Se l’inchiostro è finito

Il mio nuovo libro è un romanzo

Se l’inchiostro è finito è un romanzo scritto in prima persona, ma non è un’autobiografia. Chi si dedica a questo genere letterario ha passato almeno un po’ del suo tempo a scrivere diari, a conservare lettere, a classificare vecchi documenti. Io, che non ho mai scritto diari e non sono capace di conservare neanche le bollette pagate, mi sono basato sulla mia memoria. Un’ottima memoria – non lo nego – che però qui si riferisce a un periodo, quello dai quattro agli undici anni, dal quale, per chiunque, emergono ricordi necessariamente sfocati.
Mi è sembrato naturale usare la prima persona: i fatti che racconto di me stesso mi sono effettivamente capitati e a essi hanno realmente partecipato, nel modo in cui racconto, mia sorella, mia madre, mio padre, i nonni, le cugine, gli zii e tutti i parenti dei quali parlo. Tuttavia, devo confermare che Se l’inchiostro è finito è un romanzo: l’ho concepito e l’ho scritto come un romanzo e non come una autobiografia. Tra l’altro, non so chi possa pensare che la mia biografia sia degna di essere raccontata. Nell’intreccio tra realtà e finzione, quest’ultima riguarda i personaggi che non fanno parte della mia famiglia. Di questi, ho cambiato qualche nome e qualche cognome. L’ho fatto a volte per il motivo più banale: da tempo non ricordo più quelli veri o, addirittura, non li ho mai saputi. Altre volte l’ho fatto perché, pur ispirandomi a una persona reale, volevo accentuare un particolare aspetto del suo carattere e renderlo più funzionale alla narrazione o più esemplare in relazione alla storia di quegli anni: quindi non sarebbe stato corretto identificare quella persona con i suoi veri dati anagrafici. Altre volte, infine, ho cambiato nomi e cognomi per appianare lo svolgimento del racconto: ho mischiato infatti in un unico personaggio le storie e, insieme a esse, le qualità o i difetti di due o più persone reali che, se tratteggiate una per una, avrebbero richiesto pagine e pagine di descrizioni.
Ciò che importa, tuttavia, è che in questo romanzo è fedelmente rappresentata, soprattutto in alcuni aspetti oggi del tutto dimenticati, la vita vissuta dalla gente in Italia negli anni Cinquanta del secolo scorso, quelli durante i quali il nostro Paese si riprese dalle ferite della Guerra. Nella Avvertenza per il lettore spiego così i caratteri di quel periodo:


[…] in quegli anni, i nuovi modi di vita determinati da un urbanesimo incontrollato spinsero quasi tutti gli italiani ad abbandonare da un giorno all’altro abitudini secolari, in qualche caso millenarie. Quelle abitudini, buone o cattive che fossero, derivavano da una cultura materiale talmente antica che aveva lasciato impressi i suoi segni, come marchi più che come tatuaggi, nella carne viva di un numero incalcolabile di generazioni e generazioni di uomini e di donne. Nell’Italia di quegli anni vi fu una corsa frenetica a cancellare quei segni.
Per una serie di singolari coincidenze ho vissuto una parte della mia vita di bambino nel mondo nuovo, dove tutti partecipavano a quella corsa frenetica, e un’altra parte dentro il mondo vecchio, dove quei segni ognuno se li portava addosso ben visibili e senza scandalo.

Questo libro parla di quei due mondi che coesistevano mentre si negavano a vicenda e che, in quel coesistere e in quel negarsi, hanno rappresentato un momento decisivo della storia d’Italia nel ventesimo secolo.


Insomma, Se l’inchiostro è finito è un libro che mi riguarda, ma riguarda soprattutto un periodo delicato – e decisivo – della storia d’Italia. Per questo secondo motivo vorrei che lo leggeste.
Devo aggiungere, oggi 4 gennaio 2024, che proprio per questo secondo motivo sono felice che Se l’inchiostro è finito sia stato scelto come “Libro da leggere” per questo mese di gennaio dal giornale online EzRome: qui un commento al libro e un’intervista a me a cura di Donata Zocche, che ringrazio di cuore.

L’ultima àncora

Cinque favole di vita quotidiana e tre cronache sulla «bomba»

Esce oggi il mio nuovo libro di poesie.


Lo presento qui sotto con il testo che compare sul risvolto anteriore della copertina, risvolto nel quale, in modo certo non usuale, è l’editore stesso a raccontare la storia del libro, da quando gli ho presentato il progetto, che conteneva solo la prima parte, le Cinque favole di vita quotidiana, fino a quando è stato effettivamente realizzato con una seconda parte intitolata Tre cronache sulla “bomba”: e nessuno può dubitare di che bomba si tratti né dell’urgenza che mi ha spinto (si potrebbe dire costretto) ad aggiungere questi nuovi versi.
Un’urgenza tale che già il 30 aprile scorso ho deciso di pubblicare su questo blog (qui), mentre era ancora inedita, la poesia che costituisce ora la prima delle Tre cronache.

Ecco dunque che cosa racconta l’editore nel breve spazio del risvolto di copertina.

 


Questo libro stava per nascere come una raccolta di favole in versi, favole un po’ speciali, così come spiega ai lettori una breve premessa con le Istruzioni per l’uso.
Sono, infatti, favole che
«[…] non raccontano
malefici di streghe o crudeltà
di orchi che mangiano bambini, non trattano
di principi né di principesse e nemmeno
di animali fantastici o parlanti […].
Sono favole, insomma, «di vita quotidiana». Le Istruzioni per l’uso precisano:
«[…] ciò che raccontano,
magari, qualche volta, così come diceva
una canzone un po’ di tempo fa,
sarà capitato anche a voi».

Questo libro stava per nascere come una raccolta di favole in versi e basta. Favole, cioè racconti d’immaginazione, con al centro un argomento che all’autore sta molto a cuore: il tempo. Anzi, il tempo e i tempi, tanto è vero che l’ultima favola si intitola Il presente, il passato e il futuro.

Ma, a un certo punto, è arrivata la guerra. Qualcuno, dopo decenni, ha ricominciato a parlare concretamente di “bomba”, di quella “bomba”: sul tempo e sui tempi le favole non sono bastate più; ormai si trattava di cronaca. È nata così la seconda parte del libro, nella quale l’autore si dichiara pessimista:

«Pessimista? Sì, pessimista. Avviluppato,
però, in un groviglio dentro al quale
posso pensare
di scrivere parole sulla fine
con l’illusione che non finiranno».

L’editore non ha potuto che accompagnare il divenire dell’ispirazione dell’autore e, oggi, non può che condividere la sua «illusione», nel momento in cui consegna al lettore questo libro sul tempo e sui tempi: L’ultima àncora.


Da oggi il libro si può acquistare nelle librerie fisiche (con un ordine che verrà evaso più o meno in una settimana) e in quelle online. Meglio ancora se lo si acquista nella libreria dell’editore, a Roma, in via S. Francesco a Ripa 67 (dove, ovviamente, l’ordine verrà evaso sul momento), o sul suo sito, qui.
In un post che compie tra qualche giorno dieci anni (qui) invitavo i miei lettori a regalare per Natale un libro di poesia. Allora mi affrettavo a precisare che non parlavo soltanto dei miei libri. Qui vorrei suggerirvi di regalare per Natale ai vostri amici proprio questo mio libro: si tratta, infatti, di un libro che mi sento di definire “urgente”.

Giardiniere imprevidente

Quando ho sistemato il mio giardino
non ho previsto la possibilità di una guerra atomica

Un bosco di ginkgo biloba con il caratteristico foliage autunnale

Ho pubblicato quattro anni fa, con l’editore Campanotto, un volumetto di versi, Piante del mio giardino (qui trovate tutte le notizie e qui una bella recensione di Anna Santoliquido), nel quale, come è chiaro dal titolo, ho descritto il rapporto con le mie piante e la sistemazione del mio giardino.

Ora, in questi tempi di guerra, in questi tempi durante i quali in troppi dichiarano continuamente che la guerra atomica non ci sarà, mi è venuto in mente che allora, come giardiniere, non avevo neppure lontanamente previsto che si potesse parlare di una guerra atomica, sia pure per dire che “non ci sarà”: pessimo segno, quest’ultimo, come sanno tutti gli esperti di comunicazione.

I versi che trascrivo qui sotto sono una ritrattazione: ritrattazione che non riguarda tutto il mio lavoro di giardiniere, ma gli effetti su di esso di questa mancata previsione. Nel titolo uso la parola «Palinodia»: scusate questo arcaismo che risale, attraverso Leopardi, autore di una Palinodia al marchese Gino Capponi (1835), a Stesicoro (638 ca. – 555 ca. a.C.), autore di un poemetto di condanna di Elena (perduto) e di una successiva Palinodia, della quale restano pochi versi, ma che è bastata a creare un topos letterario. Si tratta di versi inediti, scritti una ventina di giorni fa e conosciuti, finora, solo dalla dedicataria, Manuela Vico. In questo caso, mi è sembrato che fosse opportuno venir meno alla riservatezza che dedico sempre a ciò che scrivo: riservatezza che dura fino a che non ho apportato l’ultima correzione sull’ultima bozza del paziente editore di turno.

Inutile dire che, mentre pubblico questi versi, non smetto di curare il mio giardino: nelle scorse settimane ho potato le rose, che ora mi ripagano con una fioritura stupenda; e oggi dovrei finire il lavoro di estirpazione delle erbe infestanti. Tutto come al solito.

Michele Tortorici, Palinodia del giardiniere imprevidente (testo inedito)

A Manuela, persona
di buona volontà
e a tutte le persone
come lei.
Che la loro forza possa scongiurare
ciò che il mio pessimismo prefigura.


Delle piante del mio giardino ho scritto
tempo fa. Ho scritto
di come le ho curate per far sì
che fosse la loro crescita più lieta. Ho scritto
che le mie piante e io sappiamo bene
di appartenere, senza
poi troppi distinguo, alla progenie
di tutto ciò che vive e muore e che ci piace
proprio per questo condividere
il tempo mentre scorre e il susseguirsi, dentro
a quel suo scorrere, delle stagioni. Ho scritto
delle conversazioni che con le mie piante
ho l’abitudine di fare. Discorsi seri: ho detto loro
per esempio dei baccanali che accompagnano,
come ci ha spiegato tanto tempo fa
Euripide, la decapitazione
del futuro, accompagnano
la madre che uccide il figlio e che ne porta
la testa mozzata sulla picca. Discorsi seri
sulle nostre generazioni che decapitano
il futuro delle generazioni che verranno.

Quello che non ho scritto è che, fra tutte
le piante del mio giardino, manca
proprio quella che oggi, aprile appena
cominciato del duemila e ventidue, più di ogni altra
vorrei avere. Parlo
del ginkgo biloba. È vero
che il mio giardino è piccolo e che un albero
come il ginkgo biloba rischia,
una volta cresciuto, di coprirlo
del tutto. È vero anche, tuttavia, che io
non avevo, nel disporre a suo tempo il mio giardino,
considerato il rischio
di una guerra atomica che avrebbe
ridotto me e il mio giardino in cenere.

Già, la cenere. Quello che si sa di ciò
che è successo là dove le bombe
atomiche sono state, quasi
ottant’anni fa, scaraventate è che le uniche
creature viventi capaci
di rinascere dalla cenere appestata
di radiazioni furono
i ginkgo biloba. Goethe aveva visto bene, dunque,
a definirli “Lebensbäume”, “alberi
della vita”, a considerarli
tutt’uno con la “Urpflanze”, la “pianta
primordiale” che porta a unità
ciò che è diviso. Goethe aveva visto bene e il giorno
che la Terra sarà cenere a causa
di una guerra atomica, il fatto
che possano qua e là nascere piante e
da qualche altro pianeta il nostro,
chissà quando, chissà da chi,
possa essere visto, anziché tutto grigio, almeno
con qualche macchiolina verde mi consolerebbe
persino del fatto di essere io
parte di quel grigio.

Pessimista? Sì, pessimista. Avviluppato,
però, in un groviglio dentro al quale
posso pensare
di scrivere parole sulla fine
con l’illusione che non finiranno.

Pessimista o no, che posso farci adesso
se, a suo tempo,
non ho pensato proprio che una bomba, quella
potesse prima o poi
bruciare, insieme a tutto il resto
della Terra, il mio giardino? Oggi, aprile appena
cominciato del duemila e ventidue, mi rendo conto
di essere stato imprevidente, ma qui
per un ginkgo biloba
di posto non ce n’è davvero. Chi ha giardini
più grandi del mio ne pianti più che può. Sarà,
chissà quando, chissà
da quale altro pianeta, chissà
per chi, meglio vedere
qualche macchiolina verde
anziché tutto grigio, grigio e basta.

Grazie. Michele


I Portici di Bologna
patrimonio mondiale dell’Unesco

Il 28 luglio scorso i Portici di Bologna sono stati inscritti nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco.
Tutte le volte che sono stato a Bologna (tante), camminare sotto quei portici, soprattutto di sera, ha sempre provocato in me emozioni forti. Poco meno di venti anni fa ho scritto su queste emozioni una poesia, Sotto i portici, poi inserita nella raccolta La mente irretita (Manni, 2008).
Mi sembra che questi versi possano affiancarsi degnamente, oggi, alle motivazioni (qui) che hanno spinto i Commissari dell’Unesco a prendere la loro storica decisione.
Non credo che ci sia altro da aggiungere, se non una dedica speciale ai tanti amici che ho a Bologna.

Michele Tortorici, Sotto i portici, da: La mente irretita (Manni, 2008)


È quasi ancora piena questa sera
la luna, ma sotto i portici
del cielo non si sa nulla o quasi; c’è appena una memoria
che si attarda come a un appuntamento
controvoglia. Qui si vedono
soltanto luci fioche che diffondono nell’aria
scie giallastre di uomini in cammino. E il cielo
è là, appena una memoria
lontana: c’è tanta terra
qui, ci sono pavimenti di pietre sminuzzate, infiniti,
logori di passi, di tempo, del continuo
rincorrersi di voglie, di pensieri, di intenzioni
e rapprendersi di orme, di passaggi. Una lentezza
concreta ti resiste accanto
e tu la senti perché è resa oggetto
dal trascinarsi in mezzo agli archi, dallo scivolare
piano sopra le tessere che lega
scompostamente una malta rossastra qua e là
frantumata. C’è un peso in più che hai
addosso sotto questi portici e ti copre
e ti scalda come un vecchio plaid e puoi vivere
tutta la vita senza
il rimpianto di non avere visto questa sera
la luna già un poco calante
nell’alone che l’ha fatta diventare più grande
e l’ha portata vicino e l’ha posata lì sopra la piazza
Otto agosto così grande
anch’essa, così pronta
ad abbracciare il nulla luccicante nel suo vuoto
notturno. Quanto a te, ti accontenti della volta bassa
che ricopre i tuoi umani passi, ti arrendi
all’indolente specchiarsi di ciò che sei
in ciò che ti racchiude. Non avrai bisogno
di altro perché qui è così piccolo il mondo
che basteranno poche parole dette con indifferenza
per farti vivere e lasciare nell’aria la tua scia
giallastra, un filo che permetta il ritorno
o il ricordo almeno, una traccia: come se la pietra
assorbisse di te un memento, anzi come se tu
– insensata Medusa – fossi capace di impietrire
il tuo respiro per fare
rimanere una traccia nel mondo che attraversi.

È quasi ancora piena questa sera
la luna, ma sotto i portici senti il moto delle cose
che scorre adagio e che ti sfiora piano
e sei certo che continuare a vivere è possibile
come forse non avresti creduto se fossi stato solo
sulla piazza grande con quella grande luna
opaca a penetrarti di nulla come penetra ora
le pietre del selciato e ne disegna
i contorni neri in una fuga che non sai dove finisce.


Ho fatto crescere alberi

L’altro ieri è stata la “Giornata mondiale della terra”: la terra, questo strano «angolo dove / fortuitamente nell’universo si scioglie / la vita» (così come ho scritto nella poesia Hai ragione, Bruno, che i libri, ne La mente irretita, Manni, 2008). Ieri i giornali erano pieni di articoli su quanto l’altro ieri era stato detto (molto) e fatto (niente). Oggi non se ne parla più, o quasi. Certe volte la mia lentezza è vantaggiosa.

Tra tutto quello che è stato scritto, un articolo di Stefano Mancuso su “Repubblica” è stato, finalmente, chiaro. Mancuso ci avverte che, con le attuali politiche, «[…] se anche tutto andasse per il verso giusto e riuscissimo a convertirci in un tempo incredibilmente breve in esseri del tutto ecologicamente transitati, non avremmo affatto diminuito la concentrazione di CO2 nell’atmosfera, bensì ne avremmo soltanto ridotto la velocità con la quale aumenta». Subito dopo Mancuso fa un esempio straordinariamente semplice e comprensibile a tutti e arriva a una constatazione terribile e, al tempo stesso, a una proposta piena di speranza. Cito qui la conclusione del suo articolo.

Stefano Mancuso
Cominciamo dagli alberi, su “Repubblica”, 23 aprile 2021


Permettetemi un esempio per chiarire questo punto. Se vogliamo ridurre il livello di acqua all’interno di una vasca, le azioni che idealmente dovremmo effettuare sono aprire lo scarico e chiudere il rubinetto. Nessuno penserebbe mai di ridurre il livello dell’acqua nella vasca, lasciando lo scarico chiuso e riducendo la portata del rubinetto. In questo caso il livello dell’acqua continuerebbe a crescere, seppure più lentamente. È esattamente questo il massimo del risultato che possiamo attenderci qualora tutto andasse per il verso giusto: che la CO2 nell’atmosfera aumenti più lentamente. È lo stesso approccio che è stato adottato da tutte le Cop succedutesi negli anni. Con quale risultato? Che la CO2 nell’atmosfera è cresciuta nell’ultimo decennio (2010-2020) ad una velocità quasi doppia di quanto non sia cresciuta nel decennio precedente (1990-2000). Forse sarebbe il caso di aprire lo scarico se davvero vogliamo ridurre la CO2. Come? Sottraendola all’atmosfera con l’unica cosa in grado di farlo: gli alberi. Non sarà molto tecnologico, ma state certi che funzionerà. È già successo nella storia del pianeta.


«Non sarà molto tecnologico», è vero, ma è la cosa che io ho fatto da tanto tempo e che continuo a fare. Ogni volta che mi sono trovato a possedere un pezzetto di terra, anche sapendo che dopo qualche anno quel pezzetto di terra non sarebbe stato più mio, ho piantato alberi, arbusti, le piante più diverse che avevano però in comune una cosa: erano in grado di sottrarre CO2 all’atmosfera. E portavano bellezza.

Ho parlato di questa mia vera e propria mania nel poemetto Piante del mio giardino (Campanotto, 2018), ma anche in molte poesie sparse in varie raccolte. Qui, proprio in omaggio a Stefano Mancuso, voglio trascrivere una poesia che già nel titolo ricorda la sua proposta. Pubblicata nel 2008, questa poesia è stata scritta nel 2002 e, dopo di allora, ho piantato alberi in molti altri posti rispetto a quelli dei quali parlo qui. Quelli che ho piantati (e che continuo a piantare tutti gli anni) «nell’isola piatta / dove il vento e il mare li hanno piegati / su pietraie di arenaria», cioè a Favignana, ora costituiscono una straordinaria macchia mediterranea, si sono alzati dalle «pietraie di arenaria» e i più grandi, sicuri di sé, sfidano il mare e il vento da altezze notevoli. Non saprei dire quanta CO2 hanno sottratto all’atmosfera, ma posso dire che sono un incanto.

Michele Tortorici
Ho fatto crescere alberi (da La mente irretita, Manni, 2008)


Ho fatto crescere alberi come sentimenti, li ho piantati
dove il terreno soffice li ha fatti attecchire alti su colline
che con pacatezza lentamente declinano
verso il Tevere e nell’isola piatta dove il vento
e il mare li hanno piegati
su pietraie di arenaria. Molti
li ho dimenticati e ora
non saprei riconoscerli. Forse si saranno
disseminati come amori di adolescenti, come febbri
che mani e mani avvertono stringendosi, come sospiri
raccolti sotto possibili cieli vicini, quasi toccati.

Ho fatto crescere alberi che d’ombre
coprono luoghi perduti, su strade
che non percorro più, che non saprei
ritrovare nel viaggio attraverso paesi ogni giorno
nuovi, ogni volta inaspettati
ammassi, magazzini
saccheggiati di memorie; paesi dove il tempo
corre all’impazzata e infiniti ritorni
segnano orme incerte. Non ho altra patria:
ho quelle radici infossate che consumano
sedimenti e così vivono. È questa la ragione per cui voglio
essere pellegrino, affrontare cammini consacrati, attraversare
santuari di roccia vivi. Non c’è strumento che riveli tracce
di questi disordinati passaggi. Il suolo è a volte una leggera
boa dove s’abbarbica la speranza come muschi
salati, uno scoglio dove semi
di acacia giungeranno con la prima alluvione.

Ora, se tiro le somme in questa – o forse in un’altra –
vita, le mani sono radici, rami che spazi celesti
trascinano. Anche la memoria che s’attarda
tra superflui gesti o sogni o tempi precipita grumi
di cielo, granelli di luce che tornano
polvere, ma accendono
tutto ciò che è vivo o che ha vissuto.

Ho fatto crescere alberi come libere macchie o piuttosto
come imprecisate storie. Ciascuno con il suo
regno penetrato nel profondo e nell’alto, come se fosse
possibile sostare in una piaga del tempo voluta
− o tollerata − dalla divina gelosia. Storie che un sacrario
potrebbe raccogliere ma che non hanno segni
di umane identità: nomi, volti, oggetti posseduti
− e i possessori −; storie, insomma, accadute, ma non si sa
a chi, o perché.

Ho fatto crescere alberi ma ho poi dimenticato
di prendere coordinate e punti
di riferimento, di marcare il terreno, di segnare
contorni, livelli, tutto ciò
che individua un luogo e la sua storia, gli uomini
che vi sono passati gli atti, i meriti, le colpe. Li ho fatti
crescere, ma senza aspettare giudizi. Alberi
soltanto.


Auguri

Se provassimo ad ascoltare quello che la natura ci dice?

Piante di lentisco, con la caratteristica forma a cupola

Chi ha anche soltanto sfogliato uno dei miei libri di versi sa benissimo che io seguo da sempre con attenzione e con amore la vita delle piante. Quando ho pubblicato la raccolta Piante del mio giardino (Campanotto, 2018), nella Premessa, ho scritto: «Tutti quelli che mi conoscono sanno che io parlo con le mie piante. Penso che la giudichino una piccola stravaganza, ma che l’accettino senza problemi forse perché sanno che, comunque, non nuoce». In effetti, chiacchierare con le piante non nuoce: anzi, è utile soprattutto se, tra una conversazione e l’altra, si ascoltano le comunicazioni che le piante stesse scambiano tra loro e con l’ambiente circostante.

Un “dammuso” a Pantelleria

È talmente utile che, pur se storicamente non documentata – gli storici hanno altro a cui pensare –, questa è stata probabilmente un’occupazione non banale dell’umanità per gran parte della sua esistenza su questa terra, approssimativamente, da qualche centinaio di migliaia di anni fa a circa due o trecento anni fa: un bel po’ di tempo.
Tra le altre, le piante di lentisco ci dicono molto con la loro stessa forma. Basta guardarle, anche mentre si va di fretta in macchina lungo una via litoranea. Non ci vuole molto a capire la cosa semplice che vogliono comunicarci: quanto è bello ascoltare ciò che dice il vento, ciò che dice il mare!
E se anche noi provassimo ad ascoltare quello che la natura ci dice? Evito di rispondere con formule “catastrofiste”. Dico soltanto che, se ci provassimo, potremmo riuscire a evitare parecchi guai.

Michele Tortorici
Le piante di lentisco (da Il cuore in tasca, Manni, 2016)


Le piante di lentisco crescono a schiere lungo i litorali,
spesso disposte in fila lungo la strada, e brillano,
in primavera soprattutto, per le foglie
lucide e dure che hanno. Certo che le avete viste anche se non sapete
magari come si chiamano. Bene. Prendono
le piante di lentisco, dovunque capiti loro di crescere, le forme
che stabilisce il vento e assomigliano
di solito a cupole verdi, asimmetriche, disposte
una a fianco dell’altra sul terreno: già questo è il punto. Il punto
è che queste cupole non hanno
sotto di sé edifici
che le sorreggano o ai quali possano loro, in qualche modo essere
opportunamente di copertura. Ecco, non tanto cupole
sembrano, piuttosto – come mai, mi domando,
non ci ho pensato prima? – assomigliano ai dammusi: quelli
che si vedono sorgere
anch’essi, proprio allo stesso modo, dalla terra, sull’isola
di Pantelleria. Sono costruzioni,
i dammusi, di lontanissima origine, di un tempo, forse, nel quale
anche l’uomo seguiva, nel disporre
le pietre, quello che a lui diceva il vento,
quello che a lui diceva il mare, avvertimenti
proferiti in una lingua
che, in quel tempo, diligentemente ascoltata, veniva
senza nessuna difficoltà compresa. E le piante
di lentisco questo
fanno: diligentemente
ascoltano, di giorno in giorno
e poi di notte in notte, quello che dicono
il mare e il vento e volentieri accettano
una ubbidienza nella quale non vedono
sottomissione, ma che considerano piuttosto un utile,
e perciò assennato, partecipare alla discorde concordia che è perenne
alimento del divenire.


Auguro a tutti un anno durante il quale gioiosamente partecipare alla «discorde concordia che è perenne / alimento del divenire»: proprio come fanno le piante di lentisco; naturalmente, con in più la razionale consapevolezza che dovrebbe essere propria di noi umani.

Buon 2021!

Io ti lavo, mascherina!

Lettera aperta a Domenico Arcuri

Gentile dott. Arcuri,
scrivo a lei e spero che voglia condividere queste mie osservazioni con i ministri competenti: penso che siano quello della Salute, quello dell’Ambiente e quello dello Sviluppo economico, ma lei ne sa certamente più di me.

Ho letto oggi sui giornali sue dichiarazioni (che ho trovato tra virgolette e che trascrivo allo stesso modo) nelle quali ricorda : «Nelle ultime settimane abbiamo distribuito 36,2 milioni di mascherine, dall’inizio dell’emergenza sono 208,8 milioni. Le Regioni nei loro magazzini ne hanno 55 milioni». Ho letto altresì che, secondo una stima del Politecnico di Torino (della quale però non ho trovato la fonte), per i lavoratori servono già oggi 60 milioni di mascherine al giorno. Solo per i lavoratori.
Quindi, i numeri che lei ha dichiarato come un successo «dall’inizio dell’emergenza» sono di gran lunga inferiori al fabbisogno di una settimana. Ma non voglio fare polemica. Voglio fare insieme a lei, con ottimismo, un po’ di conti. Conti relativi alla fase 3.

In Italia vivono oltre sessanta milioni di persone. Secondo l’uso delle mascherine indicato in uno spot del Governo che va spesso in onda in questi giorni, si può ottimisticamente pensare che, nella fase 3, una persona con normali esigenze abbia bisogno di almeno due mascherine al giorno. Parliamo, ovviamente, delle cosiddette “mascherine di comunità”, cioè quelle «generiche, anche autoprodotte» che tutti devono usare «nei luoghi chiusi e frequentati dagli altri» o anche «all’aperto dove non è possibile mantenere la distanza di almeno un metro dagli altri» (le parole tra virgolette sono citate dallo spot del Governo).

Nella fase 3, una persona che non lavora va magari a fare la spesa la mattina, poi il pomeriggio va a trovare un congiunto o in palestra. Secondo quanto indicato nello spot che ho ricordato, non può usare la stessa mascherina. Quindi due mascherine.
Nella fase 3, una persona che va al lavoro con i mezzi pubblici, svolge il suo lavoro di otto ore in due turni con una pausa pranzo e torna a casa sempre con i mezzi pubblici, ha probabilmente bisogno di più di due mascherine. E quando riapriranno le scuole?
Ma noi facciamo i conti con ottimismo, calcoliamo che i bambini sotto i sei anni non hanno l’obbligo delle mascherine e pensiamo perciò a una media di non più di due mascherine al giorno per ciascuna delle 60 milioni di persone che vivono in Italia. Quindi 120 milioni di mascherine al giorno.

Ora facciamo le moltiplicazioni. In un mese servono 3,6 miliardi di mascherine. In un anno, quanto è presumibile che duri (con ottimismo) la fase 3, servono 43,2 miliardi di mascherine.

Ora facciamo le ipotesi. Ipotizziamo (con molto ottimismo, a giudicare da quello che vedo in giro), che il 90% di queste mascherine, cioè circa 39 miliardi, venga smaltito regolarmente, cioè venga depositato tra i rifiuti indifferenziati. La conseguenza sarà un aumento mostruoso di questo tipo di rifiuti che tutti invece ritengono necessario far diminuire. L’ulteriore conseguenza sarà che oltre quattro miliardi di mascherine saranno buttate non si sa dove e finiranno prima o poi nei nostri fiumi, nei nostri laghi, nei nostri mari.

Ma io non le scrivo per lamentarmi. Le scrivo per prospettare uno scenario diverso. In questo caso vorrei fare i conti con pessimismo e le propongo di pensare alla necessità di quattro mascherine al giorno per ogni persona. In realtà penso proprio che questo sia il numero giusto, né ottimistico né pessimistico, di mascherine che servirà nella fase 3. Quindi 86,4 miliardi di mascherine? Niente affatto. Meno di un miliardo.

Infatti, lo scenario che io le prospetto è quello di mascherine lavabili e riutilizzabili. Stranamente, lo spot del Governo parla a questo proposito di mascherine autoprodotte, ma non di mascherine prodotte dall’industria tessile italiana che è tra le più sviluppate al mondo. Bene, autoprodotte o prodotte da qualcun altro, nello scenario che le prospetto, si tratterà di bende a tre strati (come mi sembra suggeriscano gli scienziati) di tessuto di fibra naturale certificato con due fascette sul davanti sulle quali fissare gli elastici (che ciascuno si procurerà come vuole). Niente di più complicato di un normale piccolo tovagliolo piegato in tre. In questo scenario facciamo, come ho detto, conti particolarmente pessimistici.

Calcoliamo dunque che a ciascuna delle sessanta milioni di persone che vivono in Italia debba servire una prima fornitura di dodici mascherine. Se ogni giorno ogni persona ne usa quattro, la sera, quando si lava le mani, con la stessa acqua e lo stesso sapone (o un po’ di più dell’una e dell’altro, ma senza sprechi) laverà anche le quattro mascherine usate e le metterà ad asciugare. Poiché faccio dei conti pessimistici, immagino che, per asciugare, quelle quattro mascherine ci mettano due giorni. Da qui la necessità di dodici mascherine per persona.

Ora facciamo le moltiplicazioni. Servirà una prima fornitura di 720 milioni di mascherine. Questa prima fornitura, in pacchetti di dodici, potrebbe essere venduta a prezzo calmierato. In seguito, chi smarrirà o danneggerà una delle sue mascherine ne potrà comprare altre a prezzo di mercato. Nel frattempo uno spot del Governo potrà insegnare come farle in casa. Unici obblighi per le eventuali mascherine autoprodotte: i tre strati e il tessuto in fibra naturale certificato.

Nello scenario che le ho prospettato, alla fine di un anno di fase 3 potrebbe esserci circa un miliardo di mascherine da smaltire. Ma saranno in fibra naturale: quindi non finiranno nella raccolta indifferenziata e quelle smarrite o anche buttate via non inquineranno. E poi, dati i tempi, forse sarà meglio che ciascuno trovi un posto in un cassetto per conservarle.

Ora una domanda: questo scenario non le sembra migliore di quello di quello di 43 miliardi di mascherine monouso non riciclabili? Rivolgo la stessa domanda a tutti quelli che leggono questa lettera aperta.

Grazie per l’attenzione.

Michele Tortorici

Epidemie passate

In tempi di Covid-19 mi sono tornate in mente le epidemie vissute dalla mia famiglia e quelle delle quali, con o senza contagio, io stesso ho avuto direttamente esperienza.

La “Spagnola”

La prima epidemia con la quale i miei genitori sono venuti a contatto è stata quella che è rimasta nella storia con il nome di “Spagnola”. Si trattò di una epidemia di influenza sviluppatasi tra l’autunno del 1918 e la primavera del 1920 e che colpì un numero incalcolabile di persone in tutto il mondo uccidendone, secondo stime incerte, tra cinquanta e cento milioni: in Italia fra 350.000 e 600.000.
Mio padre ne ha sempre parlato poco e, ci teneva a precisarlo, solo per sentito dire. Personalmente non ricordava nulla. Ai tempi della Spagnola aveva fra i due e i tre anni e viveva nell’isola di Favignana – dove la Spagnola, forse, non aveva fatto troppi danni. Ricordava soltanto che i suoi genitori ne parlavano come di un grandissimo pericolo scampato.
Mia madre invece aveva quattro anni e mezzo quando la Spagnola cominciò a diffondersi e nel marzo del 1920, quando l’epidemia aveva cessato la sua azione devastatrice, compiva sei anni. Ricordava benissimo. L’anno prima suo padre era morto a Caporetto e la sua famiglia non si era ancora risollevata completamente da quel lutto. Lei viveva con sua madre presso alcuni zii, che in seguito l’avrebbero cresciuta. Abitavano tutti, un po’ stretti, in una casa al centro di Palermo, non lontano dai famosissimi “Quattro canti”. Una zona con una alta densità abitativa, sempre affollatissima. In quella zona, intorno alla sua casa, ricordava mia madre (che, quando si agitava o provava forti emozioni, ricorreva sempre al dialetto), «i genti murianu comu i muschi: prima di tutti i picciriddri», cioè: le persone morivano come le mosche, soprattutto i bambini. Mia madre stessa non riusciva a spiegare come quella famiglia numerosa, conosciutissima nella zona e quindi piena di contatti sociali non fosse stata toccata dalla Spagnola che mieteva vittime lì attorno: una famiglia, già provata, vissuta per più di un anno nel terrore, ma salva.

Il tifo

Mio padre ricordava bene, a sua volta, l’epidemia di febbre tifoidea (non il cosiddetto “tifo petecchiale”, ma una febbre dovuta a una variante della salmonella) che si diffuse in Italia tra il 1929 e il 1930. La ricordava bene perché quella volta proprio lui era stato contagiato. La sua famiglia viveva in quel periodo a Messina e lui, tredicenne, aveva manifestato i sintomi subito in maniera estrema: febbre altissima, mal di pancia fortissimo: tutto al superlativo. Quello che mio padre poteva ricordare era, in realtà l’inizio e la fine della malattia. Nei giorni centrali – mio nonno affermava che erano stati una decina! – non aveva fatto altro che delirare in preda a una febbre che non scendeva sotto i 40°. Ma era un ragazzo forte e, alla fine, se l’era cavata.

La poliomielite

Nella città di Trapani, devastata dai bombardamenti nel corso della Seconda Guerra mondiale, il dopoguerra fu difficilissimo. Le macerie delle case distrutte rimasero lì dov’erano per molti anni; in qualche zona della città per qualche decennio. L’acqua, comunque poca, non arrivava nelle case e bisognava andarla a prendere, a piedi naturalmente, alle poche fontane dove veniva distribuita. Anche il cibo, dopo anni di occupazione alleata, e – ricordavano i miei – soprattutto dopo che gli alleati se n’erano andati, non abbondava e si doveva ricorrere spesso al mercato nero.
In quella città, e in quella situazione, nacque mia sorella nell’agosto del 1945 e sono nato io nel luglio del 1947. Entrambi a casa, con l’intervento della stessa ostetrica: mi sembra che i miei la ricordassero familiarmente come donna Angelina. Nel ritratto che ne faceva mio padre, donna Angelina non avrebbe avuto problemi a comandare un reggimento e, comunque, avendo a disposizione soltanto un civile disarmato come lui, si era sfogata mandandolo in giro a prendere acqua a più non posso e legna per fare bollire quell’acqua in un pentolone installato su un fornello da campo allestito in una stanza della casa davanti a una finestra aperta. Quell’acqua serviva alla disinfezione degli oggetti che donna Angelina realizzava mediante la bollitura di tutto ciò che poteva essere bollito (recipienti, forbici, panni, etc.). Mio padre ricordava la nascita dei suoi due figli con un misto di terrore e divertimento. Il divertimento era dovuto al fatto che tutto era finito bene. Mia sorella e io eravamo nati sani e salvi e mia madre, dopo ciascuno dei due parti, stava benissimo.
I problemi sono venuti dopo. In quegli anni, a Trapani, epidemie di infezioni gastroenteriche facevano strage di neonati. Mia madre aveva imparato dall’ostetrica: bolliva tutto. E mio padre portava a casa acqua e legna: quest’ultima non più per il fornello da campo, proprietà privata dell’ostetrica, ma per una “cucina economica” che, comunque, aveva quel tipo di alimentazione.
Certo, però, la situazione non era rosea. E, in quella situazione, arrivò, tra la fine del 1949 e il 1950, una epidemia di poliomielite.
I miei cercarono di resistere per un po’: noi bambini vivevamo del tutto isolati, accuditi, durante le ore di lavoro dei miei, da una cugina di mio padre, anche lei obbligata alla bollitura di tutto ciò che toccava e portava. Ma, a differenza della Spagnola, che non era entrata nelle case dei miei, la poliomielite entrò nella nostra: ne fu colpita mia cugina, la figlia del fratello di mio padre, che aveva tre mesi più di me e che era l’unica bambina (anche lei molto protetta e a sua volta isolata dagli altri suoi coetanei) che mia sorella e io frequentavamo regolarmente in quella situazione di paura e isolamento. Mia cugina sopravvisse, ma con una gravissima menomazione dell’uso del braccio destro. Intanto altri bambini a Trapani morivano o restavano del tutto paralizzati. Nessuno è mai riuscito a capire come mai mia sorella e io non fossimo stati colpiti dal contagio. Ma le dolorose conseguenze della malattia contratta da mia cugina furono la goccia che fece traboccare il vaso: mio padre e mia madre, insegnanti, erano ancora appena in tempo per chiedere il trasferimento altrove. Lo chiesero subito, per la provincia per la quale c’era il maggior numero di posti: Perugia. E lo ottennero.
Fu così che tutti abbandonammo la Sicilia. Io avevo tre anni. Mia cugina ha poi sopportato con forza straordinaria, e da me sempre ammirata, la sua menomazione. Non ha mai chiesto aiuto e anzi, nel corso della sua vita, è stata lei a prodigarsi per gli altri al di là e al di sopra delle sue forze.
Quella da Trapani fu una fuga, più che in trasloco. Arrivammo a Perugia seguiti dai pacchi contenenti i libri di mio padre. E nient’altro. Qui a fianco ecco due delle migliaia di libri stipati in quei pacchi: si trovano oggi, dopo parecchi altri traslochi, nella mia biblioteca; uno porta ancora il prezzo di uscita del 1932, 16 lire. All’inizio, nell’autunno del 1950, nella casa di viale Antinori che i miei avevano affittato, c’erano quei pacchi e i letti. Sono i primi ricordi che ho: le stanze di quella casa vuote; potrei disegnarne la piantina. Poco dopo, mio padre costruì con le sue mani degli scaffali sui quali i libri furono prontamente messi a posto: l’unica cosa a posto in quella casa. In seguito riuscì a trovare dei mobili usati per arredare il suo studio e la stanza da pranzo. Quelli del suo studio erano orribili e neri. Quelli della stanza da pranzo erano, invece, belli e chiari, niente meno con piccoli bassorilievi lignei. Gli uni e gli altri hanno accompagnato la mia famiglia nei nostri successivi traslochi per decenni. E hanno costituito un ricordo perenne della nostra fuga dalla poliomielite.

L’ “Asiatica”

All’inizio sembrava una cosa esotica. E basta. Il nome evocava un oriente misterioso, ma niente di male. Invece fu una epidemia di influenza che provocò decine di migliaia di morti in Italia. La mia famiglia – come, penso, tutte le altre –  arrivò assolutamente impreparata. Mia madre ricordava le misure di isolamento che i suoi avevano preso ai tempi della Spagnola, quelle che lei e mio padre avevano preso per me e mia sorella all’epoca della poliomielite. Ma quella volta, era il 1957, nessuno di noi prese la minima precauzione. I miei insegnavano entrambi alla scuola media “Tibullo”. Mia sorella frequentava la prima media nella stessa scuola e io la quinta elementare in una scuola che si trovava dalla parte opposta dello stesso enorme fabbricato. Abitavamo a poca distanza da lì. Quartiere Appio-Tuscolano. Tutti i giorni uscivamo la mattina a piedi; io venivo scortato fino all’ultimo gradino dello scalone che portava all’ingresso della mia scuola; i miei proseguivano. La domenica facevamo passeggiate per il centro di Roma con gli amici, in attesa della primavera, quando avremmo fatto le gite ai Castelli. Tutto tranquillo. Io avevo nove anni e mezzo: frequentavo gli amici che abitavano vicino; con uno di questi giocavo a pallone in un corridoio di tre metri per uno.
Fu proprio lui ad ammalarsi per primo. Nessuno si preoccupò. Una settimana dopo a casa eravamo tutti ammalati. Mio padre fu il primo, anche se non voleva darlo a vedere: non si mise a letto, ma era pallidissimo e, in certi momenti, diventava improvvisamente rosso in viso per poi tornare bianco cereo. Mia madre, subito dopo di lui, ebbe per due giorni o tre una febbre leggera. Mia sorella, negli stessi giorni, arrivò con la con febbre fino a 39°, ma poi guarì rapidamente. Io mi ammalai dopo tutti gli altri, ma con febbre a 41°. Sì avete letto bene: febbre a 41°.
Avevamo allora il medico della mutua che, però, chiamavamo “medico condotto”. Tutti i giorni passava due volte a visitare a domicilio i suoi malati. Prendeva delle precauzioni che oggi vengono diffuse da tutti i media: appena entrato a casa e subito prima di uscirne, si faceva accompagnare in bagno per lavarsi a lungo le mani. Disinfettava con alcol denaturato tutti gli strumenti che usava. Ma una cosa mi ricordava i racconti che mio padre faceva di donna Angelina: se faceva delle iniezioni, il nostro medico della mutua, poiché non c’erano allora siringhe monouso, faceva bollire la siringa che portava con sé.
La mia febbre non accennava a scendere. Ricordo perfettamente che si alternavano attorno a me mio padre, mia madre e una ragazza che era stata fatta venire per l’occasione, Edda. Giorno e notte i miei tre infermieri mi applicavano bende fredde sulla fronte. Mia madre dice che sembravo privo di sensi. Invece avevo tutti i sensi e mi sentivo malissimo. Ma sentivo benissimo che i miei chiedevano al medico se ero grave. In quelle occasioni mia sorella scoppiava a piangere.
Ero un bambino magrissimo, un po’ piccolo per la mia età. Quindi non era strano che ci si domandasse se con quel fisico avrei sopportato la malattia. Ma, che io ricordi, il medico ebbe sempre fiducia, o almeno così dava a vedere.
In ogni caso, ce l’ho fatta. Una notte sono stato invaso da un sudore che non finiva mai. La mattina dopo il letto era un lago, ma io non avevo più la febbre.

E ora ecco il covid-19. Ma di questa epidemia non voglio parlare.
Anzi, voglio dire che non è un caso se l’unica immagine di questa pagina è quella di due vecchi libri. Quanta compagnia mi fanno in questi giorni, i libri. E quanto riescono a sgombrarmi la mente dalle troppe parole che vengono strombazzate attraverso tutti i media possibili! Un grazie di cuore ai miei libri vecchi e nuovi.

Dove si può arrivare

Una novella di Verga e un monito su cui riflettere. Oggi

Dove si può arrivare se, di fronte a un problema – anche grave – ci si lascia guidare, invece che dalla ragione, dalla paura (e dall’odio) per il diverso, dal complottismo, dall’ignoranza, dalla superstizione?
Già da qualche giorno, nell’Italia ubriacata dai media con dosi altissime di notizie sul “corona virus” abbiamo visto spingersi sempre più avanti il limite di ciò che può accadere: persone dai caratteri somatici cinesi, o semplicemente orientali, cacciate dai mezzi pubblici e, per strada, prese a sputi o a sassate.

Ecco: è stata la parola “sassate” a fare scattare il livello di guardia della mia coscienza, già in allarme. L’ho letta in una notizia poi rivelatasi falsa, ma riportata da una agenzia di stampa e riferita dal sito di Skytg24 (uno dei media più impegnati nella ubriacatura del pubblico): «Alcuni studenti di nazionalità cinese dell’Accademia di Belle arti di … sono stati presi a sassate». Dato che i fatti, come aveva avvertito da subito il sindaco di … «non sono mai avvenuti», tralascio il nome del luogo. In effetti ciò che ha fatto scattare in me il livello di guardia è che un fatto mostruoso, sia pure soltanto per uno o due giorni, è stato credibile, anzi è stato creduto. Sarebbe stato credibile, sarebbe stato creduto dieci giorni fa? O l’avremmo preso tutti, senza incertezze, per una balla colossale!

La parola, “sassate”, mi ha fatto tornare in mente una novella poco conosciuta di Giovanni Verga, Quelli del colèra.
È una novella tarda, pubblicata nella raccolta Vagabondaggio (1887: cinquanta anni dopo l’epidemia di colera che aveva colpito Catania e i suoi dintorni; ma già uscita su rivista nel 1884 in una prima versione poi modificata). È anche una novella poco, o forse per niente, presente nelle antologie scolastiche.
Ma è una novella rivelatrice. È il racconto in prima persona di qualcuno che ricorda quei fatti, che crede alle paure e alle falsità circolate ai tempi del colera sulla diffusione del contagio e che parla cinquant’anni dopo, sia pure in italiano e non in dialetto, come avrebbe parlato uno qualsiasi dei testimoni che, come lui, avesse assistito a quei fatti. Per esempio non esita a dire che alcuni «cavavano fuori il fazzoletto, finta [1] di soffiarsi il naso, e lasciavano cadere certe pallottoline invisibili, che chi ci metteva il piede sopra poi, per sua disgrazia, era fatta!». Verga applica in questo caso la tecnica del “discorso indiretto libero” (qui tutti i chiarimenti sull’uso di questa tecnica), anziché a una frase o a un periodo, a un’intera novella. Attraverso questa tecnica il racconto diventa ancora più terrificante e rende tutti i lettori consapevoli di dove possono arrivare persino le «anime buone»: «- No! no! non li ammazzate ancora! Vediamo prima se sono innocenti! Vediamo prima se portano il colèra! – C’erano pure delle anime buone in quella ressa».
Naturalmente, tutto finisce come doveva finire, con una strage che non risparmia neppure una madre con il figlio in braccio: «E ancora, dopo cinquant’anni, Vito Sgarra, che aveva menato il primo colpo, vede in sogno quelle mani nere e sanguinose che brancicano nel buio». Già, Vito Sgarra: non proprio una delle «anime buone», ma uno come tanti.

Ecco dove si può arrivare. Fermiamoci in tempo.

Qui il testo della novella

Giovanni Verga, Quelli del colèra (da Vagabondaggio, 1887)


Il colèra mieteva la povera gente colla falce, a Regalbuto, a Leonforte, a San Filippo, a Centuripe, per tutto il contado; e anche dei ricchi: il parroco di Canzirrò, ch’era scappato ai primi casi, e veniva soltanto in paese per dir messa, a sole alto, l’aveva pigliato nell’ostia consacrata; a don Pepé, il mercante di bestiame, gliel’avevano dato invece in una presa di tabacco, alla fiera di Muglia, un sensale forestiero – per conchiudere il negozio – diceva lui. Cose da far rizzare i capelli in testa! Avvelenata persino la fontana delle Quattro Vie; bestie e cristiani vi restavano, là! A Rosegabella, venti case, un bel giorno era capitato il merciaiuolo, di quelli che vanno in giro colle scarabattole in spalla, e quanti misero il naso fuori per vedere, tanti ne morirono, fin le galline. Ciascuno badava quindi ai casi propri, collo schioppo in mano, appiattato dietro l’uscio, accanto la siepe, bocconi nel fossatello, per le fattorie, nei casolari, da per tutto. Quelli di San Martino s’erano anche armati, uomini e donne. Volevano morir piuttosto di una schioppettata, o d’altra morte che manda Dio. Ma il colèra, no! non lo volevano!

Nonostante, lo scomunicato male andavasi avvicinando di giorno in giorno, tale e quale come una creatura col giudizio, che faccia le sue tappe di viaggio, senza badare a guardie e a fucilate. Oggi scoppiava a Catenavecchia, il giorno dopo si sentiva dire che era alla Broma, cinque miglia soltanto da San Martino. Una povera donna gravida di sei mesi, per avere aiutato certa vecchia che l’era caduto l’asino dinanzi alla sua porta, e fingeva di piangere e disperarsi, era stata presa dai dolori quasi subito, ed era morta, lei e il bambino: sangue d’innocente che grida vendetta dinanzi a Dio!

La sera, da quelle parti, chi aveva il coraggio di arrischiarsi sino in cima alla salita, vedeva dietro la china che nasconde il paesetto i fuochi e i razzi che sembravano quelli della festa del santo patrono, tutti col capitombolo verso San Martino; e il domani poi si trovavano le macchie d’unto per terra e lungo i muri; qua e là si sussurrava dei rumori strani che si udivano la notte: gatti che miagolavano come in gennaio; tegole smosse quasi tirasse il maestrale; gente che aveva udito picchiare all’uscio dopo la mezzanotte, com’è vero Dio; e dei carri che passavano per le stradicciuole più remote, come delle macchine asmatiche che andavano strascinandosi di porta in porta, soffiando e sbuffando, il Signore ce ne scampi e liberi!

Il venerdì, verso mezzogiorno, Agostino, quello delle lettere, era tornato dal rilievo della Posta colla borsa vuota e tutto stravolto. Sua moglie, poveretta, al vederlo con quel viso, si cacciò le mani nei capelli: – Che avete fatto, scellerato? Dove l’avete preso tutto quel male in un momento? – Egli non sapeva dirlo. Laggiù, arrivato al ponte, s’era sentito stanco tutt’a un tratto, e s’era seduto un momento sul parapetto. Prima di lui c’era stato un viandante, il quale si asciugava il sudore con un fazzoletto turchino. – Don Domenico, il fattore, l’aveva predicato tante e tante volte, di badare sopra tutto a certe facce nuove che andavano intorno, per le vie, e nelle chiese perfino! (Potevate sospettarlo, nella casa di Dio?) Cavavano fuori il fazzoletto, finta di soffiarsi il naso, e lasciavano cadere certe pallottoline invisibili, che chi ci metteva il piede sopra poi, per sua disgrazia, era fatta!

Il giorno stesso, a precipizio, chi aveva qualche cosa da portar via, e un buco dove andare a rintanarsi, in una grotta, fra le macchie dei fichidindia, nelle capannucce delle vigne, era fuggito dal villaggio. Avanti il somarello, con quel po’ di grano o di fave, il cesto delle galline, il maiale dietro, e poi tutta la famiglia, carica di roba. Quelli che erano rimasti, i più poveri, da principio avevano fatto il diavolo, minacciando di sfondar le porte chiuse, e bruciare le case dei fuggiaschi; poscia erano corsi a tirar fuori dal magazzino tutti i santi del paese, come quando si aspetta la pioggia o il bel tempo, l’Addolorata, coi sette pugnali di stagno, san Gregorio Magno, tutto una spuma d’oro, san Rocco miracoloso che mostrava col dito il segno della peste, sul ginocchio. All’ora della benedizione, nel crepuscolo, quelle statue ritte in cima all’altare buio, facevano arricciare i peli ai più induriti peccatori. Si videro delle cose allora da far piangere di tenerezza gli stessi sassi: Vito Sgarra che si divise dalla Sorda, colla quale viveva in peccato mortale da dieci anni; Padre Giuseppe Maria a far la croce sul debito degli inquilini che proprio non potevano pagarlo; Angelo il Ciaramidaro andare alla messa e alla benedizione come un santo, senza che gli sbirri gli dessero noia, e la notte dormire tranquillo nel suo letto, colla disciplina irta di chiodi e insanguinata al capezzale, accanto allo schioppo carico che ne aveva fatte tante. Misteri della Grazia! come diceva il predicatore. Tutta la notte, in fondo alla piazzetta, si vedeva la finestra della chiesa illuminata che vegliava sul villaggio; e di tratto in tratto udivasi martellare la campana, alla quale rispondeva da lontano una schioppettata, poi un’altra, poi un’altra, una fucilata che non finiva più, pazza di terrore, e si propagava per le fattorie, pei casolari, per le ville, per tutta la campagna circostante, dove i cani uggiolavano, sino all’alba.

La domenica mattina, spuntava appena l’alba, si vide una cosa nuova nel Prato della Fiera, appena fuori del villaggio. Era come una casa di legno, su quattro ruote, con certe figuracce brutte dipinte sopra. e lì vicino un vecchio carponi, che andava cogliendo erbe selvatiche. I cani avevano dato l’allarme tutta la notte; e quello del maniscalco, che stava da quelle parti, non s’era dato pace, quasi avesse il giudizio.

– Eccolo lì, povera bestia! gli manca solo la parola! – Il maniscalco raccontava a tutti la stessa cosa, via via che andavasi facendo gente dinanzi alla bottega. La gente guardava il cane, guardava la baracca, e scrollava il capo.

Dirimpetto, sugli scalini della croce in capo alla strada, c’erano altri in crocchio, che guardavano, e parlavano sottovoce fra di loro, col viso scuro. Dal muro del cimitero spuntava lo schioppo di Scaricalasino, malarnese, che accennava a tre o quattro altri suoi compagni della stessa risma, lontan lontano, verso la Broma, e poi verso Catenanuova, con gran gesti neri al sole. Dal ballatoio della gnà Giovanna suo marito chiamava gente anche lui, in fondo alla piazza, agitando le braccia in aria. – Quello! Quello! – gridavasi da un crocchio all’altro. E il vecchio carponi era corso a rintanarsi. Sul finestrino del carrozzone era passata una figura bianca di donna, coi capelli scarmigliati; poi s’erano uditi strilli di ragazzi e pianti soffocati. Dalla strada principale giungevano il farmacista, il Capo Urbano, le guardie, col giglio sul berretto e grossi randelli in mano. La folla dietro, come un torrente, mormorando; uomini torvi, donne col lattante al petto. Da lontano, verso San Rocco, la campana sonava sempre a distesa. Don Ramondo, colle mani e colla voce andava dicendo alla folla: – Largo, largo, signori miei! Lasciatemi vedere di che si tratta. – Poi sgusciarono dentro il baraccone tutti e due, lui e il Capo Urbano; le guardie sbatterono l’uscio sul naso ai più riottosi. Ci fu un po’ di parapiglia, un po’ di schiamazzo, qualche pugno sulla faccia. Infine il farmacista e il Capo Urbano ricomparvero vociando tutti e due che non era nulla, il Capo Urbano sventolando un foglio di carta in aria, don Ramondo sgolandosi a ripetere: – Niente! Niente! Son poveri commedianti che vanno intorno per buscarsi il pane. Poveri diavoli morti di fame.

La folla nonostante li seguiva mormorando e accavallandosi come un mare. Sulla piazza il Capo Urbano fece anche lui il suo discorsetto: – Via! via! State tranquilli. Sono o non sono il Capo Urbano? – Poi infilò l’uscio della farmacia con don Ramondo. La folla cominciò a diradarsi. Alcuni andarono a casa, a contar la notizia; altri, siccome il sagrestano si slogava sempre a sonare a messa, entrarono in chiesa. Qualcheduno, più ostinato, ritornò verso il Prato della Fiera. Quei poveri diavoli di comici, che si tiravano dietro la loro casa al par della lumaca, passato il temporale, tornarono a metter fuori le corna ad uno ad uno, appunto come fa la lumaca. Il vecchio aveva sciorinato all’uscio un gran cartellone dipinto. La moglie, con un tamburo al collo, chiamava gente; i ragazzi, camuffati da pagliacci, facevano mille buffonerie, e la giovinetta, colle gambe magre nelle maglie color di carne fresca, un fiore di carta nei capelli, il gonnellino più gonfio di una bolla di sapone, le braccia e le spalle nere fuori del corpetto di seta stinta, soffiava nella tromba, col poco fiato del suo petto scarno. Pure era una novità pel paese, e i giovinastri correvano a vedere, spingendosi col gomito. Inoltre i comici avevano altri richiami per il pubblico: un cardellino che dava i numeri del lotto; il ronzino che contava le ore, e indovinava gli anni degli spettatori colla zampa; un ragazzo che camminava sulle mani, portando in giro, stretto fra i denti, il piattello per raccogliere la buona grazia. Quando si era fatta un po’ di gente, calavano il tendone un’altra volta, e rientravano tutti a rappresentare la commedia coi burattini, la donna col tamburone al collo, gridando sempre dalla piattaforma: – Avanti, signori! Avanti, che comincia! – Si pigliava alla porta quel che si poteva: un baiocco, delle fave, qualche manciata di ceci anche. I ragazzi gratis. Fino alla sera, tardi, ci fu ressa dinanzi alla baracca, sotto il gran lampione rosso che chiamava gente da lontano. Amici e conoscenti si vociavano da un capo all’altro del Prato della Fiera; si scambiavano i frizzi salati e le parolacce come dentro avevano fatto Pulcinella e Colombina. Nessuno pensava più al castigo di Dio che avevano addosso.

Ma la notte – ci volevano più di due ore alla messa dell’alba – Tac tac, vennero a chiamare in fretta lo speziale. – Presto, alzatevi, don Ramondo, ché dai Zanghi hanno bisogno di voi! – Il poveraccio non riusciva a trovare i calzoni al buio, in quella confusione. Zanghi, steso sul letto, freddo, colla barba arruffata, andava acchiappando mosche, colle mani fuori del lenzuolo, le mani nere, gli occhi in fondo a due buchi della testa. Sua moglie seminuda, coi capelli sulle spalle, tutta gonfia e arruffata anche lei come una gallina ammalata, correva per la stanza, cercando di aiutarlo senza saper come, coi figliuoli che le strillavano dietro. – Dottore! dottore! Che c’è? Che ve ne pare? – Don Ramondo non diceva nulla: guardava, tastava, versava la medicina nel cucchiaio, colle mani tremanti, la boccetta che urtava ogni momento nel cucchiaio, e faceva trasalire. E il malato pure, colla voce cavernosa, che sembrava venire dal mondo di là, balbettando: – Don Ramondo! Don Ramondo! Che non ci sia più aiuto per me? Fatelo per questi innocenti, ché son padre di famiglia! Poi, come s’irrigidì, colla barba in aria, e i figliuoli si misero ad urlare più forte, aggrappandosi alle coperte di lui che non udiva, don Ramondo prese il suo cappello, e la donna gli corse dietro in sottana com’era, colle mani nei capelli, gridando aiuto per tutto il vicinato. Spuntava l’alba serena nel cielo color di madreperla; alla chiesa, lassù, si udiva sonare la prima messa.

Per le stradicciuole ancora buie si udiva uno sbatter d’usci, un insolito va e vieni, un mormorìo crescente. Sull’angolo della piazza, nel caffè di Agostino il portalettere, buon’anima, avevano dimenticato il lume acceso, nella bottega vuota, i bicchierini ancora capovolti nel vassoio; e dinanzi all’uscio c’era un crocchio di gente che discuteva colla faccia accesa. Neli, il maggiore dei figliuoli, sporgeva il capo di tanto in tanto fra le tendine dello scaffale, più pallido del suo berretto da notte, cogli occhi gonfi, per vedere se qualcheduno venisse a prendere il rum o l’acquavite. E a tutti coloro che l’interrogavano dall’uscio, senza osare di entrare, rispondeva sempre scrollando il capo: – Così! Sempre la stessa! – Poi si vide uscire dalla parte del vicoletto la ragazzina che andava correndo dal sagrestano per le candele benedette.

Ogni momento giungeva qualcheduno che veniva dalla casa di Zanghi, e aveva visto dall’uscio spalancato il letto in fondo alla camera, col lenzuolo disteso, le candele accese al capezzale e i figliuoli che piangevano. Altri portavano altre brutte notizie. – Il Capo Urbano che stava imballando le materasse; il farmacista che tardava ad aprire la bottega. – La folla cominciava ad ammutinarsi a misura che cresceva. – Cristiani del mondo! Che ci vogliono far morire davvero come bestie nella tana? – Uno, colla faccia stralunata, raccontava come Zanghi avesse acchiappato il male, nella baracca dei commedianti. L’aveva visto lui, coi suoi occhi, il vecchio che lo tirava per la falda del vestito perché gli pareva che volesse passare a scappellotto. – Anche comare Barbara! che pur non si era mossa di casa! – E quell’infame Capo Urbano che andava dicendo “Non è nulla, non è nulla,” e mostrava la carta bianca! Quella era la carta del Sotto Intendente, che ordinava di lasciar spargere il colèra! – Ah! volevano proprio farli morire come bestie nella tana, cristiani di Dio!

Tutt’a un tratto si udirono dietro lo scaffale delle grida: – Mamma! mamma! – e delle strida di dolore disperate. Neli irruppe nella bottega urlando come una bestia feroce, coi pugni sugli occhi. Un parente corse lesto lesto a chiudere gli scaffali, per tutta quella gente che s’affollava nella bottega e nessuno poteva tenerla d’occhio.

Allora la folla, quasi fosse corsa una parola d’ordine, si mosse tutta come una fiumana, gridando e minacciando. Un’anima buona si mise le gambe in spalla, e corse per le scorciatoie dal Capo Urbano, a dirgli che scappasse. Ma il poveraccio, da un bel pezzo, fiutando come si mettevano le cose, aveva infilato l’usciuolo dell’orto, carponi fra le viti, e preso il volo pei campi.

Quelli del baraccone stavano facendo cuocere quattro fave, a ridosso del muricciuolo, seduti sulle calcagna, per covar la pentola cogli occhi, tutta la famiglia. A un tratto udirono gridare: – Dàlli! dàlli! – e videro la folla inferocita che correva per sbranarli. – Signori miei! siamo poveri diavoli, poveri commedianti che andiamo intorno per buscarci il pane! – Il vecchio annaspando colle mani, per fare intendere le sue ragioni; la donna che copriva i figlioletti colle ali, come una chioccia; la giovinetta colle braccia in aria. Arrivò una prima sassata, che fece colare il sangue. Poi un parapiglia, la gente in mucchio accapigliandosi, gli strilli delle vittime, che si udivano più forte. – No! no! non li ammazzate ancora! Vediamo prima se sono innocenti! Vediamo prima se portano il colèra! – C’erano pure delle anime buone in quella ressa. Ma gli altri non volevano intender ragione: Neli di comare Barbara, che gli sanguinava il cuore dall’angoscia; Scaricalasino che aveva visto coi suoi occhi Zanghi stecchito sotto il lenzuolo; massaro Lio che si sentiva già i dolori di ventre addosso. In un attimo la baracca fu tutta sottosopra: i burattini, gli scenari, i cenci, la poca paglia fradicia dei sacconi. Poi, dopo che non ebbero più dove frugare, fecero un mucchio d’ogni cosa, e vi appiccarono il fuoco. – Bravo! E adesso come farete a scoprire se portavano il colèra? – gridavano alcuni. Ma il povero capocomico non sentiva e non badava più a nulla, né le grida di morte, né le falci, né le scuri; pallido e stravolto, col sangue giù per la faccia, i capelli irti, gli occhi fuori della testa, voleva buttarsi sul fuoco per spegnerlo colle sue mani, urlando che lo rovinavano, che gli toglievano il suo pane, strappandosi i capelli dalla disperazione, in mezzo alla famigliuola tutta pesta e malconcia, scampata per miracolo alla strage. – Meglio, meglio che ci avessero uccisi tutti! – Neppure il colèra li aveva voluti, da per tutto dove l’avevano incontrato, stanchi ed affamati.

Ancora, dopo cinquant’anni, Scaricalasino, il quale è diventato un uomo di giudizio, dice a chi vuol dargli retta, che il colèra ci doveva essere nel baraccone. Peccato che lo bruciarono! Quelli erano ricconi che andavano attorno così travestiti per non dar nell’occhio, e buscavano centinaia d’onze a quel mestiere.

Dove avevano saputo far le cose bene era stato a Miraglia, un paesetto mangiato dal colèra e dalla fame, il giorno in cui s’erano viste certe facce nuove per la via dove da un mese non passava un cane, e la povera gente, senza pane e senza lavoro, aspettava il colèra colle mani in mano. Anche costoro mostravano di essere dei viandanti rifiniti dal lungo viaggio, come una famigliuola di zingari; l’uomo che si dava per calderaio, la moglie che diceva la buona ventura, la figlia, una bella bruna, la quale doveva averne fatte molte, così giovane com’era, e portava attaccato al petto cascante un bambino affamato e macilento. Dei suoi diciotto anni non le erano rimasti altro che due grandi occhi neri, degli occhi scomunicati che vi mangiavano vivo. Anch’essi si portavano dietro tutta la loro casa in un carretto sconquassato, coperto da una tenda a brandelli, che veniva avanti traballando, tirato da un somarello sfinito. Siccome la popolazione si era commossa [2] al loro apparire, e minacciava, il Capo Urbano accorse anche qui colle guardie, armate sino ai denti, gridando da lontano – Via! via! – come si fa ai lupi. Loro a ripeter la commedia che venivano da lontano, che li avevano scacciati da ogni dove, che erano affamati, e preferivano li uccidessero lì a schioppettate. Allora, per non saper che fare, temendo di accostarsi per paura del colèra, li lasciarono lì, fuori del paese, guardati a vista come bestie pericolose. Nessuno chiuse occhio, quella notte, la vigilia di san Giovanni, che c’era un chiaro di luna come di giorno. Tutt’a un tratto, coloro che stavano a guardia, nascosti dietro il muro, videro lo zingaro che s’era avventurato carponi sino alle prime case, razzolando in un mondezzaio. Colà l’uccisero di una schioppettata, come un cane arrabbiato. Dopo gli trovarono un torsolo di cavolo, che ci aveva ancora in pugno, e il petto della camicia tutto gonfio di bucce e frutta marcia. Al rumore, alle grida che si udivano da lontano, tutto il paese fu in piedi subito, e la caccia incominciò. La vecchia fu raggiunta all’argine del fossatello, barcollando sulle gambe stecchite. La giovane dinanzi al carretto, che voleva difendere la sua creatura, come succede anche alle bestie, con certi occhi che facevano paura, e cercava di afferrare le scuri per aria, colle mani insanguinate. Dopo, frugando fra i cenci della carretta, trovarono le pillole del colèra e ogni cosa. Ma quegli occhi più d’uno non poté dimenticarli. E ancora, dopo cinquant’anni, Vito Sgarra, che aveva menato il primo colpo, vede in sogno quelle mani nere e sanguinose che brancicano nel buio.

Però, se erano davvero innocenti, perché la vecchia, che diceva la buona ventura, non aveva previsto come andava a finire?


 


[1] finta: forse un errore di stampa in tutte le edizioni della novella; se è così, manca: “facevano”. Comunque, poiché non esistono versioni diverse di questo passo, per correttezza filologica ripeto il testo così com’è anche nella trascrizione della novella.
[2] commossa: ‘turbata’, ‘irritata’.

Auguri

Una comune responsabilità, per sperare

Quando scrisse (nell’ottobre del 1900) la poesia che trascrivo qui sotto, Rilke si trovava a Berlino e aveva venticinque anni. Negli ultimi dieci anni della sua vita non aveva fatto che viaggiare: Boemia, Austria, Germania, i tre paesi di riferimento della sua famiglia, e poi Italia, Francia, Russia (qui a fianco è ritratto in uno schizzo dell’artista Leonid Pasternak conosciuto proprio nel primo dei suoi viaggi in Russia) e altri posti ancora.

Bisogna pensare che proprio questo suo continuo contatto con tanti Paesi diversi e con tante persone diverse (alcune delle quali erano già, come Tolstoj, o sarebbero state in seguito tra i protagonisti della cultura europea e mondiale) lo avesse indotto, anche a causa della sua straordinaria sensibilità, a sentire una responsabilità universale, verso tutto il mondo e verso tutti i viventi nel mondo. La sorte di tutti i viventi lo riguarda. E lui non si sottrae: accetta di sostenere questo peso sulle spalle: quasi assumendo i contorni di una figura cristologica.

Nei giorni scorsi ho letto un testo che non ha nulla a che vedere con questo di Rilke: è un editoriale di Enzo Bianchi, monaco laico fondatore della comunità di Bose (in provincia di Torino). Questo editoriale ha come titolo Si può sperare solo insieme e si conclude con un appello alla speranza che è anche un appello alla responsabilità comune, alla solidarietà:


Rinasca la solidarietà tra tutti noi appartenenti a un’unica umanità, una solidarietà tra generazioni e popolazioni diverse. Così sapremo impegnarci per affrontare a livello globale i problemi che opprimono l’umanità: cambiamenti climatici, guerre, migrazioni, violazioni dei diritti umani… Si tratta di sperare contro ogni speranza: ma si può sperare solo “insieme”, mai da soli, mai senza l’altro.


Credo che da questi due testi si possa trarre, al di là della volontà dei loro autori così diversi, un significato affine: solo se avremo una comune responsabilità nei confronti del mondo e di coloro che ci vivono, potremo sperare.
È quello che auguro, di tutto cuore, per il 2020 e per gli anni a venire, ai lettori di questo blog.

Rainer Maria Rilke, Ernste Stunde (in: Buch der Bilder), 1902


Wer jetzt weint irgendwo in der Welt,
ohne Grund weint in der Welt,
weint über mich.

Wer jetzt lacht irgendwo in der Nacht,
ohne Grund lacht in der Nacht,
lacht mich aus.

Wer jetzt geht irgendwo in der Welt,
ohne Grund geht in der Welt,
geht zu mir.

Wer jetzt stirbt irgendwo in der Welt,
ohne Grund stirbt in der Welt:
sieht mich an.


Traduzione di Michele Tortorici, Ora grave (in: Il cuore in tasca, Manni, 2016)


Chi adesso piange da qualche parte nel mondo,
senza ragione piange nel mondo,
è per me che piange.

Chi adesso ride da qualche parte nella notte,
senza ragione ride nella notte,
è di me che ride.

Chi adesso cammina da qualche parte nel mondo,
senza ragione cammina nel mondo,
è verso di me che cammina.

Chi adesso muore da qualche parte nel mondo,
senza ragione muore nel mondo,
è lui che mi riguarda.