Non ti dimentico, Nanda!

Il 18 agosto scorso ricorrevano dieci anni dalla scomparsa di Fernanda Pivano. Pochi se ne sono ricordati: tra questi, ho notato con grande piacere che un liceo di Catania, per iniziativa di un suo professore, le ha dedicato un bell’omaggio (qui). Ma, in generale, si può dire che l’anniversario è passato inosservato ai più. Non a me, anche se la mia cronica lentezza mi ha poi portato a scriverne soltanto un mese e mezzo dopo.

Peccato per questa generale dimenticanza perché Fernanda Pivano è stata una intellettuale che, senza spocchia, senza entrare mai a far parte di conventicole e gruppi “privilegiati”, ha costituito, con la sua stessa persona, un ponte straordinario tra la cultura italiana e quella “americana”, anzi, più in generale, tra la cultura italiana e il resto del mondo.

Ma parliamo del ponte con l’America. Della cultura di là dell’Oceano ci erano arrivate voci importanti tra gli anni Quaranta e Cinquanta: per opera di Pavese e Vittorini anche l’Italia aveva conosciuto autori come Melville, Faulkner, Steinbeck, Dos Passos e tanti altri: quasi tutti oggetto delle mie letture di ragazzo. Per quanto riguarda la poesia americana, eravamo però rimasti all’Ottocento: Walt Whitman. E basta. Emily Dickinson, la cui opera è stata pubblicata negli Stati Uniti nel 1955 (ma l’edizione critica oggi di riferimento è, nientemeno, del 1998) sarebbe stata conosciuta frammentariamente in Italia a partire dagli anni Sessanta, ma la traduzione completa delle sue poesie è del 2001. Nel frattempo, era stata proprio Fernanda Pivano a tradurre privatamente la Spoon River Anthology utilizzando un originale che le era stato regalato da Pavese: il quale ultimo, scoperta quella traduzione, l’aveva poi fatta pubblicare da Einaudi nel 1943.
Bene: Spoon River. Quindi eravamo arrivati, almeno, ai primi del Novecento. E poi?

Di quel “poi” in Italia non si avevano notizie. Neppure un appassionato come me, negli anni Sessanta, sapeva niente di ciò che si scriveva in versi negli Stati Uniti. Le informazioni che arrivavano si rivelavano più come notizie “di costume” che come precisi ragguagli di critica letteraria: si sapeva che poeti americani piuttosto scombinati e per lo più drogati frequentavano Parigi e che ne erano affascinati; si sapeva che molti vi si erano fermati. Ma che cosa scrivessero quei poeti non lo sapeva nessuno. Allora è arrivata Fernanda Pivano. Che era stata negli Stati Uniti, era stata a Parigi, aveva conosciuto direttamente quasi tutti quegli artisti e che nel 1964 ha stupito tutti noi con la raccolta Poesia degli ultimi americani, un libro con in allegato il manifesto contenente la poesia calligramma di Gregory Corso Bomba.

Altri saranno stati più bravi e più intraprendenti, ma, fino ad allora, la poesia contemporanea, per me, studente all’ultimo anno di liceo, era quella dei surrealisti francesi e degli ermetici italiani, con la grande eccezione de Le ceneri di Gramsci di Pasolini. Eccezione, appunto. I poeti che ora Fernanda Pivano mi faceva conoscere erano un’altra eccezione ancora e, finalmente, le eccezioni cominciavano a trasformarsi nella norma. La poesia contemporanea cambiava faccia. Ed era una faccia seducente.

Inutile dire che poi, per tanti anni, Fernanda Pivano ci ha accompagnati nella conoscenza di ciò che accadeva nella cultura americana. È forse invece utile aggiungere che non sembrano esserci suoi eredi nello svolgimento di questo compito. Oggi, per sapere che cosa succede nella poesia americana, bisogna consultare il sito dell’editore City Lights e provare a comprare qualcosa nelle librerie online targate “us”. Dei poeti americani, se non vincono il Nobel, non si parla: e di poeti americani, a parte il caso Bob Dylan, l’unica a vincerlo è stata Toni Morrison, della quale si è parlato molto, sì, ma solo nel 1993, quando ha vinto il premio, appunto, e quando è scomparsa, proprio ai primi dello scorso mese di agosto.

Insomma, essersi dimenticati di Fernanda Pivano non è stata una bella cosa.
E io non l’ho fatto.
Io non ti dimentico Nanda. E non ti dimentico anche perché, in tanti anni, quel tuo libro sulla Poesia degli ultimi americani è diventato una parte importante di me. Il titolo della mia più recente raccolta di versi, Il cuore in tasca, deriva, niente meno, da una poesia di Frank O’ Hara, poeta che ho conosciuto attraverso quel tuo libro. E, di quel tuo libro, parlo direttamente ed esplicitamente in una poesia, Treno fermo, che ora voglio trascrivere qui.

Lo vedi che non ti dimentico?

Michele Tortorici, Treno fermo, (da: Il cuore in tasca, Manni, 2016)


Sarmenti a terra tra un filare e l’altro si vedono
davanti al finestrino, nella vigna. È tempo
di potature. È, per la precisione, il venti di gennaio il giorno
che scorre intorno a questo treno fermo: un tizio
– dicono con indifferenza i passeggeri
seduti da questo lato nel vagone prima
del mio – attraversava, forse, i binari alla stazione che abbiamo
appena superata. È stato
– dicono con indifferenza i passeggeri –
buttato giù come un birillo
del bowling, ha fatto un salto di lato ed è caduto
sul marciapiede; schiacciato no, comunque. Non è grave
– dicono con indifferenza i passeggeri.

Tutto a posto allora, se non fosse
che siamo fermi e di questa vigna, da dietro il finestrino, chi è rimasto
a guardarla, come per esempio ho fatto io, conosce
oramai tutti i filari, i sostegni
– pali di cemento: quelli
di legno non si usano più – le piante più giovani alla nostra
sinistra, a destra le più vecchie. E la terra indurita aspetta
irrefutabilmente un aratro (ammesso
che si chiamino ancora così le macchine che la rivoltano).

Un vecchio libro che mi piace spesso
portare in tasca, Gli ultimi americani di Fernanda Pivano, antologia
dalle pagine lise
ormai (ci tengo ancora dentro la lunga pagina-manifesto allegata
con la Bomba di Gregory Corso), è una buona
compagnia, è vero. Ma non si adatta, con le irrequietudini
pensose che ancora spande, alla situazione. Ora
il treno è stato riportato indietro
alla stazione di Falciano–Mondragone–Carinola: fuori
viavai di gente, carabinieri, rilievi della scientifica col gesso
sul marciapiede (si fanno anche quando non muore
nessuno? Comincio
a preoccuparmi: sarà vero che non è grave il tizio?) segnali
numerati. E insieme
la domanda «Quando si riparte?» ripetuta ma non si sa bene
rivolta a chi. La Berlino di Ferlighetti – amato autore di tante
altre poesie bellissime – non mi ha mai convinto
molto e mi convince
poco anche adesso. La Bomba invece
la leggo e la rileggo: stendo da una parte e dall’altra
la pagina-manifesto – versione originale
e traduzione. Il fungo atomico che i versi
disegnano mi colpisce ancora e, dentro, gli scoppi
di parole. A cinquant’anni,
quasi, dalla prima volta: Kennedy
era morto da un anno, poco più, non ricordo
con precisione; e la bomba
era nelle teste
di noi che avevamo vissuto – eravamo ragazzi,
ma mica tanto – il muro
di Berlino e poi la crisi
di Cuba. Al ventesimo
Congresso del Pcus, allora sì che eravamo,
neanche ragazzi,
bambini. Generazione del quarantasette. Da quanto
tempo la bomba
era nelle nostre teste! Ma poi anche la speranza. Non era
così male essere ragazzi in quegli anni.

Ora che il treno ha quasi due ore e mezza di ritardo, non si vedono
più i sarmenti: la vigna
è poco più avanti della stazione, sempre la stessa, dove il treno
è fermo adesso ed è comunque buio fitto attorno
ai piccoli coni gialli che i fari
proiettano sul marciapiede. Niente
della vigna: filari, sostegni, piante più giovani e più vecchie; niente
della vigna, potrei più vedere a quest’ora. All’improvviso
si riparte.


Salvare i libri

Oggi, nell’anniversario delle Bücherverbrennungen, i roghi di libri avvenuti la notte del 10 maggio 1933 a Berlino e nelle principali città della Germania, l’Associazione italiana Biblioteche ha promosso la manifestazione “Libri salvati”.

Partecipo con tutto il cuore a questa manifestazione perché il ricordo di quell’orrore della storia europea è diventato col tempo un pezzo della mia storia personale. Come credo sia un pezzo della storia personale di chiunque lavori con le parole.

Ecco dunque alcuni dei miei versi che rappresentano, mettono in scena – potrei dire –, il mio rapporto con i roghi dei libri.

Nel maggio di qualche anno fa, sconvolto da un grande dolore familiare, ho scritto la poesia che trascrivo in parte qui sotto e che è spiegata dall’esergo con la citazione di Calvino.

Michele Tortorici, Non sono bravo a fare lo sputafuoco, (da Il cuore in tasca, Manni, 2018)


La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile,
alla cosa assente, alla cosa desiderata o temuta,
come un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto.
Italo Calvino, Lezioni americane, 3 – Esattezza

Ho ricominciato: ho scritto, dunque, anche se ci sono volte – parlo
con cognizione di causa: ricordo, ecco, un giorno (il sette)
del mese di maggio del duemila e tredici –,
ci sono volte che le parole non vorreste proprio che uscissero
dalla vostra testa. A me è capitato
mica tante volte: poche. Però ricordo, ecco, quel giorno e i giorni
che l’hanno seguito: io volevo essere
allora uno sputafuoco, uno di quelli che davanti
ai tendoni del circo attirano il pubblico. Volevo sputare
una bella fiammata e ridurre le parole
che sarebbero dovute uscire
dalla mia testa, voom, in cenere. Perché da lì, dalla bocca
escono le parole che si trovano nella testa quando vogliamo che altri
le conoscano: in latino si diceva edere, ex dare, dar fuori
dalla bocca, appunto.
[…] Una fiammata, una bella
fiammata e tutte le parole che cercano
di uscire dalla testa attraverso la bocca ridotte,
voom, in cenere. Questo
desideravo quando, come vi ho detto, mi è capitato di volere essere
uno sputafuoco.

Non è giusto,
mi sono detto tuttavia e continuo a dirmi e dico a voi,
non è giusto
mai avercela
con le parole. Che colpa ne hanno? Bisogna saperlo, e difatti
l’ho sempre saputo, che le parole sono fragili ponti
di fortuna – ma che dico fragili, fragilissimi: perciò
da me prediletti – dove
passa la vita ed è necessario che passi anche la morte.

Non è giusto,
mi sono detto tuttavia e continuo a dirmi e dico a voi,
non è giusto
mai avercela
con le parole. E allora? Niente sputafuoco: mi è capitato
di volerlo essere, va bene, ma poi, basta! Niente fiamme, niente
cenere. Ho ricominciato, allora. Continuo
a costruire, come avevo fatto prima
di quel giorno di maggio, come avevo fatto sempre, nuovi fragili ponti
di fortuna. Continuo
a percorrere il mondo lungo queste vie sospese
sul vuoto: vie che però conosco bene; vie,
l’ho sempre saputo, dove
passa la vita ed è necessario
che passi anche la morte. Ho ricominciato. Che altro
avrei potuto fare? Non sono bravo
– sapete? –, non sono bravo per niente a fare lo sputafuoco.


Subito dopo, poiché mi sono reso conto dell’equivoco che quei miei versi potevano far sorgere, ho scritto quest’altra poesia

Michele Tortorici, Devo chiarire, (da Il cuore in tasca, Manni, 2018)


Devo chiarire,
a proposito del fatto che, come sputafuoco, avrei voluto
incenerire parole,
devo chiarire
che mi riferivo alle parole che stavano ancora dentro
alla mia testa, alle parole che se ne stavano
belle tranquille, ancora tutte rannicchiate lì: parole private, insomma,
di mia stretta – intima, direi – proprietà; niente di pubblico.

Devo chiarire
che non mi piace proprio, in generale, bruciare le parole. Perché,
a voi piace? C’è sempre il rischio
– a questo ho pensato solo dopo avere scritto
la poesia sullo sputafuoco –
c’è sempre il rischio che qualcuno vi prenda sul serio
che non capisca, che non disgiunga
il senso metaforico di quel bruciare
da quello letterale o, peggio, che non voglia vedere
la differenza tra il privato e il pubblico. C’è sempre il rischio
che qualcuno dica: «Ecco,
quello lì voleva fare un bel fuoco
con le parole che non gli erano ancora uscite
dalla testa e io voglio farlo
con le parole che sono uscite dalla testa di uno
che a me non piace. Perché
lui sì e io no?». Ce ne sono, statemi a sentire, di quelli
che non perderebbero un minuto se qualcuno
gli desse il la. Ce ne sono, statemi a sentire, di quelli
che non aspettano altro per fare, voom, un falò
– uno di quelli veri, e senza neppure
la virtù circense di uno sputafuoco –
delle parole di qualcuno
che non gli piace. Parole pubbliche, edite:
ricordate? edere, ex dare, dare fuori. Libri, ecco.

Devo chiarire
che non dimentico, che non riesco
– sapete? – a dimenticare i versi di Heine:
«Dort, wo man Bücher /
Verbrennt, verbrennt man auch am Ende Menschen».
Primo atto dell’Almansor.
«Là dove i libri /
si bruciano, si bruciano alla fine pure le persone».

Devo chiarire
che certe parole non le dimentico. Altro che bruciarle.


I versi di Heine che ho appena citati sono ora incisi in una iscrizione che sulla Opernplatz (oggi, ufficialmente, Bebelplatz, ma i berlinesi continuano a chiamarla come prima) precede e segue il Denkmal zur Erinnerung an die Bücherverbrennung realizzato nel 1995 da Micha Ullman: semplicemente una voragine le cui pareti sono ricoperte da scaffali vuoti.

Ecco, qui di seguito, i nomi degli autori i cui libri furono bruciati quel giorno:
Albert Einstein, Alexander Lernet-Holenia, Alfred Döblin, Alfred Kerr, Alfred Polgar, André Gide, Anna Seghers, Arnold Zweig, Arthur Schnitzler, Bertha von Suttner, Bertolt Brecht, Carl Sternheim, Carl von Ossietzky, Charles Darwin, Egon Erwin Kisch, Émile Zola, Erich Kästner, Erich Maria Remarque, Ernest Hemingway, Ernst Bloch, Ernst Erich Noth, Ernst Glaser, Ernst Toller, Erwin Piscator, Eugen Relgis, Felix Salten, Franz Kafka, Franz Werfel, Friedrich Engels, Friedrich Wilhelm Foerster, Georg Kaiser, Georg Lukács, George Grosz, Grete Weiskopf, H. G. Wells, Heinrich Eduard Jacob, Heinrich Heine, Heinrich Mann, Helen Keller, Henri Barbusse, Hermann Hesse, Ilja Ehrenburg, Isaak Babel, Iwan Goll, Jack London, Jakob Wassermann, James Joyce, Jaroslav Ha?ek, Joachim Ringelnatz, John Dos Passos, Joseph Roth, Karl Kraus, Karl Liebknecht, Karl Marx, Klaus Mann, Kurt Tucholsky, Lev Trockij, Leonhard Frank, Lion Feuchtwanger, Ludwig Marcuse, Ludwig Renn, Ludwig von Mises, Maksim Gor’kij, Marcel Proust, Marieluise Fleißer, Max Brod, Nelly Sachs, Ödön von Horváth, Otto Dix, Robert Musil, Romain Rolland, Rosa Luxemburg, Sigmund Freud, Stefan Zweig, Theodor Lessing, Thomas Mann, Upton Sinclair, Vladimir Lenin, Vladimir Majakovskij, Walter Benjamin, Werner Hegemann.

Vorrei concludere questo mio post con la citazione di poche parole di Thomas Mann (uno degli autori i cui libri furono, appunto, bruciati nella notte del 10 maggio del 1933) che mi sembrano attualissime. Già, perché il vero problema, quando qualcuno brucia dei libri, non è tanto il fatto che  li abbia bruciati, di per sé terrificante: il vero problema è ma il criterio con il quale vengono scelti i libri da bruciare; un criterio la cui definizione è, se possibile, ancora più terrificante.

In una discussione tra due dei personaggi simbolo de La montagna magica, Ludovico Settembrini e Leo Naphta, il secondo a un certo punto afferma: «[…] l’autorità è l’uomo, il suo interesse, la sua dignità, la sua salvezza, e tra questa autorità e la veritànon può esserci conflitto. Esse coincidono». Ed ecco la risposta:

«Sie lehren da einen Pragmatismus – erwiderte Settembrini – den Sie nur ins Politische zu übertragen brauchen, um seiner ganzen Verderblichkeit ansichtig zu werden. Gut, wahr und gerecht ist, was dem Staate frommt. Sein Heil, seine Würde, seine Macht ist das Kriterium des Sittlichen. Schön! Damit ist iedem Verbrechen Tür und Tor geöffnet un die menschliche Wahrheit, die individuelle Gerechtigkeit, die Demokratie – sie mögen sehen, wo sie bleiben …»

«Lei sta predicando un pragmatismo» rispose Settembrini «che basta trasporre sul piano politico per coglierne appieno la natura nefasta. È buono, vero e giusto soltanto ciò che giova allo Stato. La sua salvezza, la sua dignità, la sua potenza sono i criteri della morale. Ebbene! Con ciò si spalanca la porta a ogni crimine, e la verità umana, la giustizia individuale, la democrazia …, può ben vedere dove vanno a finire …»

 

 

Auguri, Ferlinghetti

Oggi Lawrence Ferlighetti compie cento anni.
Quattro anni fa, quando ne ha compiuti novantasei, in una poesia (che poi è uscita nella raccolta Il cuore in tasca), gli ho augurato di «scrivere ancora molti versi».
Poiché quegli auguri hanno portato bene, non posso fare altro che pubblicare oggi quella mia poesia.
Con tutto l’affetto verso un poeta con il quale mi sono sempre sentito in una straordinaria sintonia.
In esergo della poesia che trascrivo qui sotto leggete la citazione di una lettera che Giuseppe Gioachino Belli (altro nume tutelare della mia formazione culturale) ha scritto a sua nuora, Cristina Ferretti proprio in occasione del suo sessantottesimo compleanno: lettera che ha, con tutta evidenza, ispirato i miei versi che ho, a mia volta, dedicati alle mie carissime nuore.

Michele Tortorici, La mia età, da Il cuore in tasca (Manni, 2016)


Alle mie nuore, Loredana ed Esra

Cristina mia cara,
nacque nel 1791 Giuseppe Gioachino Belli, il giorno settimo di settembre, alle ore 18 (come in quel tempo si diceva) ossia, come dicesi adesso, ad un’ora pomeridiana. Da tuttociò si conchiude che il Signor Giuseppe Gioachino Belli (seppure è ancora vivo, ché io nol so bene) in questo preciso momento ha compiuto l’anno sessantesimo–ottavo della età sua, e già cammina sulla strada del sessagesimonono. Intanto il Tevere corre e correrà sempre come il Signor Giuseppe Gioachino non fosse mai nato.
Giuseppe Gioachino Belli, Lettera alla nuora del 7 settembre 1859

Care Loredana ed Esra,
è il quindici di luglio, fa caldo: che tempo
volete che faccia? In questo anno che ha il numero
di duemila e quindici, io compio
sessantotto anni. Se dovessi essere così preciso come il mio amato
Giuseppe Gioachino, dovrei dire, mie care, che li compirò
questa sera alle ore ventuno. Ora più, ora meno, è comunque,
la mia, un’età ragguardevole – ne convenite? – alla quale
non sono arrivati tanti
dei poeti che amo e che, come ora faccio io, hanno percorso
il mondo attraverso le parole: ricordate
la citazione di Calvino che ho messo nell’esergo
di una poesia all’inizio di questo libro? Si tratta di quei fragili ponti
di fortuna dove, se passa
la vita è necessario
che passi anche la morte. Ecco.

Un’età ragguardevole, è stato il caso
a volere che io la raggiungessi, con tutto
ciò che questo comporta: per esempio,
il fatto che io abbia visto passare molte vite e molte morti, lo sapete
anche voi. Tanti poeti
non hanno raggiunto questa età. Ma uno, per esempio, Ferlinghetti,
poeta che amo
forse più di ogni altro contemporaneo, ha compiuto nel mese
di marzo scorso felicemente
novantasei anni nella sua San Francisco: voglio leggere
ancora suoi versi; unitevi, mie care, agli auguri
che rivolgo a Lawrence Ferlinghetti perché possa
scriverne ancora molti di versi. D’altro canto,
i poeti non sono differenti dagli altri esseri umani: come tutti
vivono più e meno a lungo, secondo
quello che vuole il caso, appunto. I poeti,
come tutti, muoiono giovani e vecchi, accomunati
tra loro, non dagli anni – pochi o molti – lungo i quali
protraggono la vita, ma dall’avere
tutti, antichi, moderni, giovani, vecchi e io e chiunque faccia parte
di questa combriccola (come vedete, mie care, non mi azzardo
a chiamarla «compagnia»: avete presente
il quarto dell’Inferno ? Ho abbastanza pudore da tenermene
lontano), accomunati, dicevo, dall’avere, noi di questa combriccola,
le «nostre amate sillabe» in testa e dal volere cantare, cioè dal volere
donare il suono
delle parole a «ciò che non si compie». Queste espressioni
che ho messe tra virgolette – vi avverto –,
«nostre amate sillabe» e «ciò che non si compie», le ho prese
dal primo e dal sesto verso di una poesia
di Milo De Angelis, ma le ho – fate attenzione! – unite
a modo mio, quindi non fidatevi, almeno in questa circostanza,
di vostro suocero: non è affatto detto che l’autore
dal quale io le ho attinte avesse
davvero originariamente in testa il significato che è mia
responsabilità aver tirato fuori da un accostamento
forse indebito.

Sapete? Continuo, mie care,
poiché non conosco altre vie, ad attraversare il mondo lungo ponti
di fortuna così fragili – le parole, appunto –
che ogni tanto mi sento più sicuro se mi aggrappo a quelli degli altri.

È il quindici di luglio. Fa caldo: che tempo
volete che faccia? E compio
sessantotto anni. Un’età ragguardevole, ve l’assicuro. Intanto
corre il Tevere e correrà
sempre come il signor Michele non fosse mai nato


Una traduzione da Walt Whitman

Vi faccio gli auguri per questo anno appena cominciato con dei versi di Walt Whitman che credo non siano mai stati visti come versi capaci di esprimere un augurio e che il poeta stesso non ha certo pensato come tali.

Difatti, quella che vi propongo non è una poesia festaiola, ma quale augurio più bello posso farvi rispetto a quelle parole che il poeta americano ha riferite a se stesso, anche se le ha messe, come per troppa modestia, tra parentesi: «Sono ampio, contengo moltitudini»?

“Contenere” moltitudini è molto più che “accoglierle”.
È unirsi all’universo animato: fino a unirsi proprio a quelle “foglie d’erba” che danno il titolo al grande libro di Whitman e dalle quali il poeta dichiara di voler rinascere nel componimento immediatamente successivo a quello che vi allego, il n. 52: il componimento che conclude il Canto di me stesso. Vi auguro di “essere ampi”, di saper “contenere moltitudini”.

Walt Whitman, Canto di me stesso, 51 (versione del 1892), in Foglie d’erba, vv. 1043-1148


The past and present wilt—I have fill’d them, emptied them,
And proceed to fill my next fold of the future.

Listener up there! what have you to confide to me?
Look in my face while I snuff the sidle of evening,
(Talk honestly, no one else hears you, and I stay only a minute longer.)

Do I contradict myself?
Very well then I contradict myself,
(I am large, I contain multitudes.)

I concentrate toward them that are nigh, I wait on the door-slab.

Who has done his day’s work? who will soonest be through with his supper?
Who wishes to walk with me?


Traduzione di Michele Tortorici


Il passato e il presente sfioriscono – li ho riempiti, li ho svuotati.
E insisto: riempirò la mia prossima piega del futuro.

Ascoltatore lassù! Che cosa devi confidarmi?
Guardami in faccia mentre annuso la sera che viene di soppiatto,
(Parla con franchezza, nessun altro ti ascolta e io resto non più di un minuto.)

Mi contraddico?
Benissimo, mi contraddico.
(Sono largo, contengo moltitudini.)

Mi concentro verso quelli che sono vicini, aspetto sulla porta.

Chi ha finito la sua giornata di lavoro? Chi farà prima con la sua cena? A chi piace camminare con me? Parlerai prima che me ne vada? O ci proverai quando sarà già troppo tardi?


Vi auguro di essere pronti sempre a dire la vostra prima che sia troppo tardi. E spero in un 2019 di serenità e di soddisfazioni per tutti voi.

 

Come finiscono i Baccanali

Nel mio recente poemetto Piante del mio giardino, in alcuni versi rivolti alle piante ma chiaramente dedicati ai miei simili, spiego che i baccanali, le feste del superamento del limite (nel caso specifico parlo dell’allegra incoscienza con la quale l’umanità procede verso un insostenibile riscaldamento del pianeta), hanno sempre una fine nefasta. Per farlo ricordo in quei versi che, «come ci ha spiegato tanto tempo fa / Euripide», i baccanali sono feste che accompagnano «la decapitazione / del futuro, […] / la madre che uccide il figlio e che ne porta / la testa mozzata sulla picca». Queste parole terribili, che le mie piante non hanno preso affatto bene e che i miei simili hanno forse lette (quei pochi che le hanno lette) distrattamente, sono una sintesi di ciò che effettivamente accade in una delle ultime tragedie scritte da Euripide, le Baccanti, rappresentata soltanto nel 403 a.C., dopo la morte del suo autore avvenuta nel 406.
Giorni fa, mentre leggevo sui giornali la notizia di una festa notturna di deputati e senatori inneggianti all’aumento del debito pubblico italiano, mi è tornata in mente quella tragedia. Successivamente, la lettura su Twitter di un commento a quell’episodio, «E gli sventurati festeggiarono», mi ha confermato quel ricordo e, insieme a esso, ha potenziato dentro di me il senso di quella tragedia, che va ben al di là di certi eventi, in sé tanto modesti. Già: «Gli sventurati».

Di solito, proprio con questo aggettivo, «sventurato», si traduce in italiano il termine greco ‘τλήμων’ (tlèmon), la cui radice proto-indo-europea, *telə– o *tla-, si può trovare sia nel verbo greco τλὰω (tlào), sia nei verbi latini tolero e tollo, nonché nelle forme irregolari del perfetto e del supino di fero, tŭli e latum, quest’ultima da *tlatum. Insomma, ‘τλήμων’ è colui che porta, che sopporta ciò che di terribile egli stesso fa, e perciò ‘τλήμων’ può prendere a volte il senso di ‘scellerato’, o ciò che di terribile altri fanno. Ora, Euripide usa ‘τλήμων’ per definire, nella parte conclusiva delle Baccanti, due personaggi, Agave e Penteo, entrambi vittime della follia indotta da Dioniso, ma ciascuno di essi in maniera molto diversa.

Il ballo delle Menadi.
Copia romana di un originale greco del V secolo a.C.
Madrid. Museo del Prado.

Vediamo di che si tratta. In questa tragedia Euripide mette in scena un episodio relativo al mito della fondazione di Tebe.
Cadmo, fondatore della città, aveva avuto solo figlie femmine: Agave, Ino, Autonoe e Semele. Aveva quindi nominato come successore al trono suo nipote Penteo, figlio di Agave. Un’altra delle figlie di Cadmo, Semele, amata da Zeus – violentata? Forse sì, forse no –, una volta rimasta incinta, era stata convinta da Era, sorella e moglie gelosissima di Zeus, a chiedere di poter vedere il suo amante in tutto il suo splendore divino. Era rimasta, naturalmente, incenerita. Ma Zeus era riuscito a salvare il feto dal suo grembo e a farlo sviluppare, al sicuro dalle vendette di Era, cucendolo nella sua coscia. Nacque così Dioniso.
Il nuovo dio fu il benemerito scopritore del vino, del sidro e della birra. Oltre a ciò, pretese di essere anche il meno benemerito promotore di ogni stato di coscienza eccitata (o addirittura di in-coscienza) che spingesse gli uomini e soprattutto le donne (considerate all’epoca esseri un po’ inferiori e perciò più facilmente eccitabili) a superare il proprio limite umano per diventare pienamente possesso del dio. Dioniso era anche un po’ vendicativo e odiava, in particolare Tebe. Qui in molti erano convinti che Semele avesse finto di essere stata sedotta da Zeus per nascondere un peccato molto più banale e totalmente umano. In primo luogo, ne erano convinte le sue sorelle: anche allora, parenti serpenti. Non tutti, inoltre, erano propensi a dare il benvenuto a questa nuova divinità che pure si diceva fosse stata concepita a casa loro. Tra i più testardi a negare che il feto di Semele si fosse sviluppato nella coscia di Zeus e fosse ormai un nuovo dio c’era Penteo.
Qui comincia la tragedia. Dioniso, con la sua voglia di vendetta, arriva a Tebe nelle vesti di uno straniero bellissimo e capace di compiere miracoli, si beffa dei tentativi di Penteo di arrestarlo e, infine, conquista addirittura la sua fiducia fino a far sì che sia lo stesso re di Tebe a chiedergli aiuto per andare a vedere i riti delle menadi: le ‘μαινάδες’ (mainàdes), sinonimo di baccanti, dalla stessa radice del verbo μαίνομαι (màinomai) che significa sia “delirare” sia “far delirare”; infatti le menadi delirano perché Dioniso le fa delirare. Penteo, consigliato dal finto straniero, si veste da donna, si mette una benda in testa che nasconda il taglio maschile dei capelli e, accompagnato dallo stesso finto straniero e da un servo si reca in una valle al di là del monte Citerone dove le donne tebane sembrano intente a lavori leggiadri e a innocui canti. Penteo vuol vedere meglio che cosa fanno le menadi. Ed ecco che cosa succede, nel racconto che fa il servo, appena tornato, sconvolto, da quella valle. Nelle sue parole ben tre volte compare ‘τλήμων’ che, nella traduzione, sottolineo in grassetto. La traduzione stessa (che trascrivo con qualche taglio), in versi liberi, è mia.

Euripide, Baccanti, vv. 1043-1148
Traduzione di Michele Tortorici


Penteo, sventurato, che non vedeva quella moltitudine
di donne, disse all’altro: «Straniero, da dove
siamo non raggiungo con gli occhi le malvagie
menadi; se salgo
su un colle o su un abete alto, allora sì potrò
posare il mio sguardo sulle turpitudini
delle menadi».
Ed ecco vedo compiere dallo straniero un’impresa
meravigliosa; preso
il più alto ramo di un abete che arrivava
al cielo, lo tendeva
giù, lo tendeva, lo tendeva fino al suolo nero; […].
Messo a sedere Penteo sul ramo dell’abete, attento
che lui non fosse sbalzato via, lasciò
che piano piano si rialzasse l’albero tra le sue mani, e l’abete
ritornò saldo e alto nell’alto
cielo mentre aveva, seduto sulla sua cima, il mio padrone.
Fu visto, piuttosto che vedere lui le menadi; difatti
si distingueva proprio bene, lui, messo
a sedere lassù, mentre da parte sua non vedeva,
benché fosse lì presente, lo straniero. E a un cero punto
dall’etere una voce,
che doveva essere quella di Dioniso, gridò: «Fanciulle,
ecco, vi porto quello
che di voi, di me, delle orge si permette
di ridere; fate che la paghi».
Mentre diceva così, davanti al cielo e davanti
alla terra brillò il fuoco di una luce sacra. L’aria
divenne muta, mute
restarono le foglie
della valle boscosa e neppure
si sentivano strida di animali selvatici.
[…]; non appena
riconobbero con chiarezza l’incitamento di Bacco, le figlie
di Cadmo, si slanciarono: avevano
i piedi veloci non meno
di colombe quando si protesero nella corsa: la madre
Agave e quelle che avevano il suo stesso sangue e tutte
le baccanti, attraversato
il corso d’acqua sul fondo valle, balzavano
sui dirupi rese furenti dall’influsso del dio.
Quando videro
il mio padrone seduto sull’albero, prima,
appostate davanti a lui su uno sperone
di roccia, lo colpirono
con pietre tirate a tutta forza, e gli scagliarono
addosso come lance i rami degli abeti,
altre scaraventavano per aria i tirsi contro Penteo,
miserevole bersaglio, ma non lo colpivano. Quello sventurato,
difatti, annientato
dallo sconforto, si trovava
al di là di dove poteva raggiungerlo la loro furia. Poi,
a forza di sconquassarle con rami di quercia
scalzavano le radici con quelle leve prive di ferro. Tuttavia
poiché tutte quelle fatiche non davano
nessun risultato, disse Agave. «Forza,
mettetevi tutt’intorno,
menadi, afferratevi
al tronco e così quell’animale
lassù in alto riusciremo a stanarlo,
perché non riveli
i canti segreti del dio. E quelle
con mille mani abbrancarono
l’abete e lo sradicarono dal suolo.
Tanto stava in alto, tanto dall’alto cadde e rovinò
bocconi a terra Penteo con lamenti infiniti; capiva
difatti quanto
l’estremo male gli fosse vicino.
Fu per prima la madre, ministra del dio, a dare inizio
all’assassinio
e lo aggredì; lui gettò via la benda che gli copriva
il capo perché Agave, sventurata, potesse
riconoscerlo e non lo uccidesse, la carezzò
su una guancia e le disse: «Credimi,
madre, sono io, tuo figlio, sono
Penteo, che tu hai messo al mondo nelle case di Echìone;
abbi pietà, madre e, seppure ho commesso
dei peccati, non uccidere tuo figlio».
Lei sputava bava schiumosa, distorceva
le pupille stravolte perché non era in sé,
priva di senno, era posseduta
da Bacco: Penteo
non riusciva a convincerla.
Lei gli afferra il braccio sinistro con le mani,
fa forza contro i fianchi di quel disgraziato,
gli strappa l’omero: non
con la sua forza; fu il dio
che aggiunse tanta destrezza alle sue mani. Ino
compiva sfracelli dall’altro lato
strappando le carni, Autonoe
gli si scagliava addosso con il resto
delle baccanti. Era tutto un insieme
di grida: l’uno
gemeva con quel poco
di vita che gli restava, le altre
ululavano. Una di loro
portava un braccio, un’altra
un piede, ancora con i calzari, le costole
erano messe a nudo dagli strazi; tutte,
con le mani insanguinate giocavano a palla con le carni
di Penteo. Giaceva
a pezzi il suo corpo, un pezzo
sotto le rocce aspre, un altro pezzo
in mezzo al fogliame della profonda selva, difficile
da trovare; il misero capo fu la madre
a prenderlo tra le mani, a conficcarlo
sulla punta di un tirso e, come fosse quello
di un leone montano, a portarselo
attraverso il Citerone
mentre le sorelle danzavano ancora con le altre menadi.
Lei, compiaciuta di quella caccia infausta, si dirige
qui dentro le mura e dichiara che suo compagno,
colui che l’ha aiutata nella caccia, è stato Bacco, glorioso
vincitore, davvero
trionfatore, sì, ma di lacrime.
Quanto a me, mi allontano dalla sciagura, prima
che Agave raggiunga queste case.


Quelle che, all’inizio dell’episodio, sembrano nient’altro che donne intente a lavori leggiadri (d’altro canto, la menade raffigurata nel bassorilievo del Prado appare come una aggraziata danzatrice), invasate dal dio e ricevuta da lui una forza che di per sé non potrebbero avere, si trasformano in furie. Penteo, raffigurazione concreta, vivente, del futuro di Tebe, viene fatto a pezzi. La madre dilania il corpo del figlio, il suo futuro personale, e ne conficca la testa sulla punta di un tirso. Così finiscono i baccanali: con lo strazio del futuro. «Come ci ha spiegato tanto tempo fa / Euripide».

Trascinare lo sguardo fuori da questa notte

Molti anni fa – ma non vi dico quando – ho scritto la poesia che potete leggere qui sotto. Dopo parecchio tempo ho deciso di inserirla in una nuova raccolta, quella che sarebbe poi uscita con il titolo Il cuore in tasca (Manni, 2016). Mentre venivano stampate le bozze del libro, nel luglio del 2016, ne ho parlato con la mia cara amica e traduttrice Danièle Robert, perché proprio in quei giorni era scomparso il poeta francese Yves Bonnefoy (nella foto qui sotto), del quale nella poesia cito (e traduco a modo mio) un verso bellissimo.

È stata Danièle Robert a parlare di quella mia poesia inedita ispirata al verso di Bonnefoy con Florence Trocmé, curatrice del bellissimo sito di poesia Poezibao, impegnata a preparare un hommage al poeta appena scomparso. È successo, così, che Florence Trocmé, colpita da quei versi, li abbia voluti inserire all’interno del suo hommage, sia in italiano sia nella traduzione che nel frattempo ne aveva fatto Danièle Robert. Insomma, prima ancora di essere pubblicata in volume, quella poesia è uscita, con la traduzione francese, nell’hommage di Poezibao a Yves Bonnefoy (vi si accede da questa pagina), unico testo di un poeta italiano. Nel frattempo Florence Trocmé mi ha convinto a cambiare il titolo di quella poesia: da Leggo disordinatamente, il titolo diventò così Dragué fut le regard hors de cette nuit. Si deve proprio a questo cambio “in corsa”, quando già erano state corrette le seconde bozze, un clamoroso errore di stampa nel titolo (ciò che non è mai accaduto nei libri di Manni e che rende Il cuore in tasca una specie di “Gronchi rosa” di questo benemerito editore). Queste vicende mi tornano in mente di quando in quando da un po’ di tempo, perché mi sembra che questa poesia, con una storia così lunga alle spalle, abbia assunto oggi una pregnanza e una attualità che non aveva neanche – forse – quando l’ho scritta.

Michele Tortorici, Dragué fut le regard hors de cette nuit * (da Il cuore in tasca, Manni, 2016)


Leggo disordinatamente, più ancora di sempre. Oggi, per esempio,
ho letto qualche poesia di Bonnefoy, parecchie pagine di un saggio
sull’invenzione del romanzo e, come se i due libri si fossero
accordati fra loro per trovare
un compagno adatto, infine ho letto settanta
pagine circa di una biografia
– autore francese, è ovvio – di Moravia (mi sono accorto,
durante questa lettura, a proposito, che di Moravia ho letto
meno di quello che avrei dovuto – forse voluto, non lo so neanche).

«Trascinato fu lo sguardo fuori da questa notte» scrive Bonnefoy.

Leggo disordinatamente, più ancora di sempre, e scrivo
anche senza nessun intendimento
preciso. Insomma, le parole entrano
nella mia testa e ne escono in tutte
le direzioni possibili. Grazie
a questo loro andirivieni capace di tenermi
ben sveglio mi chiedo: come
trascinare lo sguardo fuori da questa notte?

Leggo disordinatamente e le parole entrano
nella mia testa e ne escono con movimenti
vorticosi che in parte
mi sfuggono. Richiedono pazienza – molta
pazienza, credetemi – per essere ricomposte, per essere messe, cioè,
a posto: da una parte, intendo, quello che leggo e dall’altra
quello che dico e che scrivo. È grazie a questa pazienza – potrei dire
persino testardaggine – che mi chiedo: come
trascinare lo sguardo fuori da questa notte?

È notte, appunto, qui attorno. Dipende da questo se, più ancora
di sempre, leggo disordinatamente e scrivo
anche senza nessun intendimento
preciso parole che mi inducono
a un lavorio continuo e hanno bisogno
di pazienza – di molta
pazienza, credetemi. Come
trascinare lo sguardo fuori da questa notte, dato
che, senza ragione, tutto
è notte qui attorno?


* Verso tratto dalla poesia di Yves Bonnefoy Art de la poesie, in Pierre écrite, Mercure de France, Paris, 1965. La traduzione, «Trascinato fu lo sguardo fuori da questa notte» è mia.

Il mese di giugno e le erbe amare d’Europa

Il poeta Folgòre da San Gimignano (vissuto tra gli ultimi decenni del Duecento e i primi del Trecento: quindi contemporaneo di Dante) [1] è noto in particolare per i Sonetti de’ Mesi (scritti probabilmente intorno al 1309). Sono poesie che imitano il genere dei plazer provenzali nei quali si cantavano aspirazioni di bellezza, amabilità e nobiltà d’animo. Le aspirazioni di Folgòre sono chiare: la piacevolezza di una vita ricca e senza preoccupazioni quale poteva offrirsi alla allegra brigata di giovani borghesi alla quale l’intera “corona” dei Sonetti de’ mesi è dedicata. In particolare, il componimento che ci parla del mese di Giugno, con le sue due quartine ricolme di diminutivi e vezzeggiativi e con la descrizione più di una miniatura che di un vero paesaggio, ci dice quanto forti fossero quelle sue aspirazioni e, al tempo stesso, quanto fossero ancora distanti dalla realtà. In ogni caso, giugno è tra tutti i mesi cantati da Folgòre, quello che più risponde a un ideale di plazer totale affermato in particolare nei concetti espressi dalle parole in rima dell’ultima terzina: amore, cortesia, grazia.


 Di giugno dovvi una montagnetta
coperta di bellissimi arbuscelli,
con trenta ville e dodici castelli
che sieno intorno ad una cittadetta,
 ch’abbia nel mezzo una sua fontanetta;
e faccia mille rami e fiumicelli,
ferendo per giardini e praticelli
e rifrescando la minuta erbetta.
 Aranci e cedri, dattili e lumìe
e tutte l’altre frutte savorose
impergolate sieno per le vie;
 e le genti vi sien tutte amorose,
e faccianvisi tante cortesie
ch’a tutto ‘l mondo sieno graziose.


In realtà la storia d’Europa ci dice che il mese di giugno è stato spesso contraddistinto da situazioni che si collocano all’opposto delle aspirazioni di Folgòre. In quello stesso 1309 nel quale – probabilmente – lui scriveva questo sonetto, proprio nel mese di giugno, appena al di là degli Appennini, si svolgeva, il giorno 7, quella che passò alla storia come una delle più sanguinose battaglie tra Guelfi e Ghibellini: la battaglia di Camerata Picena, che vide contrapposti, da una parte, i Guelfi di Ancona e i loro alleati e, dall’altra, i Ghibellini di Jesi e i loro alleati. Vi furono forse quattromila morti tra i soli anconetani. La tradizione vuole che il campo di battaglia fosse così impregnato di sangue che le erbe che vi crebbero sopra furono amare in seguito per moltissimo tempo.

I resti di un soldato tra le canne della riva del Piave. © Museo Risorgimento Bologna | Certosa

Sempre nel mese di giugno, il giorno 15, poco più di sei secoli dopo la battaglia di Camerata Picena, nell’ultimo anno della Grande Guerra, il 1918, l’esercito austroungarico scatenò la cosiddetta Battaglia del Solstizio [2]: un estremo tentativo di superare la linea di difesa italiana sul Piave, dettato anche dalla difficoltà di rifornimenti da parte dell’esercito imperiale e dalla conseguente necessità di arrivare alle pianure del Veneto dove in quei giorni il grano era maturo. Un tentativo che si rivelò tanto disperato quanto sanguinoso. In una decina di giorni, dei 500.000 uomini impegnati dagli austroungarici in quell’azione di sfondamento, ne morirono circa 150.000: tra questi, moltissimi “ragazzi dell’Uno”, diciassettenni reclutati all’ultimo momento più per fare numero, dunque per fare da carne da macello, che non per combattere. I caduti italiani furono 90.000: tra questi, moltissimi “ragazzi del Novantanove” diciannovenni reclutati per lo stesso scopo per il quale erano stati reclutati i loro “nemici” austroungarici.
Inutile parlare di tutti i morti, militari e civili provocati in Europa da quella guerra sciagurata provocata dallo scontro feroce di nazionalismi: circa diciotto milioni, dai quali restano esclusi i morti dell’epidemia di influenza spagnola [3] che si diffuse proprio nei mesi finali del conflitto: soltanto in Italia, in mancanza di cifre ufficiali, si stima che i morti causati da quella epidemia siano stati da un minimo di 370.00 a un massimo di 650.000.

Sempre nel mese di giugno, il giorno 22, appena 23 anni dopo la Battaglia del Solstizio, appena 77 anni fa, Hitler lanciava tre milioni di uomini nell’invasione dell’Unione Sovietica. Quasi un terzo di quei tre milioni cadranno soltanto nella Battaglia di Stalingrado. Ma intanto erano caduti quasi quattro milioni di soldati sovietici: oltre un milione solo nella stessa Battaglia di Stalingrado.
Inutile parlare dei morti civili di quell’invasione.
Inutile parlare di tutti i morti, militari e civili, provocati in Europa da quella guerra sciagurata scatenata dai nazisti: circa quaranta milioni.

Questo è stato il mese di giugno nell’Europa dei secoli passati.
Questo è stato il mese di giugno in quell’Europa senza regole comuni, senza discipline alle quali i singoli stati devono sottostare, senza controlli dei bilanci, insomma senza tutte quelle norme che una “unione”, qualunque essa sia, anche la più sgangherata delle polisportive, impone a chi ne fa parte.
Questo è stato il mese di giugno in quella Europa i cui campi inondati di sangue avranno prodotto anch’essi per secoli erbe amare come quelli delle splendide colline marchigiane macchiate dallo scontro fratricida del 1309.
Questo è stato il mese di giugno in quella Europa che oggi sognano i sostenitori del “sovranismo”, quello che una volta si chiamava, più semplicemente, nazionalismo.

Io non voglio tornare a quell’Europa là.
Io preferisco il mese di giugno al quale aspirava Folgòre. Lo so che è un sogno. Ma, almeno, è un bel sogno. E l’Unione Europea che c’è oggi, quella con tante difficoltà e tanti problemi, nonostante quelle difficoltà e quei problemi, mi aiuta a tenerlo nel cassetto.


[1] Giacomo di Michele da San Gimignano, chiamato dai suoi concittadini Folgòre (cioè “fulgore, “luce”).
[2] Questo nome le fu dato da Gabriele D’Annunzio nel discorso Il comando passa al popolo; (23 giugno 1919) inserito nell’opera Il sudore di sangue insieme agli altri discorsi pronunciati a Roma nell’estate del 1919 in preparazione della spedizione di Fiume che avvenne nel settembre dello stesso anno. Ne Il comando passa al popolo D’Annunzio prende le mosse proprio dalla battaglia con la quale gli austroungarici avevano tentato, un anno prima, di rompere la linea del Piave sulla quale l’esercito italiano si era attestato dopo Caporetto. Tra le altre frasi a effetto di quel discorso quella secondo la quale «il Fiume maschio [cioè il Piave] trascinava grappoli di cadaveri austriaci, da Nervesa al mare».
[3] Chiamata così perché la Spagna fu il primo dei paesi europei a esserne colpita”

Come comincia la tragedia di Romeo e Giulietta

Come tutti sanno, per la tragedia di Romeo e Giulietta (1594-1595), William Shakespeare si è ispirato alla novella di Luigi Da Porto (1485-1529) Historia novellamente ritrovata dei due nobili amanti, con la loro pietosa morte intervenuta già nella città di Verona nel tempo del signor Bartolomeo della Scala.

In questa novella, scritta intorno al 1524, un’aria fosca regna sin dalle prime righe. Essa comincia infatti con la descrizione della «crudelissima nimistà [inimicizia]» che regnava tra le due famiglie dei Capelletti e dei Monticoli (poi sempre chiamati Montecchi). Nella tragedia di Shakespeare è tutto diverso. Dopo il Prologo che dà notizia dei tristi eventi che seguiranno, l’azione scenica vera e propria comincia con un dialogo tra due servitori attraverso il quale solo indirettamente veniamo informati dei contrasti tra Capuleti e Montecchi. Non si tratta affatto di un dialogo dal tono cupo e angosciato come l’argomento sembrerebbe richiedere.
Tutt’altro. Quello con il quale Shakespeare dà avvio a una delle più dolorose tragedie che egli abbia scritto è un dialogo comico, infarcito di battutacce, doppi sensi (che hanno da sempre messo in difficoltà i traduttori), volgarità: una buffonata che certamente, nel pubblico dell’epoca, in grado di capire al volo battute che oggi mettono in difficoltà persino gli anglofoni, doveva suscitare un’ilarità generalizzata. Per capire meglio e per ricordare questo dialogo a chi da un po’ di tempo non avesse letto o non avesse visto a teatro lo trascrivo qui sotto. L’originale si può leggere qui, in una pagina del bellissimo sito che contiene tutte le opere del drammaturgo inglese accuratamente commentate. La traduzione è mia.

William Shakespeare, Romeo e Giulietta, Atto I, Scena I
Traduzione di Michele Tortorici


Sansone – Ah, Gregorio, puoi star certo che a dire zozzerie non ci frega nessuno.
Gregorio – No, tant’è vero che inzozzare è il nostro mestiere.
Sansone – E se ci fanno zozzate, allora tiro fuori questa (indica la spada).
Gregorio – Fin che vivi, il naso zozzo te lo pulisci con le mani degli altri.
Sansone – Sì, ma se mi fanno incazzare, scatto io veloce con le mie mani.
Gregorio – Però non sei così veloce a farti provocare.
Sansone – Un cane della casa dei Montecchi, quello mi fa scattare.
Gregorio – Già, se ti provocano, scatti, ma chi ha coraggio sta fermo. Tra scattare e scappare la differenza è poca.
Sansone – Un cane di quella casa mi fa scattare a star fermo: uomo o donna dei Montecchi, se ne incontro uno, dalla parte del muro non mi sposto.
Gregorio – Oh, come si vede che sei delicato! Dalla parte del muro passa sempre il più delicato.
Sansone – Vero. Per questo le donne, che sono il massimo della delicatezza, vanno sempre spinte contro il muro. E per questo io caccio dal muro i servi dei Montecchi e ci ripasso le serve.
Gregorio – Qua i padroni se la vedono coi padroni e i servi coi servi.
Sansone – Per me è lo stesso. Mi comporterò comunque da prepotente. Combatterò con i loro uomini e sarò crudele con le loro donne: fino a levargli le teste.
Gregorio – Le teste? alle donne?
Sansone – Le teste alle donne. Ma certo: gli levo la veste. Non è questo che volevi sentirmi dire?
Gregorio – Sono loro che devono sentirlo per bene quando lo prendono.
Sansone – Oh, finché sono capace di stare in piedi, glielo faccio sentire. Lo sanno che sono un bel pezzo di carne.
Gregorio – Davvero? Una carpa? Ma no: se fossi un pesce tu saresti un baccalà. Dai, se hai un’arma, tirala fuori: arrivano due di casa Montecchi.
Sansone – Ho già sguainato la spada. Attacca tu che io ti vengo dietro.
Gregorio – Come? Ti giri indietro e scappi?
Sansone – Non aver paura per me.
Gregorio – Orca madosca, ho paura di te.
Sansone – Restiamo dalla parte della legge: lascia che comincino loro.
Gregorio – Quando gli passo davanti gli do un’occhiataccia e facciano quello che gli piace.
Sansone – Facciano quello di cui sono capaci, piuttosto. Mi mordo il pollice: è un modo di provocarli. Vediamo come la prendono.


Shakespeare, un genio nell’analisi dell’animo umano e delle azioni umane, sapeva benissimo che, sia negli accadimenti più banali sia in quelli di maggiore importanza, può capitare che una tragedia cominci con una pagliacciata.

 


Le api del mio giardino (e le altre)

20 maggio 2018: prima Giornata mondiale delle api

Accolgo con gioia la notizia (fornita dall’Ansa, ma – mi sembra – ben poco ripresa dalla stampa, tutta protesa a informarci del “royal wedding”) che, dopo decenni di disattenzione delle istituzioni nazionali e sovranazionali verso i metodi della produzione agricola, qualcuno si è accorto dell’importanza delle api. Si tratta, niente meno, della Fao (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura).

Un’ape su un fiore di peonia nell’isola di Mainau, la cosiddetta “Blumeninseln” (Isola dei fiori) sul lago di Costanza. La foto è mia.

Ecco, nella convinzione – finalmente! – che tutti i paesi e i singoli individui debbano «fare di più per proteggere le api e gli altri impollinatori», la Fao ha istituito la Giornata mondiale delle api che si celebra oggi per la prima volta. Ho deciso, in questa occasione senza i miei soliti indugi e ritardi, che fosse il caso festeggiare tempestivamente l’evento.
Come? Naturalmente con alcuni versi. Si dà il caso, infatti, che delle api io parli, senza che nessuno me l’abbia suggerito, nel mio libro più recente, Piante del mio giardino, del quale vi ho dato notizie nel post precedente.
In questo mio libro parlo delle api una prima volta, rapidamente, a proposito di quegli sciami che, proprio in questa stagione, anzi in questi giorni, volano sui grappoli di fiori bianchi delle robinie e che, oltre al resto, «offrono, per la somma / dei molti ronzii, un’armonia la cui origine / accidentale non toglie niente alla grazia / musicale del risultato ultimo». Ma soprattutto ne parlo a proposito della mietitura delle spighe di lavanda, che deve ancora venire: il suo tempo verrà tra la fine di giugno e i primi di luglio. Il fatto è che le api sono molto ghiotte del polline della lavanda. Ma c’è un modo per non disturbarle. Di questo parlano i versi che seguono. Il libro Piante del mio giardino, edito da Campanotto, è già in libreria. Se non doveste trovarlo, lo riceverete più o meno una settimana dopo l’ordine. Altrimenti si trova nelle librerie on line.


[…]
Quando mi decido a mieterle devo stare attento
a non infastidire le api che, innumerevoli,
si affollano intorno alle spighe fiorite: si affollano
– è proprio la parola giusta – tanto che a volte
avrei persino un certo timore a passare lì a fianco,
se le stesse api,
quando mi avvicino, non mostrassero
una certa indifferenza e non dessero prova,
in questo modo, di volere
intrecciare con me una di quelle amicizie basate
sul principio, che forse sarà un po’ cinico ma certo
è efficace, di evitare
a vicenda di molestarsi. Rispettoso
della natura di questa amicizia,
per non molestare le api, sistemo ogni volta
tutta la faccenda della mietitura quando loro
si sono già ritirate: me la sbrigo
in non più di un’ora, alle luci
estreme del giorno. Aspetto
difatti che si sia allontanata anche l’ultima
«ape tardiva», come la chiamerebbe il mio caro,
indimenticabile Giovannone, Giovannino,
però, per le sorelle nelle quali i ricordi
d’infanzia prevalevano
sulla considerazione delle visibilmente non piccole
dimensioni del fratello poeta. Parlo – devo
proprio spiegarlo? – di Pascoli: vi avevo
preavvertiti[1].


 


[1] In alcuni versi precedenti avevo infatti preannunciato questa mia citazione pascoliana

Lettera aperta a don Matteo

Programmi tv popolari e di massa sì, ignoranza popolare e di massa no!

Caro don Matteo,

ti voglio bene da sempre (sin da quando facevi a pugni a fianco dell’indimenticabile Bud Spencer: se non eri tu, quel tipo ti assomigliava molto), seguo spesso le serie delle quali sei protagonista e, in generale, le apprezzo molto.
La ripetitività dell’intreccio mi dà sicurezza. Tu salvi un innocente e mandi in galera un colpevole che però ha vicino a sé Gesù: molto più vicino di prima e più vicino di quanto egli stesso non pensasse (confesso che non amo molto questo tipo di preti che chiamerei “giustificazionisti”; ma, se fosse possibile, tu me li faresti diventare simpatici). Nel frattempo l’allegra canonica della quale tu sei il capo brulica di fatti da nulla (dagli amoretti di una giovane ospite alle acconciature di Natalina) ai quali i diretti interessati danno un’importanza spropositata. E questo è bello: a tutti noi, difatti, capita proprio così. Altrettanto accade nell’allegra stazione dei carabinieri, tra amoretti di capitani, capitane, magistrati e magistrate e battute imperdibili (davvero, mi dispiace perderle, quando ho altro da fare) del maresciallo Cecchini. Da questi sparsi eventi la cultura è, per lo più, assente: e anche questo riflette quanto capita a tutti noi. Chi non si riconosce in queste futilità? Sono assolutamente d’accordo che debba andare così: ho scritto versi sulla bellezza e l’importanza dell’inutilità e non mi rimangio niente.

Bene. Perché allora, caro don Matteo, nell’ultima puntata, la seconda di giovedì 15 febbraio, hai mandato a monte questa ripetitività e la sicurezza che da essa deriva a me e alle masse che ti seguono? Beh, te lo assicuro: così facendo, hai mandato a monte l’intero “sistema don Matteo”.
Già, nell’ultima puntata, in un monastero che ricorda troppo da vicino (persino nell’ordine monastico che vi è coinvolto) quello de Il nome della rosa, il primo inquisito è – incredibile! – anche il colpevole. Tu, che non sei certo Guglielmo da Baskerville, di conseguenza, non puoi salvarlo; puoi soltanto far capire a tutti qual è il vero movente dell’omicidio: non il furto di un “libro del Cinquecento”, ma la difesa di chi quel “libro” aveva falsificato.

Ora, ecco, tu non sei Guglielmo da Baskerville. Questo è il problema. Trasformarti da parroco-detective in intellettuale esperto di “libri” è stato un atto di presunzione e anche un’imprudenza fatale che ti ha portato a sferrare, in questo ultimo episodio del quale sei stato protagonista, vere e proprie bordate di ignoranza alle masse di telespettatori che da te si aspettano ben altro. Vediamo di che si tratta.

Prima bordata.
Per tutta la durata del filmato si parla – e tu parli – di un “libro”, che forse era stato scritto da san Benedetto, e che comunque risaliva al “Cinquecento”. Ebbene, in quel periodo, i “libri” non esistevano. Esistevano “codici”, “manoscritti”: l’oggetto che si vede maneggiare da monaci e inquirenti nel corso dell’episodio è del tutto inverosimile come “codice” (e non “libro”) del “Cinquecento”. Il docente universitario venuto da Roma che aveva partecipato, da esperto, alla falsificazione, se non fosse stato ucciso a causa della sua volontà di ritirarsi dall’inganno, andava, lui sì, messo in galera! Per incompetenza, beninteso.

Seconda bordata.
Per tutta la puntata il secolo di Benedetto da Norcia è denominato da tutti, e dunque anche da te, “il Cinquecento”. Ma, quando ci si riferisce ai secoli che precedono l’anno Mille, si preferisce sempre usare l’ordinale: qui “il sesto secolo”. L’uso dell’ordinale evita infatti confusioni: il sesto secolo non si può in alcun modo confondere con “il Cinquecento”, espressione che di solito che si usa, in breve, per riferirsi al Millecinquecento. Ora, in questa puntata tu stesso hai fatto confusione: e che confusione! Alla fine della puntata, mentre, da presunto intenditore di “libri” del “Cinquecento”, esponi a un monaco (il falsificatore), come sono andati realmente i fatti e il modo in cui l’hai abilmente scoperto, parli inavvertitamente (!?) del “Millecinquecento”. Nell’esporre la tua singolare teoria sulle macchie lunari (tra poco ci arrivo: è la terza bordata d’ignoranza), affermi infatti: «Nel Millecinquecento le macchie lunari non erano ancora conosciute. Le avrebbe scoperte Galileo nel Milleseicento». Cito a memoria (Raiplay non mi ha aiutato), ma metto lo stesso tra virgolette perché le due date tu le dici proprio così: non dici “Fino al Millecinquecento”, dici «Nel Millecinquecento» e in questo modo, dopo un’intera puntata di equivoci sul “Cinquecento”, collochi Benedetto da Norcia (480-547 d.C.) mille anni dopo la sua reale esistenza.

Terza bordata.
E veniamo alla terza bordata di ignoranza. Le macchie lunari. Tu, con una lente d’ingrandimento degna di Sherlock Holmes o di Poirot, vedi nel “libro” la miniatura di una luna rappresentata con le macchie lunari e, a quel punto, da vero esperto (!), ti rendi conto del falso, vai dal monaco che l’ha perpetrato e gli dici la frase che ho sopra citato tra virgolette.
Ma, caro don Matteo, siccome l’uomo è dotato di vista, da quando un homo di qualsiasi specie è apparso sul nostro pianeta, gli è bastato alzare la testa all’insù per vedere le macchie lunari e, successivamente, per rappresentare la luna (anche quando la raffigurava come una falce) con le sue macchie.
Le macchie della luna sono sempre state viste da tutti. Alcuni hanno provato a spiegarne la causa. In particolare ci hanno provato i commentatori medievali di Aristotele che consideravano le teorie cosmologiche del filosofo greco il fondamento scientifico adatto alla loro visione religiosa del mondo, ma non volevano contraddire il dato di fatto inconfutabile. Tommaso d’Aquino dedica a questo problema un intero paragrafo della Lectio 12 della sua Espositio in libros Aristotelis De caelo et mundo [1]. Dante dedica a questo problema una parte importante del II canto del Paradiso e, nell’Inferno (XX, 128), cita una credenza popolare secondo la quale sulla luna era finito Caino con un fardello di spine e proprio dall’ombra di Caino e di quelle spine derivavano le macchie da tutti osservate.

Caro Don Matteo, così come non ha scoperto l’acqua calda, Galileo non ha scoperto neppure le macchie lunari: di queste ultime ha semplicemente spiegato la causa (nel Sidereus Nuncius, 1610) dato che con il suo cannocchiale poteva osservare la superficie della luna molto meglio di quanto non si fosse potuto fare prima di lui.
Caro don Matteo, ti prego, con sincero affetto, torna nella tua parrocchia, partecipa a quei piccoli fatti della tua allegra canonica che tanto ci fanno identificare nei personaggi che ti attorniano, fai pure il detective a tempo perso e, come conclusione delle tue indagini, esprimi pure senza mai il minimo dubbio la tua posizione di prete “giustificazionista”. Ma rinuncia a fare l’esperto di codici del VI secolo o di qualunque altro argomento culturale. Per un motivo semplice: perché un programma popolare non può diffondere ignoranza presso il popolo.

Confido nel tuo buon senso.
Grazie.
Michele


[1] Considerandum est autem quod causa illius diversitatis quae in superficie lunae apparet, a diversis diversimode assignatur. Quidam enim dicunt quod causa illius diversitatis est aliquod corpus interpositum inter nos et lunam, quod prohibet nos ne videamus totaliter claritatem lunae; unde ex illa parte qua inter visum nostrum et lunam interponuntur huiusmodi corpora, videtur esse quaedam obscuritas, ex eo quod claritatem lunae in illa parte non videmus. Sed hoc non potest esse: quia illud corpus interpositum inter nos et lunam, non eodem modo interponeretur inter lunam et visum hominis in quacumque parte mundi; et ita non videretur similis dispositio in luna ex omni parte mundi; sicut non videtur similis dispositio eclipsis solaris ex omnibus partibus mundi, ex interpositione lunae inter solem et visum nostrum. Quod circa praedictam diversitatem lunae non accidit: nam similiter videtur ex omnibus partibus terrae, sive Orientalibus sive Occidentalibus, sive Australibus sive borealibus. Alii vero dicunt quod huiusmodi obscuritas apparens in luna, est quaedam similitudo alicuius corporis, puta terrae aut maris aut montium, quae resultat in luna ad modum quo resultat forma in speculo. Et hoc etiam tollitur per eandem rationem. Quia si huiusmodi formae in speculo viderentur ex quadam reflexione visualium radiorum, vel etiam formarum visualium, non ex omni parte terrae similis diversitas appareret in luna, sicut nec forma in speculo apparet secundum eandem dispositionem undique aspicienti: quia reflexio fit ad loca determinata, secundum proportionem corporum ad quae fit reflexio. Et praeterea secundum hoc ratio Aristotelis non valeret: quia posset dici quod semper talis diversitas apparet nobis in luna, non quia semper eadem eius superficies sit ad nos conversa, sed quia quaelibet eius superficies ex praedictis causis recipit in se huiusmodi apparentiam, quando ad nos convertitur. Et ideo alii dicunt, et melius, quod talis diversitas videtur in luna propter dispositionem suae substantiae, non autem propter interpositionem alicuius corporis, vel quamcumque reflexionem. Et horum est duplex opinio. Quidam enim dixerunt quod formae effectuum sunt quodammodo in suis causis, ita tamen quod quanto aliqua causa est superior, tanto diversae formae effectuum sunt in ea magis uniformiter; quanto vero est inferior, tanto formae effectuum sunt in ea magis distincte. Corpora autem caelestia sunt causa inferiorum corporum; inter corpora caelestia infimum est luna; et ideo in luna, secundum inferiorem eius superficiem, continetur quasi exemplaris diversitas corporum generabilium. Et ista fuit sententia Iamblichi. Alii vero dicunt quod, licet corpora caelestia sint alterius naturae a quatuor elementis, praeexistunt tamen in corporibus caelestibus, sicut in causis, proprietates elementorum; non tamen eodem modo sicut in elementis, sed quodam excellentiori modo. Inter elementa autem supremum est ignis, qui plurimum habet de luce; infimum autem terra, quae minimum habet de luce. Et ideo luna, quae est infima inter corpora caelestia, proportionatur terrae, et assimilatur quodammodo naturae ipsius; et ideo non totaliter est illustrabilis a sole. Unde ex illa parte qua non perfecte illustratur ab eo, videtur in ea esse quaedam obscuritas. Quae quidem obscuritas semper apparet secundum eandem dispositionem in luna: quod non esset si luna revolveretur, quia paulatim immutaretur aspectus talis obscuritatis.