animale marino. Via, lo capisci
appena le vedi che giocano strade e piazze qui per abitudine
d’azzardo. Puntano, senza nemmeno pensarci, sulla possibilità
che da quella bocca poi si possa uscire in qualche modo, puntano
sulla possibilità che il venir meno agli occhi sia un morire, sì, ma solo
per un po’, che poi si possa vivere di nuovo
come è accaduto, infatti, se stai a quello che si legge, a profeti
e falegnami e burattini. Per questo strade e piazze
qui si piegano per scendere
sulla riva a curiosare in tutte le incostanze possibili che il mare,
per sua natura, specchia del divenire.
La riva, dunque. Tutto − la partita, l’azzardo, le puntate − si gioca
in quel transito così sottile che la sera non lo vedi neppure
più sotto la riga di fari gialli disposti di traverso
al cielo nero: puoi soltanto immaginare tu,
la sera qui, che quel venire meno agli occhi, quel morire
di strade e piazze sia
cercare il mare e penetrarvi come in una bocca
di balena – o di altro grande animale marino.
La riva, dunque. La riva, lo capisci
appena la vedi che è sorella a te nella ricerca
di mortalità, che non gioca e non punta lei, che assiste a quel piegarsi
al mare di strade e piazze, lei, senza illusioni. La riva
lo sa che in quell’azzardo
il divenire le puntate le vince tutte lui: basta aspettare.
E lei, la riva, è qui che aspetta, appunto. Ci saranno
ancora – chissà – da qualche parte le colonnine dove i liceali
del “Dante” saltavano e ci saranno da ogni parte altri
segni − di sicuro − che il tempo ha sprofondati nelle lastre
di pietra che calpesti.
La riva è qui che aspetta, la conosce
la bocca come di balena dalla quale
strade e piazze qui, e via San Nicolò prima di tutte, pare
che siano deliberate
a farsi inghiottire. Conosce, la riva, le balene
dei tuoi sogni, dei tuoi libri e delle tue meraviglie; conosce bene
il nulla anche se provvisoriamente
ne emerge. E non gioca e non punta lei. È qui che aspetta, lo capisci
appena la vedi che è sorella a te nella ricerca
di mortalità.
[1] L’anno di scuola al quale si riferisce il racconto, pubblicato nel 1929, è il 1909/1910.