Il centenario della battaglia di Verdun

Nessun giornale italiano ne parla (non ho una completa rassegna stampa, ma da una rapida occhiata che ho dato in edicola, temo proprio che sia così: intanto ecco che cosa ne dice la BBC) e dunque rimedio io per i venticinque lettori di questo blog. Ecco la notizia: si celebra oggi in Francia, con un incontro tra il presidente francese Hollande e la cancelliera tedesca Merkel, il centenario della battaglia di Verdun (21 gennaio-15 dicembre 1916).
Naturalmente, domani anche i giornali italiani – e oggi i telegiornali –parleranno di questo incontro per quanto di attuale i due leader diranno in tema di economia, di migrazioni, di banche, di lavoro e di chissà che altro. Io voglio invece parlare del motivo inattuale per il quale i due leader si incontrano. Lo fanno perché, da poco più di settanta anni, in Europa di battaglie come queste non ce ne sono state più. E loro due sono tra coloro che si augurano che non ce ne siano mai più.
È vero, ci sono state altre guerre in Europa in questi settanta anni: la Guerra dei Balcani (1991-1995), con l’assedio di Sarajevo – a pochi passi dai nostri confini –, ha dimostrato a chi lo avesse dimenticato a quali atrocità può portare un conflitto armato tra popoli fino a poco prima “amici”. Ma non ci sono state battaglie atroci e sanguinose come quella di Verdun nella quale persero la vita sul campo più di quattrocentomila soldati tedeschi e francesi: quattrocentomila morti tra i quali non sono “computati”, perché non si è mai riusciti a contarli, i militari e i civili che morirono tra i circa ottocentomila avvelenati dai gas: molto più di un milione tra morti e feriti in un solo campo di battaglia!

Mi sembra opportuno ricordare con solennità questo centenario perché vedo accanto a me, in Italia e fuori d’Italia, il risorgere di partiti isolazionisti e nazionalisti oggi alleati tra loro nel volere la fine dell’Unione Europea e domani, necessariamente, pronti a scannarsi l’un l’altro (anzi pronti a mandare a scannarsi i giovani dei rispettivi paesi, mentre loro staranno a guardare) per un lembo di territorio, per un orgoglio ferito, per una alleanza non rispettata, per un migrante in più o in meno da accogliere o non accogliere.

Ho avuto la fortuna di vivere nel più lungo periodo di pace che questa parte del mondo ha conosciuto in tutta la sua storia millenaria. Per millenni, per un motivo o per un altro (spesso, nell’antichità, per risolvere problemi di esistenza), popoli vicini, tribù diverse dello stesso popolo, fazioni avverse delle stesse tribù si sono scannati senza interruzioni se non di pochi anni (al massimo poco più di una quarantina tra il 1870 e il 1914) seminando, in particolare, il territorio lungo il quale corrono oggi i confini tra Francia e Germania di una quantità incalcolabile di cadaveri: decine di milioni? No, forse centinaia di milioni. Oggi, là dove ci sono ancora certamente i resti scheletriti o solo le polveri di quei cadaveri, corrono autostrade che attraversano i confini da uno stato all’altro senza bisogno di passaporto e dove in un minuto si vedono passare auto con targhe di venti diversi paesi europei (mi sono preso il gusto di fare questo conto una volta che percorrevo l’autostrada da Baden Baden a Strasburgo): auto di persone che vanno a divertirsi, che vanno a fare affari, magari anche affari sporchi, che vanno a insegnare o a studiare, vanno a fare l’amore. Tutto, tranne che la guerra.

Ecco perché mi sembra opportuno ricordare il centenario di Verdun: non per quanto di attuale potranno dirsi oggi Hollande e Merkel, ma per quanto di inattuale c’è nel ricordo, che giustamente loro vogliono celebrare, di una guerra europea. Anche per i miei nipoti vorrei che il ricordo di una guerra europea fosse inattuale. Voi no?

Il mito siamo noi

Il 18 maggio alle 21, al teatro Porta Portese di Roma, alcuni miei testi poetici
letti attraverso una azione scenica che ne sottolinea il rapporto con il mito.

Da Giambattista Vico in poi il mito è stato considerato una forma di conoscenza, anzi la forma originaria di quel vocabolario dell’anima umana che si è venuto via via costruendo nel rapporto tra le cose e le parole che ha attraversato la storia di noi esseri pensanti, osservanti e parlanti.

Secondo Hegel, il mito fa parte, sì, «della pedagogia del genere umano, poiché eccita ed attrae ad occuparsi del contenuto», tuttavia «siccome in esso il pensiero è contaminato da forme sensibili, [il mito] non può esprimere ciò che vuole esprimere il pensiero. Quando il concetto si è fatto maturo, non ha più bisogno di miti». Ci sarà però un motivo se gli esseri umani continuano a voler conoscere attraverso il mito, anzi, spesso, vogliono conoscere se stessi attraverso il mito.

Prendiamo un caso esemplare della poesia del Novecento: Umberto Saba, qui a fianco mentre guarda il mare dalle colline di Trieste. Nel 1933, nella raccolta Parole, Saba scrive una poesia dal titolo Ulisse.


O tu che sei sì triste ed hai presagi
d’orrore – Ulisse al declino – nessuna
dentro l’anima tua dolcezza aduna
la Brama
per una
pallida sognatrice di naufragi
che t’ama?


E ora leggiamo anche il commento che lo stesso Saba ha fatto di questa poesia nella sua Storia e cronistoria del Canzoniere: «La breve poesia Ulisse – scrive Saba parlando di se stesso in terza persona –, una delle più brevi di tutto il Canzoniere e nella quale riecheggia il motivo della “Brama”, offre al lettore quello che “preso a sé” è forse il più bel verso di Saba: «pallida sognatrice di naufragi».


Ulisse al declino è probabilmente il poeta stesso. Nella figura di quell’astuto greco egli si è più volte (non sappiamo se a torto o a ragione; probabilmente più a torto che a ragione) “eroicizzato”. (vedi anche quella che, fino a oggi, è la sua ultima poesia: il componimento omonimo che chiude Mediterranee)».


Per capire il rapporto esemplare di Saba con il mito leggiamo dunque, infine, come il poeta nelle vesti di critico di se stesso ci suggerisce, questo secondo componimento intitolato Ulisse, inserito nella raccolta Mediterranee, del 1946, con la quale si chiudeva l’edizione del Canzoniere pubblicata nel 1948.


Nella mia giovanezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.


È fin troppo facile osservare che il Saba cinquantenne di Parole vede se stesso in un «Ulisse al declino» che potrebbe, lui eroe della “Brama” per antonomasia, non avere più brama «per una / pallida sognatrice di naufragi» (è vero: un verso bellissimo!). Quello di Saba è un dubbio. E da questo dubbio germina questa singolare poesia in forma di breve domanda. È altrettanto facile osservare che nella seconda splendida poesia (splendida, nel senso proprio della parola: che splende di luce marina, solare, smeraldina) il Saba di Mediterranee, di quasi quindici anni più vecchio, si riflette invece in un Ulisse tutt’altro che in declino: non a caso questa poesia è dominata, splendidamente, dalla parola rima “al-largo” che ci rimanda all’Ulisse navigatore, anzi all’Ulisse insaziabile, dantesco più che omerico.
Ma queste due facili osservazioni nascono dall’implicita persuasione che “il mito siamo noi”. Non avremmo nemmeno potuto abbozzarle nella nostra mente se non fossimo intimamente convinti che, per conoscerci, per conoscere noi stessi e la relazione che abbiamo con gli altri («il porto / accende ad altri i suoi lumi», scrive Saba con questa consapevolezza), possiamo ricorrere al mito; qualche volta dobbiamo ricorrere al mito, a quel patrimonio di immagini e racconti che qualcuno ha studiato, qualcuno no, ma che sono disponibili per l’immaginario di tutti noi da migliaia di anni, anzi sono l’immaginario di noi da migliaia di anni. Perché facciamo questo? Scrive Michail Lifšic che «nei miti il mondo reale si presenta sotto l’angolo visuale della libertà». Certo la libertà di pensare il mondo prima del λόγος: prima e anche più arditamente di quanto sia consentito al λόγος (nonostante quello che ne pensa Hegel). Ma, soprattutto, penso io, la libertà di sentire il nostro divenire come indefinito, come parte di un indefinito e infinito trascorrere nel quale ciascuno di noi conosce mentre ri-conosce e mentre si ri-conosce.

Questo è l’angolo visuale sul mondo che il mito ci dà. Guai se ce ne privassimo.
Per questo ho riunito in una “azione scenica” intitolata Il mito siamo noi la lettura di alcune mie poesie che, in modo più o meno diretto, si legano con fili fortissimi a quel patrimonio al tempo stesso così lontano e così vicino. L’ho fatto per sollecitare nuova conoscenza, ri-conoscimento di sé e degli altri.
Il 18 maggio prossimo alle 21 questa “azione scenica” sarà eseguita, nella bella Sala Brecht del teatro Porta Portese di Roma, da me, da Paola Nanni e da Monica Bianchi, accompagnati dal flauto impareggiabile di Annalisa Spadolini. Venite! E non trascurate di prenotare perché la Sala Brecht è bella, ma non contiene molti posti. Potete prenotare telefonando dalle 17.00 alle 19.00 ai numeri 06.5812395 o 371.1865004, oppure mandando a quest’ultimo numero – a qualsiasi ora – un sms con il nome e il cognome della persona che andrà a ritirare i biglietti al botteghino, il tipo (primo o secondo ordine di poltrone) e il numero dei posti che si intendono prenotare. In questo ultimo caso riceverete un sms di conferma. Affrettatevi!

La Resistenza dei ragazzi

Una decina di anni fa ho visto per caso nella libreria di una stazione ferroviaria la nuova edizione di un vecchio libro che avevo letto da ragazzo, le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (Einaudi, 2002; l’edizione che avevo letto io era quella del 1952 che mio padre conservava bene in vista nella sua monumentale libreria di mogano: libreria che, mentre scrivo queste righe, mi guarda da dietro le spalle). Dato che mancava ancora del tempo alla partenza del treno, ho preso in mano quel libro e ho cominciato a rileggere quelle pagine così belle e così forti. Le ho rilette con la mia esperienza di insegnante e, mentre quando le avevo lette per la prima volta non avevo fatto caso all’età di coloro che le avevano scritte, a distanza di quarant’anni l’età di alcuni di quei condannati a morte mi ha colpito come una stilettata: avevano – ho pensato – l’età dei miei alunni di quando insegnavo al liceo, diciassette, diciotto, diciannove anni.
Mi aveva colpito in particolare, e non l’avevo notato alla prima lettura o non me lo ricordavo, il tono di quelle lettere: niente di “eroico”; erano, sì, “ultime” parole, ma scritte come se si trattasse di una partenza, con serenità, con accettazione. La morte era nel conto delle cose possibili. Ecco: si trattava di dar conto di questa cosa ai genitori, agli amici, alla fidanzata. E coloro che avevano quella straordinaria forza d’animo erano ragazzi. Sarebbero potuti essere miei alunni.
Durante il viaggio, uno dei miei tanti Roma-Torino del quale non ricordo però la ragione precisa, ho scritto, sull’onda dell’emozione di quella rilettura, la poesia che propongo qui sotto, Alunni, che qualche anno dopo è entrata a far parte della mia raccolta di versi La mente irretita. Questa poesia è poi diventata molto cara a tanti colleghi. Uno ha voluto che fosse trascritta sulla “pergamena” di saluto che gli è stata donata dalla scuola quando è andato in pensione, altri l’hanno letta a loro volta ai loro alunni; Manuela Vico, straordinaria insegnante di francese animatrice del Premio di poesia “Inter-Alpes” (al quale partecipano alunni della provincia di Cuneo e della regione francese della Provence-Alpes-Maritimes) ha voluto farne una specie di colonna sonora delle manifestazioni nelle quali si articola questo premio e spesso la fa leggere e la commenta con sempre rinnovata emozione.

Oggi le ultime testimonianze – lettere, appunti, fogli di diario – di condannati a morte e di deportati della resistenza italiana sono conservate nel sito ultimelettere.it che consiglio a tutti di andare a visitare con l’attenzione che merita. Da questo sito (e non dal libro che ho letto e riletto) traggo le lettere di tre ragazzi di diciassette anni che mi sembra facciano capire, meglio di qualsiasi “commento”, il senso della mia poesia Alunni.

Lettera di Ludovico Ticchioni (Tredicino) a … scritta in data 17-01-1945 da Carcere


17 gennaio
Sono sicuro che oggi
sarà il mio ultimo
giorno di vita.
Non mi importa
di morire.


Lettera di Domenico Caporossi (Miguel) alla Madre scritta in data 21-02-1945


21/2/1945
Cara Mamma Vado a morire,
ma da partigiano, col sorriso sulle labbra
ed una fede nel cuore. Non star malinco=
nica io muoio contento. Saluta amici e
parenti, ed un forte abbraccio e bacioni
alla piccolo Imperio e Ilenio e
il Caro Papa, e nonna e nonno e di
ricordarsene sempre. Ciau Vostro figlio
Domenico


Lettera di Lorenzo Alberti (Renzo) ai familiari


[Fronte]

Cara Mamma, sono stato preso
da dei tedeschi a Upega e sono stato
condannato a morte.
Non stai a piangere e né a strillare non
dai colpa a nessuno. Vivi tranquilla
ci hai ancora il fratello che ti
tiene compagnia. Ti può aiutare
nella vecchiaia.
Lo so che dopo tanti sacrifici
ti trovi un figlio di meno. Non
ti arrabbiare!
Caro papà vivete tranquilli
in famiglia come principi.
Sono morto senza
torture
Caro Fratello non piangere
aiuti bene ai

[Retro]

genitori senza farli arrabbiare.
Cari famigliari salutatemi tutti
i cari conoscenti e parenti
dite a loro che il destino volle così.
Vi saluto tutti
Renzo


Ecco, Ludovico, Domenico, Renzo, e tanti altri come loro, li avrei voluti come alunni. Dedico questa poesia a tutti gli alunni che ho avuto.

Michele Tortorici, Alunni (da La mente irretita, Manni, 2008)


Rileggendo
le Lettere dei condannati a morte della Resistenza

Alunni vi avrei voluti nell’ora
che vi ha sommersi la storia,
che vi ha affrancati la vostra
temeraria purezza,
che vi ha innalzati la speranza
nella parola che s’invera
come un giuramento.

Alunni vi avrei amati per potere
imparare la fede che attraversa
la morte come un’onda
di piena penetrata
nel mare. Vi avrei cercati per dare
inaspettate risposte alle troppe
impazienti pagine che ho letto. Vi avrei
attesi perché non si chiudesse
il portone della scuola e avrei scavato
per voi macerie di futuro
in offerta d’amore.

Avreste forse anche voi
prestato la vostra fede alle parole
che ho fatto scorrere sui banchi, ai versi
di libertà, alle note a piè di pagina sull’uomo
che s’infutura e che s’india; avreste
forse anche voi bevuto l’inganno
propizio di umani simulacri
senza professione di modernità.

Alunni vi avrei abbracciati per ricevere
il vostro contagio, per raccogliere
le lettere che avete scritto e custodirle
nell’archivio della scuola. Lì
un altro insegnante, dopo secoli
d’inettitudine, avrebbe scoperto
le pagine nascoste e portato
a nuovi alunni le vostre
parole per inverarle ancora
come un giuramento.


Marco Vagnini: la forma delle idee

Marco Vagnini, lo straordinario illustratore di due mie brevi raccolte di versi, è scomparso improvvisamente a cinquantuno anni il 14 febbraio scorso. Lui scriveva di sé con modestia di essere un «industrial designer, ma anche un graphic designer e un professore di design dell’ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) di Roma». Nel ricordarlo a due mesi dalla morte, io posso dire di lui che era un creatore di bellezza.

Era un artista a tutto tondo perché la sua passione era trovare la ragione delle forme che ci stanno attorno: le forme degli oggetti e delle loro rappresentazioni, le forme che lo spazio assume se racchiuso da qualche elemento, le forme nelle quali ci si presenta, nella sua terrestrità, la materia (nella foto qui a fianco Marco Vagnini è accanto a una delle sue opere di pittura materica, che lui chiamava “artefatti naturali”) e, infine, la forma più difficile da trovare, la forma delle idee.
Che cosa vuol dire “la forma delle idee”?
Per spiegarlo devo ripercorrere un periodo bello della vita di Marco e della mia. Poco meno di vent’anni fa l’ISIA collaborava con il Ministero dell’Istruzione per la realizzazione di opere di design, dagli opuscoli per la diffusione delle novità legislative (erano gli anni dell’introduzione dell’autonomia scolastica) fino agli stand con i quali il Ministero stesso partecipava a mostre, fiere e altre situazioni di rapporto diretto con i cittadini. A lavorare per queste occasioni erano Enzo Manili, anche lui, a suo tempo professore di design all’ISIA e, appunto, Marco Vagnini, allora suo assistente. Non poche riunioni di lavoro si svolgevano nello studio di Manili in Piazza Giovine Italia. Più che riunioni di lavoro erano cantieri di idee dove si cercava in primo luogo di costruire un’idea che allora sembrava un po’ pazza: rendere “più bello” il rapporto del Ministero con i cittadini. “Più bello”, sì. Certo, quelli erano gli anni nei quali le nuove norme sulla comunicazione pubblica puntavano a qualificare il rapporto tra istituzioni e cittadino nel senso della trasparenza e della semplicità; ma proprio per raggiungere questo obiettivo, noi che ci riunivamo in quello studio (i più assidui, insieme a Manili e Vagnini, eravamo il direttore dell’allora Servizio per la Comunicazione del Ministero, Luigi Catalano, e io) pensavamo che quel rapporto dovesse essere, innanzitutto “più bello”. Via il grigiore connesso, nell’immaginario dei più, a un’istituzione come il Ministero e largo ai colori e alla fantasia. Nel corso di queste discussioni Enzo Manili, genero di Fosco Maraini e orgoglioso proprietario di una copia autografata del suo bellissimo libro di poesie nonsense La gnòsi delle Fanfole, ogni tanto leggeva alcuni di quei versi come via di fuga dalle insensatezze di vecchie norme e vecchi pregiudizi (insensatezze vere e concrete, a differenza dei nonsense di parole della Gnòsi) e poi, ripresa in mano la fidata matita momentaneamente abbandonata a favore del libro, continuava tranquillamente il suo lavoro. Una mattina spiegò in che cosa consisteva, secondo lui, il lavoro del designer: lo spiegò a noi, ma soprattutto a Marco, che comunque, ci fece capire, aveva ascoltato parecchie altre volte quella “lezione”, da allievo prima ancora che da assistente: il lavoro del designer consisteva, secondo Manili, nel «trovare la forma delle idee».

Qualunque allievo avrebbe colto il senso metaforico di quel discorso e si sarebbe fermato lì. Marco no. Marco ha sempre preso sul serio la lezione del suo maestro. Anzi, si potrebbe dire che ha voluto essere più risoluto ancora del suo maestro in quella ricerca. Qui a fianco ecco un esempio di come Marco interpretava l’insegnamento di Manili e, al tempo stesso, seguiva l’idea di rendere più bello il rapporto del Ministero con i cittadini. Non era usuale che gli uffici del Ministero avessero un logo e tuttavia fu Marco stesso a farci notare come un ufficio che nasceva con lo scopo di comunicare meglio non poteva farne a meno: doveva essere riconoscibile; l’idea che quell’ufficio rappresentava doveva avere la sua forma e lui l’avrebbe trovata. Eccola, nell’immagine qui a fianco. Questo logo, collocato in basso a destra in tutti i documenti usciti dalla Direzione generale per la Comunicazione (evoluzione del Servizio per la Comunicazione, nato insieme alle norme sull’autonomia scolastica), ha reso riconoscibile quell’ufficio più e meglio di qualunque dichiarazione o spiegazione in merito.

Non voglio dire niente qui di molte delle “grandi opere” (gli stand per esposizioni o manifestazioni pubbliche, in particolare) realizzate da Enzo Manili e Marco Vagnini, anche perché sarebbe impossibile distinguere la mano dell’uno da quella dell’altro. Non posso tuttavia fare a meno di mostrare (nella foto qui a fianco) la straordinaria “Ruota dell’autonomia”: uno stand informativo sui vari aspetti dell’autonomia scolastica presentato al ComPa 2001 e che ha ricevuto in quell’occasione il Premio del cittadino “Diritto all’informazione” attribuito, attraverso una votazione dei visitatori, allo stand migliore.
Voglio invece ricordare una iniziativa di Marco che riguarda proprio l’idea della necessità per una istituzione di essere “bella” nel suo porsi in relazione con i cittadini. Parlo degli anni a cavallo tra i due secoli durante i quali, a causa dell’avvento generalizzato dei computer, gli uffici del Ministero avevano rinunciato alla costosa – e bellissima – carta intestata stampata dal Poligrafico dello Stato (anche perché il Ministero in quegli anni aveva cambiato nome: da Ministero della Pubblica istruzione a Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) e usavano per i documenti ufficiali, dalle circolari ai decreti, normali fogli bianchi in testa ai quali stampavano, ciascuno con un carattere diverso, con un corpo diverso, qualche volta con una centratura non perfetta, la scritta istituzionale con sotto il nome dell’ufficio. Una specie di sciatteria generalizzata e, come si può immaginare, chi ama la bellezza può magari sopportare la bruttezza, ma non la sciatteria. Anche in questo caso, fu Marco a fare notare a noi della Direzione generale per la Comunicazione questo aspetto decisamente sconveniente della comunicazione ministeriale. E fu lui a porvi rimedio.
Come? In modo non facile. Ricavò, uno per uno, da una vecchia carta intestata, i bei caratteri calligrafici della scritta “Ministero della Pubblica Istruzione”; sulla base di quei caratteri, tracciò, da straordinario designer, le lettere mancanti per la nuova scritta (per esempio la U e la R maiuscole), si procurò attraverso l’apposito ufficio del Quirinale l’emblema della Repubblica e, infine, realizzò la nuova scritta, su una e su due righe (quella che vedete qui a fianco), pronta per rispondere alle diverse esigenze dei vari uffici. Dati i tempi che corrono, devo forse aggiungere che fece questo lavoro nei pochi spazi di tempo libero che aveva e che non ne ricavò alcun compenso. A noi della Direzione generale per la Comunicazione, non restò che trasmettere il file a tutti gli uffici del Ministero con la raccomandazione di usare con un semplice copia e incolla quella scritta per tutte le comunicazioni ufficiali. Naturalmente, poiché l’amore per la bellezza uno non se lo può dare, ma lo deve avere dentro di sé, allora e oggi quella raccomandazione non è stata sempre seguita.

Nessuno può meravigliarsi quindi, se, quando ho pensato di realizzare un libro di poesie illustrato, io mi sono rivolto a Marco Vagnini.
La prima volta nel 2010. Il libro è Versi inutili e altre inutilità, del quale riproduco qui a fianco la copertina, di una impareggiabile “purezza” grafica. Una purezza talmente assoluta che lo stesso grafico dell’editore, al vedere quella copertina, rinunciò ad aggiungere il nome, appunto, dell’editore per non introdurre in essa nessun elemento nuovo, che sarebbe stato di disturbo.
La seconda volta l’anno scorso. Il libro è Fine e principio e chi vuole può leggere, seguendo il link alla pagina dedicata a questo libro, insieme alle notizie sui versi che vi sono raccolti, il senso della collaborazione tra me e Marco: un senso talmente importante, ai fini stessi della comprensione del libro, che abbiamo deciso di pubblicare, in appendice alle poesie, lo scambio di email che documentava quel rapporto. Di questo libro riproduco qui sotto l’illustrazione all’ultima delle quattro poesie che vi sono raccolte e che è una elaborazione grafica di una foto (qui a fianco) della sala delle “Foglie cadute” (in ebraico “Schalechet”) dello Jüdisches Museum di Berlino.
Questa sala rievoca la Shoah in modo molto particolare (qui a destra una vista parziale della sala in una foto diversa da quella sulla quale ha lavorato Marco Vagnini). Alta e lunga, ha il pavimento ricoperto di maschere di metallo con la forma di bocche che urlano. Chi vi entra per la prima volta non sa che cosa fare, ma una hostess invita a non fermarsi e a camminare su quelle maschere di metallo fino in fondo alla sala. Appena calpestate, quelle maschere, per l’attrito dell’una sull’altra, stridono con un’eco che si ripercuote sulle pareti e che dà l’impressione di urli ripetuti. Chi esce dalla sala dopo averla percorsa fino alla fine ed essere ritornato indietro è una persona diversa da quella che vi era entrata: è come se l’intera storia dell’umanità pesasse sulle sue spalle, ma anche – almeno così è stato per me, in particolare quando ho visitato quella sala per la seconda volta – come se da quel peso potesse nascere una speranza. Nella poesia scaturita dalla mia esperienza di quella sala, Nuove progenie, ho cercato di riversare tanto il terribile peso del male della storia quanto la potente forza della speranza. Come dare forma a questa idea? Marco ha creato una prospettiva artificiale nella quale dal fondo oscuro emerge la luce, anzi, le stesse maschere di metallo diventano un elemento luminoso per chi ha il coraggio di guardarle. Una invenzione al tempo stesso bellissima e fedelissima al testo poetico del quale a lungo avevamo parlato insieme.
Alla fine dello scorso anno, proprio per il senso di speranza che porta dentro di sé ho pubblicato su questo blog la poesia Nuove progenie in un post di auguri per il 2016. Non avrei mai pensato che sarei ritornato, a distanza di qualche mese, su questi versi – come ora sento il bisogno di fare – per ricordare il mio carissimo e giovane amico Marco Vagnini, creatore di bellezza, troppo presto scomparso. Qui trovate, nel post di auguri al quale ho fatto riferimento, il testo della poesia insieme a molte notizie che aiutano a penetrarne il senso.

Un 2016 di speranza. Auguri!

C’è una sala dello Jüdisches Museum di Berlino che suscita una emozione particolare. È quella delle Foglie cadute, Schalechet, una installazione realizzata dall’artista israeliano Menashe Kadishman come metafora della Shoah. Si tratta di una specie di lungo corridoio lungo il quale sono disseminate maschere di metallo le cui bocche sono dilatate, come se urlassero.
Il visitatore che entra in questa sala resta smarrito, non sa esattamente che cosa fare. Allora gli si avvicina una giovane guida – così, almeno, è capitato a me – e gli spiega che il modo di visitare quella sala consiste nel percorrere tutto il corridoio e tornare indietro: è necessario calpestare quelle maschere. Quando urtano tra loro sotto i passi del visitatore, a causa dell’attrito dell’una sull’altra, queste maschere stridono: gli urli scolpiti diventano urli reali, un suono che fa inorridire. In molti escono provati dalla visita a questa sala. Tanti hanno le lacrime agli occhi. Io le avevo.
Sin da quando ho visitato per la prima volta questa sala dello Jüdisches Museum non ho potuto dimenticare l’emozione che avevo provata. L’ho subito registrata in quella specie di diario in versi del mio soggiorno a Berlino del 2007 che è il mio libro bilingue I segnalibri di Berlino – Berliner Lesezeichen (Campanotto, 2009; la traduzione in tedesco è di Giangaleazzo Bettoni). Sono poi ritornato a Berlino (e in quella sala) nel 2011 e ho continuato a riflettere sulla potenza di quella straordinaria evocazione della Shoah. Nel frattempo avevo cominciato a rileggere le Metamorfosi di Ovidio, un testo a me particolarmente caro, e quella volta ho collegato l’emozione che provavo nella sala delle Foglie cadute con il mito di Deucalione e Pirra, il mito pagano del diluvio universale splendidamente raccontato da Ovidio nel primo libro del suo poema: a Deucalione e Pirra, gli unici due esseri umani sopravvissuti al diluvio, la dea Temi ingiunge di fare qualcosa che essi non capiscono subito:


[…] discedite templo
et velate caput cinctasque resolvite vestes
ossaque post tergum magnae iactate parentis!


Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 382-384

In realtà le ossa della grande madre (ma io ho tradotto: «colei che con magnanimità vi ha partoriti») sono le pietre della terra. La dea ha chiesto di fare due cose a Deucalione e Pirra: di ricominciare dalla terra e di gettare dietro di sé, non davanti, le pietre.
La prima richiesta era chiara: si trattava di ri-generare l’umanità a partire dalla terra. Dopo un fatto come il diluvio, così devastante per Deucalione e Pirra, allo stesso modo della Shoah per noi, le generazioni non potevano continuare come se nulla fosse stato. Era necessaria una radicale ri-generazione.
Ma questa – ecco il senso della seconda richiesta di Temi – può avvenire solo se chi è ri-generato prende alimento dal passato, da ciò che abbiamo dietro le spalle, non soltanto perché quel passato non sia dimenticato, ma perché il suo ricordo entri addirittura a far parte della nostra stessa natura, del nostro stesso esser nati.

Di diluvi, e non solo metaforici, ce ne saranno ancora. Ma un insegnamento preciso ho ricavato dal mio guardare alla sala delle Foglie cadute attraverso la lente fornita dalla lettura di Ovidio: i diluvi potremo superarli se avremo il coraggio di fare affondare il futuro delle nuove generazioni (delle generazioni nate nuovamente dalla terra, delle «nuove progenie») nel nostro e loro passato. La seconda volta che sono stato in quella sala dello Jüdisches Museum, ho guardato con questo pensiero alle Foglie cadute di Kadishman, e ho visto in quelle maschere di metallo le ossa che Temi ancora una volta ci ingiungeva di prendere per consentirci una ri-generazione. Allora avevo ancora sì le lacrime agli occhi, ma c’era in esse, oltre che la commozione, anche la speranza.

Michele Tortorici, Nuove progenie (da Fine e principio, Roma, Anicia, 2015)


Schalechet

Quando ho visto nel museo,
come foglie cadute, maschere di metallo con la forma
di urli; quando, passo
dopo passo, quelle maschere io le ho sentite stridere, è tornato
alla mia mente con chiarezza l’avvertimento di Temi: «Liberatevi
delle vesti e gettate
dietro di voi le ossa di colei
che con magnanimità vi ha partoriti». Dopo l’ultimo diluvio,
dovevamo non
continuare, una dopo l’altra, generazioni
e generazioni di uomini e di donne come se ciò che era stato
non fosse stato, ma
ricominciare nuove stirpi, fare nascere
nuove progenie dalle ossa della terra.

Schalechet

Quando ho visto nel museo,
come foglie cadute, maschere di metallo con la forma
di urli; quando, passo
dopo passo, quelle maschere io le ho sentite stridere, ho capito
l’avvertimento di Temi. Dopo l’ultimo diluvio,
quegli urli scolpiti nel ferro erano loro
le nuove ossa che la terra, con spietata
magnanimità ci offriva perché, liberati delle vesti, affrancati
dall’ostinato volere
ricordare – quelli, dico, che hanno voluto
ricordare –, le gettassimo dietro di noi per fare nascere
nuovi uomini e nuove donne.

Schalechet


A Natale tangenti sulla beneficenza
Naturalmente all’epoca di G.G. Belli

Inutile dire quanto sia lodevole l’intento di papa Francesco di risanare la Curia romana, intento da lui riaffermato con forza nell’indirizzo di auguri ai funzionari del vaticano che tradizionalmente precede le festività natalizie. Invece penso che sia utile ricordare al pontefice, soprattutto se non ha letto i sonetti del Belli, quanto le «malattie curiali» contro le quali egli vuole mettere in campo i necessari «antibiotici curiali» siano così fortemente radicate da richiedere forse, più che medicine, sia pure forti, veri e propri interventi chirurgici.

Il sonetto che segue, il 544, è stato scritto il 3 dicembre del 1832: precede quindi di 183 anni e 17 giorni il discorso del papa sugli antibiotici necessari a guarire la Curia romana. E tuttavia che cosa ci racconta? Ci racconta di percorsi burocratici che sembrano fatti apposta, tra passaggi di mano e inutili pareri, per favorire, in una qualsiasi delle tappe delle quali si compongono, l’intervento del funzionario senza scrupoli. Anzi, nello scatenato ritmo di questo sonetto (che si presenta con ben undici versi su quattordici che hanno la prima sillaba senza un accento forte e dunque, per così dire, vanno di corsa, cercano di entrarci in testa come se fossero bocce lanciate lungo un forte pendio), il Belli ci fa capire che, secondo lui, quei percorsi burocratici non sembrano, ma sono fatti apposta per consentire a chi vuole e a chi può di arraffare tangenti. Nel nostro caso si tratta di una cospicua tangente del cinquanta per cento. E di una tangente percepita con una tale naturalezza dal funzionario che eroga il sussidio di beneficenza («je se perze tra le deta», cioè: ‘gli si perse tra le dita’) da far pensare che due secoli fa quelle abitudini fossero già vecchie di chissà quanti altri secoli.

Poiché siamo sotto Natale, che cosa posso fare? Posso fare gli auguri, in primo luogo, a Papa Francesco perché riesca a sradicare dalla Curia romana abitudini così profondamente radicate. È una prospettiva di risanamento che interessa non solo i cattolici, ma tutti i laici che vivono in Italia, un paese molto – forse troppo – condizionato da ciò che accade in quella Curia. E auguri anche a tutti noi perché le riforme della pubblica amministrazione, finora senza esito, nel semplificare i percorsi dei vari procedimenti, riescano a complicare la vita anche ai tangentisti non curiali. Ricordo a chi lo avesse dimenticato che la Curia romana due secoli fa, e fino al 1870, era la pubblica amministrazione di Roma.
Infine, a tutti i lettori di questo blog, auguri, più generalmente, di Buone feste e di un 2016 che realizzi almeno alcune delle nostre aspettative pubbliche e personali, magari proprio quelle in cima al nostro elenco dei desideri, e ci aiuti in questo modo a essere più sereni e a trovare più facilmente la via della felicità.

Giuseppe Gioachino Belli, Er zussidio


 Com’è ito a ffiní cquer momoriale[1]
c’appresentai a la Bbonifiscenza[2]?
È ffinito accusí, ch’er Cardinale
prima vorze1 sentí la Presidenza2
 eppoi, doppo tornato a Ssu’ Eminenza,
lo mannò a Mmonziggnore tal’e cquale,
scrivennosce accusí: «Pe sto Natale
venti pavoli[3] all’urtima dispenza[4]».
 Monziggnore lo diede ar Deputato[5]
co sto riscritto: «Signor Emme e Zzeta,
sto sussidio che cqui vvienghi pagato».
 Ma cquanno agnedi3 a pprenne la moneta,
quer zor Emme me diede un colonnato[6],
e ll’antro je se perze tra le deta.


Roma, 3 dicembre 1832
Note dell’autore
1 – Volle.
2 – Presidenza di polizia del rione.
3 – Andai.

Note
[1] Momoriale: ‘memoriale’, qui con il senso di ‘supplica’.
[2] Bbonifiscenza: ‘Istituto per la Beneficenza’.
[3] venti pavoli: equivalenti a due scudi.
[4] dispenza: ‘distribuzione’.
[5] deputato: ‘funzionario’.
[6] un colonnato: equivalente a uno scudo, quindi la metà del sussidio.

Cop46: ci sarà mai?


Il sole è precipitato in un giorno come tanti. Eravamo
al solito occupati nelle nostre
attività quotidiane e non ci fregava niente di tutto il resto: poteva succedere
qualunque cosa e neanche
ce ne accorgevamo. […]


Con questi versi comincia la prima poesia del mio nuovo libro, Fine e principio (Anicia, Roma, 2015) «quattro poemetti – ha scritto Giorgio Bárberi Squarotti – che reinventano miti e immagini». A proposito: devo ringraziare qui il grande critico per la «ammirazione profonda» che ha dichiarato di aver provato alla lettura del libro.
Per usare le sue parole, la poesia della quale ho citato i primi versi “reinventa” il mito di Fetonte, il figlio di Apollo che, ottenuto dal padre il permesso di guidare il carro del Sole, ne causa la caduta sulla terra e, per effetto di essa, determina l’inaridimento di intere regioni.
Non sono un politico. Né scrivo versi “politici” (tipo il Misogallo dell’Alfieri, per intenderci). Tuttavia, scritta qualche anno fa, questa poesia ha una incredibile attinenza con la più stretta attualità politica, un fatto raro, forse unico, per quanto mi riguarda. È in corso, infatti, in questi giorni a Parigi la Cop21.
Sapete che cos’è? Non è una parata di capi di stato che, con la scusa del clima, parlano di terrorismo, come si è potuto capire dalle scarne notizie che ne hanno dato i media all’apertura, il 30 novembre scorso.

Una riunione della Cop21 a Parigi

Faccio un po’ di storia. La Cop21 è la ventunesima riunione della Conference of Parties che, da quando fu convocata per la prima volta nel 1995 a Berlino, ha il compito di rivedere annualmente la “Rio Convention”, il primo accordo sul clima raggiunto – come dice il nome – a Rio de Janeiro nel giugno del 1992. La Rio Declaration, frutto di quella convention, affidava agli stati nazionali, senza nessun vincolo né verifica, una serie di compiti relativi alla difesa dell’ambiente. Ci sono volute tre “Cop” per arrivare al famoso Kyoto Protocol del 1997. Ce ne sono volute altre otto per arrivare al Montréal Action Plan, del 2005, il quale non era altro se non un piano di attuazione del Kyoto Protocol. Ancora altre quattro “Cop” sono state necessarie per tentare – senza riuscirci – di superare, a Copenaghen nel 2009, il Kyoto Protocol, che nel frattempo si era rivelato del tutto insufficiente. Infine, dopo altre sei “Cop”, che sono state con tutta evidenza perfettamente inutili, in quella attuale, la Cop21, abbiamo sentito dire dai capi di stato presenti che questa è «the last chance to stop ‘Global Warming’ before it’s too late» [«l’ultima opportunità di fermare il “riscaldamento globale” prima che sia troppo tardi»].

Nessuno dei partecipanti alla Cop21, tuttavia, ha spiegato bene che cosa possa significare questo “troppo tardi”.
Ma qui è bene aggiungere un piccolo corollario: coloro che che cercano di spiegare in che cosa consista il “troppo tardi”, giornalisti o scienziati, vengono in genere accusati di essere “catastrofisti”. Da chi vengono accusati di questa nefandezza? Da altri giornalisti o scienziati i quali chiedono le “prove” che il riscaldamento globale sia realmente un effetto causato dalle attività umane e che quindi possa essere a sua volta combattuto da un profondo cambiamento di queste attività.
Un esempio? Eccolo. La Società italiana di Fisica – per la verità affiancata, anche se i media non lo hanno riportato, dalla Unione delle Accademie di Agricoltura (!) e dalla Historical Oceanography Society (!) – si è rifiutata di firmare la Dichiarazione scientifica sui cambiamenti climatici redatta a conclusione del Science Symposium on Climate, una riunione di tutte le comunità scientifiche mondiali interessate al tema, che si è svolta a Roma il 19 e 20 novembre scorsi. Forse troppe riunioni e pochi fatti sul clima di questa nostra povera Terra! Ma vado avanti. In questa Dichiarazione, il capitolo introduttivo sui principali esiti delle ricerche della comunità scientifica afferma:


Human influence on the climate system is unequivocal and it is extremely likely that human activities are the dominant cause of warming since the mid-20th Century: continued warming increases the risks of severe, pervasive, and irreversible impacts on the climate system.
[L’influenza umana sul sistema climatico è inequivocabile ed è estremamente probabile che le attività umane siano la causa dominante del riscaldamento verificatosi a partire dalla metà del XX secolo. Il continuo riscaldamento del pianeta aumenta i rischi di impatti gravi, pervasivi e irreversibili sul sistema climatico]


Ebbene, sulla parola «unequivocal» la Società italiana di Fisica ha posto, per voce della sua presidente, professoressa Luisa Cifarelli, una specie di veto: in un blog (qui) è stata riportata la posizione della professoressa sintetizzata nella lettera a un suo collega: «La Sif è un’associazione di fisici abituati a considerare leggi fisiche regolate da equazioni più o meno complesse, e risultati espressi con il dovuto livello di confidenza o di probabilità o di verosimiglianza. Questo, del resto, è il metodo scientifico». La professoressa Cifarelli, inutile sottolinearlo, ha ragione. Sul metodo scientifico, intendo.
Il metodo scientifico, per dimostrare il rapporto di causa ed effetto tra attività umane e riscaldamento globale, avrebbe bisogno di un certo numero di Terre senza presenza umana e di circa duecento anni: una volta sviluppata su una di queste Terre, per circa duecento anni, una attività antropica uguale a quella che si è storicamente realizzata nell’età industriale sull’unica Terra che abbiamo, soltanto allora, se nelle altre Terre prese a confronto non si fosse registrato nessun tipo di cambiamento climatico, si potrebbe scientificamente affermare che il rapporto di causa ed effetto tra attività umane e riscaldamento è “dimostrato”.
Questo vorrebbe dire che tale rapporto sarebbe “vero”? Certamente no: tutti sappiamo che le “verità” scientifiche hanno una certa durata storica. Dopo un certo periodo qualcuno “dimostra” che quanto era stato “dimostrato” in precedenza su un certo problema è superato da una nuova scoperta. Per essere assolutamente certi (assolutamente?) che la “dimostrazione” scientifica di cui stiamo parlando non sarà superata da una nuova scoperta, dovremmo aspettare centinaia, forse migliaia di anni. Gli scienziati che hanno firmato la Dichiarazione del Science Symposium on Climate, lo sapevano certamente meglio di me e, difatti, hanno evitato la parola «true» [vero] o altre simili e hanno usato una parola come «unequivocal» [“inequivocabile”, «detto di di cosa – afferma il Vocabolario Treccani – su cui non è possibile equivocare, che non dà luogo a equivoci, anche intenzionali»: quindi “molto chiaro”, “evidente a tutti”, ma non necessariamente “vero”], o un’espressione come «extremely likely» [“estremamente probabile”]. Questo non è bastato. La professoressa Cifarelli voleva la “dimostrazione” come richiesto dalle «leggi fisiche» che sono, in effetti, «regolate da equazioni più o meno complesse». E in attesa di questa “dimostrazione”? Ecco i catastrofisti!

Non credo di potermi annoverare tra i catastrofisti, e tuttavia, se quasi tutti gli scienziati del mondo, senza aspettare la “dimostrazione”, dichiarano come «estremamente probabile che le attività umane siano la causa dominante del riscaldamento verificatosi a partire dalla metà del XX secolo» e aggiungono che questo riscaldamento «aumenta i rischi di impatti gravi, pervasivi e irreversibili sul sistema climatico», sono portato a dar loro fiducia senza aspettare non meno di due secoli per averne la “dimostrazione”. 
Infatti, due sono i casi.
O questi scienziati hanno torto: e allora qualunque azione umana non ridurrà il riscaldamento globale e la terra cesserà di essere un pianeta abitato tra cento o duecento o trecento anni (o forse anche molto prima, dato che certi effetti prodotti dal riscaldamento globale si automoltiplicano).
Oppure questi scienziati hanno ragione: e allora è il caso di cominciare a darsi da fare subito. Da questo punto di vista, le Conferences of Parties mi sembrano uno strumento, finora, assolutamente inefficace. Riunioni di flagellanti in vena di enunciare molti buoni propositi (certo: oltretutto siamo sotto Natale!) e pronti a non rispettarne neanche uno appena gli altri flagellanti abbiano voltato le spalle. Almeno, nel medioevo, i flagellanti avevano più dignità e si flagellavano anche in privato, quando nessun altro li vedeva.
Non sono un politico. Non chiedetemi soluzioni. Direi, come suggeriscono alcuni economisti, di cominciare dai territori, cioè da pezzetti anche molto piccoli di questa unica Terra che abbiamo. I cittadini, se consapevoli, possono spingere le loro amministrazioni a “decarbonizzare” il territorio sul quale essi vivono, anche utilizzando tecnologie non poi così costose. Questi cittadini possono inoltre darsi come scadenza (deadline, “linea della morte” si dice in inglese e forse in questo caso è proprio la parola) un termine un po’ più vicino di quello del 2050 del quale si occupano le varie Cop: per esempio il 2030. La somma di tante decisioni di tanti cittadini in tanti territori potrebbe essere forse più efficace degli accordi dei governi, o potrebbe aiutare ad attuare questi accordi: insomma, potrebbe aiutare i flagellanti a essere coerenti. Il fatto che la bozza di accordo sulla quale discutono oggi a Parigi conti quarantotto pagine mi spinge a pensare che che gli stessi firmatari non pensino di rispettarla in tutto e per tutto: scrivereste un documento di cinquanta pagine se doveste dare istruzioni antincendio agli inquilini di un condominio? Naturalmente, perché i cittadini possano prendere decisioni, sarebbe necessario che fossero, come ho scritto sopra, consapevoli: cioè che sapessero. I media e la potenza finanziaria di chi ama i combustibili fossili sembrano alleati nel far sì che i cittadini non sappiano. Beh, i venticinque lettori di questo mio blog ora sanno qualcosa più di prima.


Il sole è precipitato in un giorno come tanti. Eravamo
al solito occupati nelle nostre
attività quotidiane e non ci fregava niente di tutto il resto: poteva succedere
qualunque cosa e neanche
ce ne accorgevamo. […]


Quel giorno io, comunque, non ci sarò più: penso alla nipotina che ho e agli altri nipotini che arriveranno. Se quel giorno sfortunatamente dovesse giungere, mi piace comunque pensare che i venticinque lettori di questo mio blog, i loro figli, i loro nipoti non saranno tra quelli ai quali non fregava «niente di tutto il resto: poteva succedere / qualunque cosa». A proposito: nel 2050, quando i miei e i vostri figli avranno all’incirca settant’anni e i miei e i vostri nipoti ne avranno all’incirca quaranta, ci sarà mai una Cop46?

 

Parigi: le mie «vie amiche» ferite a morte

La prima volta che sono stato a Parigi, circa mezzo secolo fa, avevo fatto nei mesi precedenti una vera e propria indigestione di romanzi di Simenon sul commissario Maigret. Così, di Parigi, senza averla mai vista, conoscevo strade, piazze, bar, locali di tutti i generi e un sacco di curiosità. Buona parte del tempo che allora vi ho trascorso sono stato in giro proprio per quei posti dei quali, attraverso le inchieste di Maigret, sapevo quasi tutto e che mi sembrava, più che di vedere per la prima volta, letteralmente, di ri-vedere. Una passeggiata senza limiti di tempo me la sono concessa a boulevard Richard-Lenoir, dove Simenon immagina che si trovi, al numero 132, la casa nella quale il commissario vive con sua moglie. Ho percorso il boulevard dalla Bastille all’incrocio con avenue de la République e poi sono tornato indietro attraverso la miriade di vie grandi e piccole (tra le prime boulevard Voltaire) che segna quella vivacissima parte di Parigi.
Dappertutto la gente affollava i locali, ma non come da noi: non per una consumazione, magari seduti a un tavolino, e via; era evidente che molti passavano lungo quelle strade la loro giornata, avevano libri, scrivevano.

Quando, pochi anni fa, sono ritornato a Parigi con mia moglie, ho condotto anche lei a boulevard Richard-Lenoir con l’intento di ritrovare i vecchi zincs, i bar con il bancone di zinco, che avevo frequentato tanto tempo prima nelle vie intorno alla Bastille (nella foto qui a fianco un vecchio zinc a due passi da boulevard Voltaire). Naturalmente di quei bar non ce n’era più quasi nessuno: alcuni sì, però, e forse ci sono ancora perché sono tornati di moda. In ogni caso, in quasi mezzo secolo non era cambiato il modo che avevano i parigini (e i molti stranieri diventati parigini di adozione) di frequentare le proprie vie: il modo è quello di abitarci. Certe vie di Parigi sono luoghi di abitazione, non di passaggio. Sto preparando in questi giorni una lezione su Ungaretti e sul suo Porto sepolto e penso adesso che è certamente più di un secolo che funziona così: Ungaretti frequentava gli intellettuali che vivevano a Parigi nel 1914, da Apollinaire a Modigliani, da Marinetti a Palazzeschi, da Boccioni a De Chirico a tanti altri, soprattutto nei caffè di quella città; forse anche un po’ a casa loro (o, meglio, nei salotti che contavano), ma soprattutto nei caffè, nelle vie. È più di un secolo che funziona così, che le vie di Parigi sono case all’aperto dove, certo, si passa, ma soprattutto si vive. La libertà e la laicità (e, per gli artisti, la creatività) a Parigi si imparano per strada ben più che sui manuali di storia.

I terroristi hanno dunque colpito nel segno: le vie, i caffè, i locali, le sale da concerto (che spesso sono caffè di giorno). Hanno colpito luoghi, non del passaggio, ma della vita dei parigini, simbolo di una libertà della vita quotidiana (non so come altro definirla) che probabilmente non ha l’eguale nel mondo. E hanno colpito anche me, profondamente, perché io stesso – e non solo a Parigi – amo le vie delle città che visito, più dei loro monumenti o musei. Lì, nelle vie, trovo la vita delle città e ne prendo un poco in prestito. In particolare, nelle vie di Parigi mi sono sempre sentito a casa. E ci tornerò per sentirmi a casa.
Nella mia ultima raccolta di poesie, Viaggio all’osteria della terra, ho raccolto le poesie che hanno per oggetto le vie delle città in una sezione intitolata Le vie amiche. Tra queste «vie amiche» ce n’è una di Parigi, rue Lepic, che si trova, per la verità, un po’ distante dalla Bastille, nel XVIII arrondissement, ma che ha molto in comune (tra l’altro, anche la frequentazione di Maigret) con le vie che convergono verso la Bastille e che incrociano boulevard Voltaire, oggetto di alcuni degli attacchi terroristici di ieri sera. La trascrivo qua sotto (nel testo originale e nella bellissima traduzione che ne ha dato Danièle Robert) per ricordare la vita di tutti coloro che si trovavano in quelle strade, in quei locali, in quelle sale da concerto: ci si trovavano come a casa loro e adesso non ci sono più.

Michele Tortorici, Rue Lepic, (da Viaggio all’osteria della terra, Manni, 2014)


Questa strada non finisce, come potrebbe sembrare, all’incrocio
con rue des Abesses. Con una specie di “u” larga fa un giro
intorno alla collina e arriva oltre
il Moulin de la Galette, comunque
non ho capito bene fino a dove. Un po’ è un inganno,
ma principalmente
è che vuole avere con te più confidenza.

strada vorrebbe esserti casa, anzi vorrebbe essere
il corridoio della tua casa, il tuo cammino intimo, la quotidiana
abitudine che hai di girare per le stanze, magari
senza far niente, forse un caffè, forse, al più, qualcosa
da sbocconcellare − piedi nelle pantofole, profumo,
a certe ore, di dopobarba, ad altre
ore, di donna.

Questa strada vorrebbe esserti compagna, mettersi
sottobraccio a te, ostentare la sua civetteria per farsi stringere
più forte − farsi toccare il seno persino, scandalizzare se ci sono
benpensanti che guardano.

Questa strada vorrebbe esserti amico, parlare di libri
e di sport, cantare per te le canzoni
che escono dalle finestre aperte, sedersi
su una panchina e ascoltare quello che dici – mettersi
a cercare se da qualche parte, appostato,
c’è ancora Maigret, chi lo sa?

Questa strada vorrebbe esserti − quello che è −
strada di mulini, prestare le sue ruote alla tua mente e farti
macinare farine delle vite
che passano sui suoi marciapiedi, andari
affrancati, alternative − che non avresti pensato, fuori da qui −
del divenire, figurazioni
della tua libertà possibile. Principalmente
è che vuole avere con te più confidenza.


Rue Lepic, nella traduzione di Danièle Robert


Cette rue ne finit pas, comme on pourrait le croire, à l’angle
de la rue des Abbesses. Dans une sorte de large “u” elle tourne
autour de la colline et arrive au-delà
du Moulin de la Galette, du reste
je n’ai pas bien compris jusqu’où. C’est un peu une ruse,
mais avant tout
c’est qu’elle veut être plus en confiance avec toi.

Cette rue voudrait être pour toi une maison, ou plutôt voudrait être
le couloir de ta maison, ton chemin intime, l’habitude
que tu as chaque jour de tourner dans les pièces, même
sans rien faire, peut-être un café, peut-être, tout au plus, quelque chose
à grignoter – les pieds dans les pantoufles, parfum,
à certaines heures, d’après-rasage, à d’autres
heures, de femme.

Cette rue voudrait être pour toi une compagne, bras dessus
bras dessous, afficher sa coquetterie pour se faire serrer
plus fort – se faire même toucher la poitrine, scandaliser s’il y a
des bien-pensants qui regardent.

Cette rue voudrait être pour toi un ami, parler de livres
et de sport, chanter pour toi les chansons
qui sortent des fenêtres ouvertes, s’asseoir
sur un banc et écouter ce que tu dis – se mettre
à chercher si quelque part, embusqué,
il y a encore Maigret, qui sait ?

Cette rue voudrait être pour toi – ce qu’elle est –
la rue des moulins, prêter ses roues à ta pensée et te faire
moudre le grain des vies
qui passent sur ses trottoirs, allures
affranchies, alternatives – auxquelles tu n’aurais pas pensé, ailleurs qu’ici –
du devenir, figures
de ta liberté possible. Avant tout
c’est qu’elle veut être plus en confiance avec toi.


Le Assises de la traduction littéraire:
Un port de jour

Gli atti dell’atelier de traduction dedicato alla mia poesia Porto di giorni
e la traduzione di Danièle Robert

In un post di oltre un anno fa avevo promesso ai lettori di questo mio blog di tenerli informati della pubblicazione degli Atti delle “Assises de la traduction littéraire” tenutesi ad Arles nel 2013 e dedicate al tema “Traduire la mer”.
In quelle “Assises”, il più importante consesso mondiale di traduttori in lingua francese, la mia poesia Porto di giorni ha rappresentato la produzione poetica italiana ed è stata oggetto di un atelier de traduction curato da Danièle Robert. Ecco dunque l’estratto degli Atti contenente la relazione su quell’atelier, il cui interesse, ben al di là del fatto che riguarda una mia poesia, consiste nel proporsi come vero e proprio modello del percorso da seguire per affrontare la traduzione di un testo poetico, indipendentemente dalle lingue di origine e di arrivo. Tutto merito della bravissima Danièle Robert alla quale devo la splendida traduzione di due miei libri: uno di versi, La mente irretita (La pensée prise au piège, Vagabonde, 2010); e uno in prosa, il romanzo Due perfetti sconosciuti (Deux parfaits inconnus, Chemin de ronde, 2014).

Aggiungo una piccola postilla a quanto detto sulle Assises del 2013. Data l’attenzione che critici, traduttori, editori e pubblico hanno in Francia per i miei testi, nessuno si stupirà se la “voce” su Wikipedia che mi riguarda si trova sulla versione francese di wikipedia (qui) e non su quella italiana. Ringrazio di cuore gli amici francesi che la tengono aggiornata.

Trascrivo qui sotto l’estratto, ma chi vuole può scaricare il pdf semplicemente cliccando qui.

Assise della traduzione letteraria 2013
Tradurre il mare
Estratto degli Atti tradotto da Roberta Bisini
____

Atelier di italiano
curato da Danièle Robert

Carosello di barche carosello di parole
su una poesia di Michele Tortorici, Porto di giorni
(tratta da Viaggio all’osteria della Terra, San Cesario di Lecce, Manni editori, 2012)

Per una felice coincidenza, i due ateliers d’italiano di queste Assise avevano come oggetto due autori siciliani, uno romanziere, l’altro poeta, le cui opere rispettive riflettono un approccio e una visione del mare molto diversa: all’est lo Stretto di Messina, Cariddi e Scilla, dove si svolge l’affresco monumentale di Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, all’est l’isola di Favignana, nell’arcipelago delle Egadi, inesauribile fonte di ispirazione per la poesia di Michele Tortorici.

Avevo scelto di proposito una poesia inedita in francese per favorire una lettura plurale e un largo ventaglio di proposte attraverso le quali la mia era suscettibile di modifiche: questo metodo si è rivelato estremamente ricco per me e probabilmente per la maggior parte di una sessantina di partecipanti (italianisti, specialisti di altre lingue, studenti francesi e italiani), vista la diversità e la vivacità delle loro reazioni.

Dopo una breve presentazione dell’autore – che io traduco e con il quale sono in corrispondenza regolare da qualche anno – ho distribuito ai presenti un piccolo testo scritto da lui, dando qualche indicazione molto utile per il nostro lavoro: spiega infatti Tortorici di aver “pensato” il titolo e l’insieme della poesia sul piano ritmico e prosodico riferendosi alla celebre aria di Azucena del Trovatore “Stride la Vampa” della quale abbiamo tentato un ascolto tecnicamente un po’ frustrante ma che ci ha messo in ogni caso nell’orecchio l’essenziale di quello di cui si tratta: una sottile combinazione di ritmi a due e tre tempi realizzata da una voce solista lancinante e un’orchestra molto coinvolgente. Ma Tortorici aggiunge che un po’ alla volta ha virato verso un ritmo più libero che, verso la fine della poesia, si rivela quasi prosaico.

Poi ho letto il testo in italiano:

Tornano le barche tutti i giorni al porto; e tornano
al porto i giorni con la loro
pazienza, con la cocciutaggine
che è necessaria perché non manchino mai coi loro soli
alti e bassi e poi le loro lune
cangianti. Tornano le barche e tornano
i giorni sui moli e si diffonde
l’attesa come l’eco
fa quando risuona sulle pareti alte che riparano,
dal lato di scirocco, il porto.

Porto dove le barche antiche hanno
nomi di santi usciti certe volte
da un calendario anch’esso antico, un calendario
che altrove sarà stato
dimenticato ed è rimasto qui perché si è invischiato nei detriti
salati che si ammassano e poi seguono il vento come i ragazzini
fanno con il pallone per le strade
che di là dalla Plaia alla rinfusa
si allontanano.

Porto di giorni visti mille volte, di ritorni
pervicaci tanto che li credi immutabili, di cicli ordinati, o pensati
così, comunque
rassicuranti.

Porto di giorni che fortunosamente,
uno dopo l’altro, cadono tra questi moli dove
anche loro rimangono invischiati nei detriti
che il mare accumula e che poi si disfano
in un marciume liquido: nessuno
sa quando – e se – altre correnti
riusciranno a sospingerli via di nuovo al largo.

Porto di giorni che, anche quando la folla per mercanteggiare
il pesce, d’agosto, si assiepa fin sul bordo
della banchina, ostinatamente ritornano, ai vocii
indifferenti, indifferenti a tutti i calpestii. E allo stesso modo
che respira, al tendersi
e allentarsi delle corde,
ogni barca ormeggiata, i giorni pure, col moto delle onde,
respirano qui in un alternarsi
di slanci e tregue, premure e svogliatezze. E l’eco
risuona sulle pareti alte che riparano,
dal lato di scirocco, il porto.

Una prima constatazione: questo testo non presenta problemi insormontabili sul piano lessicale: non ci sono neologismi, né invenzioni verbali, né uso del dialetto come in Horcynus Orca; in compenso, tutta l’arte della traduzione poggia qui sul modo di fare udire una “musica” che non sia a immagine del testo originale, evidentemente, ma in corrispondenza con esso, a partire dalle risorse che ci dà il francese. Abbiamo quindi rapidamente rilevato i termini che potevano impedire la comprensione dell’insieme e abbiamo identificato il loro senso primario, nell’attesa di un affinamento, poi la discussione si è incentrata sul titolo, Porto di giorni, il cui accento sulla prima e la quarta sillaba riprende quello di Stride la vampa.

Ci trovavamo in un’impasse: impossibile far cominciare il titolo francese con “Port”, troppo aspro, e ridurre a tre sillabe, senza la “e” muta, un verso di cinque. Abbiamo quindi lasciato maturare le cose e siamo passati alla prima strofa che, a sua volta, ha suscitato un buon numero di questioni sulla ripresa: Tornano le barche…e tornano i giorni” ecc. Rispettare o no l’inversione del soggetto? Scegliere “reviennent”, “retournent”, rentrent”, oppure “tournent” con il rischio di un leggero cambiamento del senso ma stando più vicini alle sonorità dell’italiano? Ero piuttosto per questa ultima soluzione perché tornare può avere letteralmente il senso di “tourner” e l’espressione “tornare le spalle” significa proprio “tourner le dos”; ma mi sono rimessa all’opinione della maggioranza che sosteneva giustamente che ciò dava un senso differente al testo.

In ogni caso era chiaro che noi dovevamo osservare sempre la struttura d’insieme della poesia, cioè questa alternanza di ritmi a due e tre tempi che è in stretta relazione con le idee, impressioni e sentimenti che sviluppa.

Un’altra pietra di inciampo ha riguardato l’impiego per due volte dell’espressione pareti alte che, nel primo caso, designa i parapetti – costruiti o naturali? – che proteggono il porto dalle intemperie ma, nel secondo caso, soltanto le pareti rocciose della costa sud molto frastagliata e scoscesa. Tra “murs” “parois” “murailles” “falaises” la scelta era insoddisfacente perché ognuno di questi termini non si adattava contemporaneamente alle due immagini. Ho proposto “parapets”, contro il parere di molti che ci vedevano una costruzione di basso profilo, ma ho spiegato la scelta: da una parte l’autore si preoccupa di precisare pareti alte; dall’altra avevo immediatamente pensato, preparando il testo, a due versi del Bateau ivre: “ Fileur eternel des immobilités bleues / Je regrette L’Europe aux anciens parapets!”. L’uso metaforico della parola in Rimbaud è analogo a quello di Michele Tortorici che senza dubbio non ha ripreso volontariamente questa immagine, ma si traduce sempre con il proprio bagaglio personale, storico, culturale ed è questo che avvicina il lavoro del traduttore con quello dell’interprete di una partitura musicale o di un testo teatrale; è anche così che si apre la porta a delle traduzioni continuamente rinnovate.

Ci sono stati molti altri punti di discussione: così tre termini che evocano l’ostinazione ma che appartengono a tre famiglie diverse: cocciutaggine, pervicaci, ostinatamente e che non devono essere tradotti con gli stessi termini; lo stesso l’unione delle parole un marciume liquido difficile da rendere perché qualifica contemporaneamente le pagine di un calendario cadute nella sabbia e i giorni che cadono sulla banchina del porto, restando le une e gli altri invischiati nei detriti. Pareri molto condivisi ma anche dubbi: tra “macération liquide”, “magma liquide”, “liquide putréfié”,” fange liquide”, quale immagine sposa meglio il movimento del testo?

L’espressione alla rinfusa / si allontanano ha dato luogo a numerosi rifiuti: “en désordre” giudicato troppo piatto; “en pagaille” troppo familiare, “à vau l’eau” – che io suggerivo – ritenuto peggiorativo. La questione è rimasta aperta.

Un lungo dibattito c’è stato anche sull’avverbio fortunosamente che designa l’oscillazione tra la buona e la cattiva sorte, la fortuna e la sfortuna, e che qualifica qui la caduta dei giorni. Avevo proposto “bon an, mal an” ma un partecipante mi ha fatto osservare che, su un piano ritmico e per dare davvero l’impressione di una incertezza, di un errare, era meglio trovare una parola più lunga, e ha proposto “aventureusement” Tutti hanno approvato.

E si è arrivati alla conclusione di questa poesia che, sebbene alla lettura possa apparire facile da “decifrare” anche per un non italianista, si rivela invece piena di trabocchetti appena si tenta la traduzione.

Restava la questione del titolo, non risolta. Ma il tempo pressava e io ho dato la mia personale soluzione: far precedere la parola “port” da un articolo indefinito. L’accento cade quindi sulla seconda e sulla quarta sillaba, e si arriva già in questo modo al movimento che si ritroverà per tutto il corso della poesia per significare l’oscillare delle barche alla fermata, quello delle onde, e il “respiro” dei giorni che si succedono.

Sulla coppia della fine della poesia: vocii/calpestii costruito in chiasmo, al tendersi e allentarsi, slanci e tregue, premure e svogliatezze, tutti sono stati d’accordo.

Il testo che presento qui è il prodotto della mia traduzione di partenza rivista ed emendata alla luce della riflessione collettiva.

Un port de jours

Retour des barques tous les jours au port ; et retour
au port des jours avec
patience, avec l’entêtement
qui leur est nécessaire pour ne jamais faillir avec leurs soleils
hauts et bas et puis leurs lunes
changeantes. Retour des barques et retour
des jours sur les môles et l’attente
s’étire comme fait l’écho
quand il résonne sur les hauts parapets qui protègent,
du côté du sirocco, le port.

Un port où les barques anciennes ont
des noms de saints parfois sortis
d’un calendrier ancien lui-même, calendrier
qui a dû être ailleurs
oublié et qui est resté là parce qu’il s’est échoué dans les détritus
salés qui s’entassent et puis suivent le vent comme font
les gamins avec leur ballon dans les rues
qui au-delà de la Plaia s’égarent
en tous sens.

Un port de jours mille fois vus, de retours
si opiniâtres qu’on les croit immuables, de cycles réguliers, ou perçus
ainsi, en tout cas
rassurants.

Un port de jours qui, aventureusement,
l’un après l’autre, tombent entre ces môles où
échoués eux aussi ils restent dans les détritus
que la mer accumule et puis se décomposent
en une fange liquide : personne
ne sait quand — et si — d’autres courants
parviendront à les pousser au large de nouveau.

Un port de jours qui, même lorsque la foule pour marchander
le poisson, en août, se presse tout au bord
du quai, obstinément retournent, aux bruits de voix
indifférents, indifférents à tous les bruits de pas. Et de la même façon
que respire, lorsque se tendent
et se relâchent les cordages,
chaque barque au mouillage, les jours aussi, au mouvement des vagues,
respirent là dans une alternance
d’impulsions et de trêves, d’empressements et d’indolences. Et l’écho
résonne sur les hauts parapets qui protègent,
du côté du sirocco, le port.

Per concludere sull’importanza essenziale ai miei occhi di tradurre sempre la poesia tenendo conto del verso che la fonda, ho distribuito e letto una magnifica traduzione de “L’Albatros” di Antonio Prete e che è presente nel saggio che ha dedicato alla traduzione del testo poetico (vedere qui sotto) e anche una canzone di Guido Cavalcanti di cui ho redatto la traduzione.

Bibliografia:

Baudelaire, Charles, I fiori del male, traduzione dal francese e cura di Antonio Prete, Milano, Feltrinelli, 2003.
Cavalcanti, Guido, Rime, traduit de l’italien, prefacé et annoté par Danièle Robert (édition bilingue), Senouillac, Vagabonde, 2012.
Prete, Antonio, À l’ombre de l’autre langue, [All’ombra dell’altra lingua, 2011], Cadenet, les éditions Chemin de ronde, coll. “Stilnovo“, 2013.
Tortorici, Michele, La pensée prise au piège , [La mente irretita , 2008], traduit da l’italien e prefacé par Danièle Robert (édition bilingue), Senouillac, Vagabonde, 2010.

Il silenzio del mare

Due anni e mezzo fa, in occasione di una strage di migranti in mezzo al Mediterraneo, ho scritto su questo blog:


«Vecchio Nereo custode di visioni / e di memorie che disvela un divino / capriccio all’improvviso per non so quale / inattesa cedevolezza» ho scritto di me stesso parecchi anni fa in una poesia, La vita dell’isola, pubblicata poi ne La mente irretita (2008).
In questa figura mitologica generata, secondo Esiodo, da Ponto (il Mare) unitosi a Gaia (la Terra), mi sono sempre riconosciuto a causa della doppia natura, terrestre e acquatica, propria di chi, come me, è originario di un’isola. Oggi, 3 ottobre 2013, giorno della strage di miei fratelli e sorelle, di miei figli e figlie migranti, morti in quello stesso mare Mediterraneo nel quale io cerco e vedo la vita ogni volta che me ne faccio avvolgere, oggi questo mio sentirmi Nereo mi porta accanto a tutti loro. Percepisco chiaramente su di me, per il semplice fatto di essermi immerso in quello stesso mare, il peso della loro morte. E, mentre maledico tutti coloro che in queste ore usano i corpi di questi miei fratelli e sorelle, figli e figlie, come strumenti di polemica politica, prego, da laico, che il mare possa offrire quell’abbraccio confortevole che il mondo e gli uomini hanno loro negato.


Il cimitero dell’isola di Favignana

Potrei non aggiungere altro. Però, proprio in quell’ottobre del 2013 e proprio con le parole che avevo usato nel mio post, ho cominciato a scrivere una poesia che ho finito in questi giorni, nei giorni di una nuova strage di disperati, nei giorni durante i quali in tanti hanno alzato un muro con il rumore delle loro parole e io, invece, sono stato in silenzio. Se ho taciuto, tuttavia, non è perché non avessi anch’io parole da dire, ma perché, per antica abitudine di isolano, rispetto il silenzio del mare e, in particolare, quello della morte in mare. Oggi, a tutti coloro che non hanno contribuito ad alzare quell’insopportabile muro di rumore – un muro fragile, destinato a cadere nei prossimi giorni e a restare giù fino a una nuova strage – presento questa mia poesia inedita, Il silenzio del mare, dedicata ancora a coloro che attraversano il Mediterraneo per vivere, e invece trovano la morte. Chi vuole rileggere quel mio vecchio post, lo trova qui, insieme al testo de La vita dell’isola richiamato all’inizio della nuova poesia.

Michele Tortorici, Il silenzio del mare (aprile 2015)


«Vecchio Nereo custode di visioni
e di memorie» ho scritto tempo addietro di me stesso per la vita
che mi piace condividere,
quando nuoto ore e ore, con il mare, a causa della mia doppia natura,
terrestre e acquatica. Oggi,
per la morte di tanti
fratelli e sorelle, figli e figlie che il Mediterraneo
l’attraversano con addosso
nient’altro che il dolore di vivere – e tutto
per loro finisce lì – questo mio
essermi detto Nereo, figlio della terra e del mare, abitatore
degli abissi, mi tormenta
come se dalle parole che ho scritte vedessi
tornare indietro l’immagine di una inettitudine riflessa
nell’irresolutezza di uno specchio rotto.

Il silenzio del mare che accoglie,
più benevolo e più immemore di una fossa comune, i miei tanti
fratelli e sorelle, figli e figlie
riesco a sentirlo anche dopo che si è alzato
il muro di rumore, di parole urlate, di buonsenso e di odio: a percepire
il silenzio non sono i sensi, è la mente. Ed è in questo silenzio che piango
i miei tanti
fratelli e sorelle, figli e figlie, vicino
a loro come ogni estate mi capita
di essere vicino ai miei cari, quasi un abbraccio, quando sull’isola vado
a posare fiori e parole – anch’esse
mute: è solo la mia mente
a percepirle mentre le pensa – nel piccolo cimitero che si sporge
sul mare e il silenzio
lo avvolge e per questo
un anno dopo l’altro, davanti
a una tomba la vita
mi si appiccica addosso, stretta
nel mio gomitolo di mare dove, anche se invecchio, riesco a sentirlo
il silenzio.