Nell’attesa abulica del riscaldamento globale
Una volta tanto mi attengo all’attualità. O quasi. Parlo di ciò che è accaduto ieri.
Una mia poesia di qualche anno fa, Le dune e i laghi salmastri (nella raccolta Viaggio all’osteria della terra, Manni, 2012), si concludeva con un verso che potrei definire “sentenzioso” e difatti era, non a caso, un endecasillabo: «Non è concessa a noi l’indifferenza». A noi: cioè, come si ricavava con chiarezza dai versi precedenti, a noi che viviamo su questa terra e che abbiamo discernimento; la poesia potete leggerla qui per intero.
Non vi sembra abbastanza attuale? Non vi sembra che il verso appena ricordato abbia a che vedere con ciò che è accaduto ieri?
Già, difatti: che cosa è accaduto ieri? Ieri è fallito il tentativo di Cop 25 di raggiungere un’intesa su un documento finale. In particolare, le divergenze tra le Parti (Cop è acronimo di Conference of Parties: cioè i vari paesi del mondo) hanno impedito l’attuazione dell’art. 6 dell’Accordo di Parigi di un anno fa: attuazione che era, appunto, l’obiettivo principale di Cop 25. Le Parti sono state divise da contrasti insanabili su come regolare il cosiddetto “mercato del carbonio”.
Che cos’è? cerco di spiegare che cosa ho capito io.
L’articolo 6 dell’Accordo di Parigi consente per un Paese la «mitigazione delle emissioni di gas a effetto serra» anche attraverso la riduzione dei livelli di emissione in un «Paese ospitante, il quale trae beneficio dalle attività di mitigazione risultanti in riduzioni di emissioni che possono anche essere usate da un’altra Parte per ottemperare al proprio contributo determinato a livello nazionale». In questo modo l’articolo 6 dell’Accordo di Parigi mira a «produrre una complessiva mitigazione delle emissioni globali» (sott.: di gas a effetto serra).
Questo articolo è un mezzo imbroglio e non a caso è scritto in una forma molto contorta (anche nell’originale in inglese): in sostanza io, Paese X continuo a produrre emissioni di gas a effetto serra, ma vengo considerato virtuoso se, per esempio piantando alberi, riduco le emissioni in un Paese Y (Paese ospitante), che ne trae beneficio. Cop 25 doveva stabilire come regolare questo imbroglio. Alcuni paesi (USA, Cina, India, Arabia Saudita, Australia: tra i più grandi produttori di petrolio, di carbone e comunque di gas a effetto serra) non ne hanno voluto proprio sapere di mettersi a discutere; il Brasile ha proposto di trasformare questo imbroglio semplice (e, comunque, a impatto zero per il pianeta, cioè emissioni né ridotte né aumentate) in un imbroglio doppio: la riduzione di emissioni si sarebbe dovuta considerare due volte, una per il Paese X e una per il Paese Y; il questo modo il Paese Y avrebbe potuto a sua volta produrre emissioni corrispondenti a quelle ridotte sul suo territorio dal Paese X. Risultato: anziché impatto zero per il pianeta, la possibilità di un aumento illimitato delle emissioni; un film di Totò trasferito dal genere comico a quello tragico. L’Unione Europea e altri Paesi si sono opposti e hanno preferito rinunciare a un accordo pur di non firmare un accordo farsa. Quindi, come se nulla fosse, tutto continuerà come prima: almeno fino a giugno 2020.
Ieri sera la notizia del fallimento di Cop 25 non era nell’apertura di nessuno dei telegiornali (che sono riuscito a vedere). E oggi non si trovava al primo posto sulla prima pagina di nessuno dei quotidiani italiani (tra quelli che il mio gentile edicolante mi ha mostrato: grazie, Franco!). La parola che descrive bene l’insieme delle reazioni a questa notizia è indifferenza. Soltanto pochi (o molti, a seconda della prospettiva) attivisti “verdi”, guardati con supponenza o con fastidio, hanno reagito con toni allarmati o con azioni dimostrative forti (qui sopra una foto della performance shock realizzata dagli aderenti a Extinction Rebellion al laghetto dell’Eur a Roma).
Qualche anno dopo la pubblicazione della poesia della quale ho parlato all’inizio di questo intervento, in un libriccino impreziosito dalle illustrazioni di Marco Vagnini, Fine e principio (Anicia, 2015), ho immaginato che la fine del mondo dovuta alle estreme conseguenze del riscaldamento globale avvenisse «in un giorno come tanti» nella più completa indifferenza generale.
La poesia si intitola, appunto, Il sole è precipitato in un giorno come tanti e prende spunto dal mito di Fetonte così come ce lo ha tramandato Ovidio. Nei miei versi il fenomeno è descritto in quello che potrei definire il “diario impossibile” (come potrebbe essersi conservato, dopo la fine del mondo?) di un impiegato che va al lavoro e che, sin dall’inizio, dichiara: «Eravamo / come sempre occupati nelle nostre / attività quotidiane e non ci fregava niente di tutto il resto: poteva succedere / qualunque cosa e neanche / ce ne accorgevamo».
Ecco: se escludo la consapevole preoccupazione dei pochi (o molti) attivisti dei quali parlavo prima, vedo quasi dappertutto nel mondo una totale indifferenza: la stessa che caratterizza il protagonista di questa poesia e che noi, viventi su questa terra e dotati di discernimento, non dovremmo avere mai, non dico di fronte a fenomeni estremi che minacciano l’esistenza del genere umano, ma di fronte a nessun accadimento.
Naturalmente, il testo della poesia è, come ho detto, un “diario impossibile” e ciò attenua il pessimismo di questi miei versi che, altrimenti, potrebbero essere definiti “catastrofisti”. Invece si propongono soltanto di ricordare a tutti che «non è concessa a noi l’indifferenza».
Michele Tortorici, Il sole è precipitato in un giorno come tanti (da Fine e principio, Anicia, 2015)
«Tum vero Phaethon cunctis e partibus orbem
adspicit accensum nec tantos sustinet aestus»
Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, II, vv. 227-228
Il sole è precipitato in un giorno come tanti. Eravamo
al solito occupati nelle nostre
attività quotidiane e non ci fregava niente di tutto il resto: poteva succedere
qualunque cosa e neanche
ce ne accorgevamo. Molti di noi, come capita,
erano usciti di casa malvolentieri. Per esempio, la sera precedente io
avevo trovato posto per la macchina lontano da casa e quel giorno, un giorno
come tanti altri, mi ero dovuto alzare ancora più presto del solito per fare a piedi
un tratto piuttosto lungo – dieci minuti, un quarto d’ora – e riuscire
ad arrivare sulla via Appia prima che il traffico si fermasse del tutto. Ma c’era,
ne sono sicuro, chi si trovava con la stessa mala voglia
– magari la macchina più vicina a casa – dall’altra
parte del mondo: naturalmente non so come si chiamano le loro vie
né se anche lì, lungo una qualche strada simile
alla via Appia il traffico si ferma
del tutto a certe ore, forse no; da quella
parte del mondo non sono mai stato, non so altro che un po’ di geografia
imparata al ginnasio, ripassata
casualmente con qualche programma tivù di Geographic Channel, e conosco
abbastanza bene soltanto
il torneo di tennis che si gioca a Melbourne, uno dei quattro
del grande slam,
e le squadre di rugby di Australia e Nuova Zelanda.
Il sole è precipitato in un giorno che, al solito, c’erano già le file, nonostante
le precauzioni che molti di noi – io, tra gli altri, con una levataccia che lo stomaco
mi saliva ancora fino alle orecchie – avevano prese per partire
presto. Arrivare
al lavoro, insomma, era stato già difficile. Perciò, una volta arrivati, eravamo
così storditi che, se già prima non ci fregava niente
di tutto il resto, figuriamoci adesso: poteva succedere
qualunque cosa. Mentre stavamo in fila,
i cantieri avevano cominciato i lavori: noi
che eravamo passati per la via Appia avevamo visto gli operai fare salire
e scendere le funi dalle carrucole montate sulle impalcature
del palazzo in ristrutturazione a largo dei Colli albani. I negozi, invece,
dovevano ancora aprire, tranne bar, edicole,
è ovvio, e pochi altri. Ancora più tardi avrebbero aperto
i centri commerciali, però era giovedì, mancavano
due giorni al sabato. Il sabato ai centri commerciali saremmo
andati tutti per fare due passi.
Il giorno che il sole è precipitato, c’è stato uno nel mio ufficio che per primo
ha visto il chiarore
diventare troppo forte e ha detto: «Ma che cazzo fanno? Qualcuno
abbassi le serrande!». Poi, quando anche il caldo è diventato
troppo forte, ha detto: «Ma che cazzo fanno? Qualcuno
accenda l’aria condizionata». E ha aggiunto: «Che? siete scemi?». C’era,
ne sono sicuro, chi si trovava con la stessa mala voglia dall’altra
parte del mondo: avranno anche loro cantieri
che aprono già la mattina presto e negozi
che aprono un poco più tardi e uffici dove c’è uno che è il primo
ogni volta a dire le cose
che magari anche gli altri pensano, ma se le tengono
per sé. Centri commerciali? Dall’altra
parte del mondo? Figuriamoci. Il sabato
sarebbero stati tutti là anche loro. Mancavano
due giorni (forse per loro ne mancava uno
soltanto, ma non importa), sarebbero stati tutti là,
se il sabato fosse venuto, ci scommetto. Per quanto riguarda
gli uffici, poi, si alzano
anche da loro e si abbassano
le serrande o le tende o quello che hanno. E quando
fa caldo si accende
l’aria condizionata. Insomma,
immagino che tutto andasse dovunque come era sempre andato. Però
non ci eravamo accorti che era alla fine, sì era proprio alla fine quell’andare lì.
Nel mio ufficio, solo dopo che quel tipo ci aveva detto «Che, siete scemi?»
abbiamo cominciato a porre mente locale sul fatto
che stava succedendo qualcosa di irreparabile, di solito quello era uno educato,
noioso sì, ma educato. La parola fine ha cominciato
a circolare prima in una stanza, poi in un’altra, poi in tutto il corridoio. Allora
la prima cosa che abbiamo fatto è stata attaccare briga
perché volevamo stabilire di chi era la responsabilità. In nessun modo
riuscivamo a metterci d’accordo. La produzione di CO2 era additata,
neanche a dirlo, da tutti come la principale colpevole: quel maledetto traffico
sulla via Appia per entrare a Roma la mattina. E poi il sabato mattina, quando
non c’era da fare la fila per andare al lavoro, quell’altro
traffico – maledetto sia
anche lui, abbiamo pensato; forse
uno di noi, il solito, lo ha anche detto, non ricordo – quell’altro
traffico verso centri commerciali, outlet, posti
dove fare due passi, comunque
ci si alzava più tardi, la sera prima si pagava
quell’ora di parcheggio in più per arrivare fino alle nove e non avere
problemi con i vigili: tutto a posto,
dunque. A posto un accidente. La produzione di CO2 era additata
con foga da tutti come la principale colpevole, quindi che c’entravamo
noi? Se c’era
da stabilire di chi era la responsabilità, bisognava
cercare da qualche altra parte. Questo pensavamo. In nessun modo,
però riuscivamo
a metterci d’accordo su questa altra parte dove cercare. Da che parte? Intanto
c’era sempre quel tipo, il solito, nel mio ufficio che, mentre tutti stavamo
a litigare, gridava più forte come se volesse
metterci d’accordo: «Qualcuno
accenda l’aria condizionata». E aggiungeva: «Che? siete scemi?». Non ricordo
altro. C’è altro
che dovrei ricordare? Non credo, perché proprio allora
il sole è precipitato, questa fu, almeno, la nostra ultima impressione.