Settanta anni fa il bombardamento di Dresda

Perché ciò che è accaduto allora non accada mai più

Dresda, 1945: le rovine della Frauenkirche

Ci sono tanti che irridono all’Unione Europea o, senza troppo pensarci su, ritengono di poter fare a meno delle sue istituzioni.
Eppure questa Europa, con tutti i difetti delle sue politiche economiche di austerity, con tutte le insufficienze di una politica estera ancora “non comune”, con tutti i limiti di mediazioni interne spesso al ribasso, insomma con tutti gli errori di una comunità storicamente ancora giovane e che certe volte appare intimidita dalla stessa bellezza del suo essere comunità: questa Europa ha consentito a tutti noi che ne facciamo parte di vivere da settanta anni in pace. Non è così scontato, come ci insegnano le guerre sanguinose che si sono svolte nei territori della ex Jugoslavia della prima metà degli anni Novanta del secolo scorso e la guerra al confine orientale dell’Ucraina che è, purtroppo, storia di questi giorni.
Settanta anni fa le città d’Europa apparivano in molti casi come nella foto qui sopra: un ammasso di rovine causato da cittadini europei contro altri cittadini europei. Il bombardamento di Dresda del 13-15 febbraio del 1945 è uno dei simboli dell’odio di quegli anni: un simbolo tanto più importante perché Dresda era, allora, una città della Germania nazista contro la quale era giusto combattere per difendere la libertà di tutti. Proprio per questo, oggi, tutti, tutti noi che godiamo della libertà e della pace conquistate a quel terribile prezzo, dobbiamo farci carico della responsabilità di quell’odio: perché ciò che è accaduto allora non accada mai più. È questo il sentimento che ho provato quando qualche anno fa sono stato a Dresda e, dopo aver visitato la Frauenkirche da poco restaurata, mi sono seduto commosso davanti al masso nero che ricorda ciò che è stato.
Trascrivo qui sotto i versi che ho scritto in quella occasione e che ora fanno parte della mia più recente raccolta di poesie, Viaggio all’osteria della terra (Manni, 2012).

Michele Tortorici, Domenica a Dresda


Abbiamo sbagliato
a venire di domenica in questa città dove la piazza
dell’Altmarkt è maltrattata oggi dal vuoto che vi abita
come se fosse a casa sua.

Abbiamo sbagliato
a venire di domenica, a venire un giorno
che passano solo turisti e li maledirei, se non ci fossimo
pure noi, tra i turisti,
a fare numero. E negozi chiusi per giunta,
tranne, vedo, una cartoleria
antica, di quelle che cerco
sempre perché mi piacciono penne
e carte, astucci di legno e matite, ma questa
è un po’ snob: più che altro
una rivendita di souvenir di lusso. È per questo
che è aperta. Poco più in là sterri e scavatrici, che sono
da noi scenario
di periferie pasoliniane sopravvissute
al medesimo Pasolini, qui sono – suppongo – impronte
di ricostruzione disseminate
nel centro storico ma, oggi, senza neppure una macchina
in movimento, senza neppure un custode, hanno preso
il senso di una concretizzazione – per la loro stessa forma concava,
e anche
per lo sparpagliamento, dato che sono un po’ dappertutto – del vuoto
che è andato ad abitare nella piazza principale (sarà
la piazza principale, poi, quella dell’Altmarkt? O è
una mia impressione, un errore della guida?).

Abbiamo sbagliato,
comunque, a venire di domenica. Come facciamo a conoscere
il domani di questa piazza? Magari si riempirà. E si svuoterà
– sempre di domani
parlo –, dall’altra parte, la scalinata
della Frauenkirche dove oggi c’è la fila perché tutti,
me compreso, vogliono vedere
il miracolo del restauro. Ma, questi tutti, non hanno nessun interesse
per il vecchio muro annerito lasciato là fuori
a testimonianza, con targa esplicativa – per chi vuole leggerla.
Tra questi tutti
che il vecchio muro non lo guardano neanche, però,
io non sono compreso. Tutti meno uno. Mi sono seduto, invece,
su una panca di pietra all’esterno
della chiesa e me lo sono ficcato bene in testa il muro, insomma
l’ho accettato, senza cialtronerie, quel peso. Me lo sono caricato
addosso perché non sono di quelli
che dicono: «io non c’ero». E va bene. Intanto,
poiché ci sono degli orari per la visita e adesso
non si può più entrare
nella chiesa, anche di quest’altra piazza, quella del Neumarkt, il vuoto
ha preso possesso.

Abbiamo sbagliato
a venire di domenica. Passerà di qui, negli altri giorni,
chi lavora in questa città, chi ci vive, quelli che l’hanno avuta
negli occhi da prima. Sono convinto che il peso
l’avremmo condiviso, nonostante il mio incerto tedesco. Quanti sono
i più vecchi? Mi sbaglierò, ma non posso
immaginare che in un giorno come tanti, in un giorno
qualsiasi di lavoro, pieno del passare
di chi vive in questa città, sarei qui ugualmente
solo a tenermi
addosso questo peso.

Abbiamo sbagliato
a venire di domenica. E abbiamo sbagliato,
soprattutto, a venire da turisti. In questa città dovevamo
venire da pellegrini.


Il lutto della libertà

Da quanto tempo lavoro con la parola? Non so neppure fare i conti, ma certamente da più di mezzo secolo. Sarà per questo che considero la libertà di espressione come la libertà tout court.
Oggi l’esercizio di questa libertà è stato impedito, con l’assassinio, a coloro che posso considerare miei vicini di casa, miei amici, miei fratelli. Miei fratelli, sì. Di fronte alla notizia della strage di Parigi, di una strage a due passi da noi, io non mi metto certo a sottilizzare sul tipo di satira di “Charlie Hebdo”, come tanti hanno fatto in queste ore sui social network succubi dell’inconscio bisogno di sentirsi immuni dalla violenza per il fatto di supporre che altri se la siano meritata, anzi – come ho letto con profondo sconcerto – che se la siano «andata a cercare». Io non sottilizzo perché sento forte e scura un’ombra di lutto posarsi su quello che faccio tutti i giorni: leggere e scrivere. Per questo metto un nastro a lutto su questa pagina del mio blog.
Che cosa potrò leggere e che cosa potrò scrivere domani? Se fossi capace di fare satira (che invece non è proprio nelle mie corde), mi verrebbe voglia di “andarmela a cercare”. Anche per questo, oggi io sono meno libero di ieri. Ci sono quelli che, per punire i colpevoli di questo misfatto e per evitare altri misfatti come questo, sono disposti a rinunciare ai principi sui quali si fonda il vivere civile dell’Europa, il loro, il nostro vivere civile. Anche per questo, tutti siamo meno liberi di ieri.

Al vivere civile dell’Europa, ai valori della democrazia e della pace che in questo vivere si incarnano e che sono il risultato prezioso di un percorso plurimillenario, a volte dolorosissimo, io non rinuncerò. Agli assassini dico: fermatevi. A chi può farlo dico: fermateli. Ma continuerò comunque ad affermare il mio credo civile, anche se questo (in un domani che mi auguro non appartenga all’orizzonte della storia) volesse dire “andarmela a cercare”. Al lutto della libertà io rispondo con la ricerca di una nuova vita della libertà.

Auguri!

Auguro a tutti Buone Feste e un 2015 nel quale la nostra fantasia sia così forte da impedire a chiunque di mettere il naso sulle strade che facciamo e sulle scelte che ne derivano. Vedrete che, così facendo, sarà più facile evitare che qualcuno possa anche solo pensare di comprare la nostra anima e, poiché certe azioni sono contagiose, sarà più probabile che in molti la smettano di vendere la propria. Basta fare Il contrario di re Mida, come dicono i versi che seguono (si trovano nella mia raccolta Viaggio all’osteria della terra.
Che la pace e la serenità siano le nostre strade nel 2015.

Michele Tortorici, Il contrario di Re Mida, (da Viaggio all’osteria della terra, Manni, 2012)


Finirà che almeno per un po’ diventeremo
ladri di fantasticherie. Diventeremo saltimbanchi
per fare capriole dentro a ogni racconto che sia stato
raccontato, per lasciarci cadere, come personaggi
ancora da inventare, in mezzo a storie come quelle,
per esempio, che leggevo
sui libri grandi, dalle pagine
spesse e un poco ruvide, che ho avuti
in regalo quando ero ragazzino. C’erano
in quei libri storie che io credevo vere e credo ancora
che posso finirci dentro se cammino
così come mi va, senza che altri
mi dica che strada fare – partenza, arrivo, percorso, se e dove
girare e tutto il resto.

Finirà che almeno per un po’ diventeremo
costruttori, per conto nostro, di strade dove nessun altro
metta il naso per dirci
da che parte andare. Tutto attorno
faremo come si fa con le montagne
di cartapesta del presepe. Uno scenario
diverso, però; lasciate fare a me: giungle, pirati, tigri,
avventurieri, fiumi, mari e infine navi ferme
nella nebbia: saranno strade
indecise, dubbiose, biforcate, con attraversamenti
continui perché possano
i nostri cammini sparpagliarsi qua e là, andare in su,
andare in giù, andare avanti e indietro, ritornare
− vivaddio − sulle orme lasciate, senza credere
che sia tempo perso.

Finirà che, se davvero costruiremo
strade dove nessun altro
metta il naso per dirci da che parte andare, impiastricciati
come saremo di terra, di pietrisco e di catrame, ci verrà
anche voglia poi di fare apposta il contrario
di quello che – dice il mito – faceva re Mida: toccheremo
tutti i pensieri e tutti i dubbi che ci saranno venuti in queste strade,
tutte le storie, tutte le parole,
tutti i nostri saperi pubblici e privati, tutti i libri
di tutte le avventure – peggio
per chi ancora non ne ha letto nulla! – e toccheremo
infine tutto quello
che ci piace per evitare che diventi oro.


Il signor Maurizio

Il ritorno a Velletri dalle vacanze non è stato lieto. A Velletri manca oggi, infatti, qualcuno: il signor Maurizio Vìdili che, per anni e anni (un quarto di secolo o mi sbaglio?), mi ha servito con professionalità il suo meraviglioso caffè e mi ha donato con generosità la sua straordinaria gentilezza. Come d’altronde faceva con tutti.
Già, la sua gentilezza. Non era soltanto una, pur importante, questione di forma. Dalle poche parole di breve intrattenimento che ogni volta volentieri scambiavamo credo di aver capito che fosse, invece, una sostanziale questione di pace. Mi spiego: ci sono persone che, dalle quotidiane inevitabili battaglie che il loro animo combatte – e sono certo che anche nell’animo del signor Maurizio se ne combattessero – riescono a uscire, anziché con ira o con disagio, con quella che chiamerei una composizione delle parti, un ristabilimento dell’armonia, insomma creando dentro di sé e intorno a sé un ambiente di pace. La gentilezza era dunque in lui l’effetto di qualcosa di più profondo, non la causa di una forma che, in ogni caso, anche di per sé, era preziosa e rallegrava i momenti passati nella sua torrefazione.

Non posso che, sia pure in ritardo, ringraziare il signor Maurizio di questo qualcosa di più profondo, di questa pace che ora è tutta e pienamente sua. Ma, poiché sono convinto che la sua generosità non sia finita con lui e penso che, nel suo ricordo, quella pace possa continuare a essere anche un po’ nostra, proprio al suo ricordo voglio dedicare due cose.
La prima è una pianta di olivo. La ragione di questa dedica è che questa pianta non soltanto rappresenta un simbolo di pace, ma è anche all’origine della seconda passione che il signor Maurizio aveva dopo il caffè e cioè l’olio: l’olivo del quale parlo l’ho messo a dimora non molti giorni fa nell’isola della quale sono originario, Favignana; è di una qualità tipicamente siciliana, la “Giarraffa” (nome che le deriva, credo, dalla forma dei rami, allungati come il collo di una giraffa). Ecco, quella pianta sarà per me e per coloro che la vedranno crescere nei prossimi anni “l’olivo del signor Maurizio”.
La seconda cosa che voglio dedicargli è una poesia che ho pubblicato nel 2012 nella raccolta Viaggio all’osteria della terra. Si intitola Le dune e i laghi salmastri e l’ho scritta a proposito di un luogo dove il signor Maurizio passava le sue vacanze: quel tratto di costa tra Foce verde e Sabaudia nel quale la terra si mischia due volte con l’acqua, da una parte con quella del mare e dall’altra con quella – come dice il titolo della poesia – dei laghi salmastri.

Addio, gentile e caro signor Maurizio.

Michele Tortorici, Le dune e i laghi salmastri (da Viaggio all’osteria della Terra, Manni, 2012)


I

Sono dune, queste, e come tutte le altre dune fermano
il mare semplicemente standosene qui, con il continuo
accumulare e accumulare sabbia. Ed è una sabbia,
poi, così leggera che non la crederesti
capace di opporsi a onde grandi, così soffice
che il corpo vi resta
disegnato se ti stendi e ogni passo vi traccia
piccoli incavi che segnano
confini alla luce e l’infinito
racchiudono così in finite ombre.

Tira il vento, qui, e come in tutte le altre spiagge, quando
è forte, solleva gli ombrelloni e strisce bianche
e rosse e di chissà
quanti altri colori colorano
la sabbia grigia con la loro fuga e sembra
un passatempo che si possa
ripetere per gioco
              (viene
da maestrale il vento, viene dalla Provenza, dove ha preso
tutti gli odori che poteva prendere
dalla terra e poi dal mare, quando vi è passato, le saline
vischiosità e tutto
ha portato con sé il vento e lo ha posato
sulla sabbia per l’amore che ha
di queste dune).

Ci sono rimasugli, qui, di vita, concreti come tutti gli altri
rimasugli che il mare
si tira sempre dietro e che trascina
fino alle dune, non sai
se perché siano custoditi o perché possano
consumarsi, nella sabbia.
                   Il sole
secca e scolorisce insieme, durante l’inverno, quella
multiforme accozzaglia che il rastrello
della pala meccanica, all’inizio
della stagione estiva, pigia
poi a mucchi sul confine
tra la spiaggia piana e il declivio
che sale fiaccamente sulla strada.

C’è infatti una strada qui, sopra il declivio
che divide il mare
dai laghi salmastri. E segue, questa strada, il litorale
come una sofisticata amante incerta
dei piaceri possibili, sedotta
dalla selvatichezza eppure immune
da questa. E gioca, la sabbia, sulla strada il gioco
interminabile di andare
a coprire l’asfalto e poi tornarsene via al primo passaggio
di un’auto, di una moto o anche solo di un vento
diverso da quello che l’ha spinta lì.

E non si stanca mai, per tutti questi
giochi e questi venti, per tutto ciò che fanno i suoi granelli,
non si stanca, la sabbia, di resistere
alle onde, della fatica che veste
ancora un suono antico, del suo ricominciare
ogni volta daccapo. E questo è tutto.

II

Dietro – dietro le dune, intendo – i laghi
salmastri fanno specchio, lungo tutto
il contorno delle sponde al verde fitto
di arbusti aggrovigliati in una bassa, talvolta
spinosa, macchia e poi, nel centro, al cielo,
come per custodirlo dentro una più tranquilla e riparata
cornice.

Penso però che il cielo, per specchiarsi,
non la voglia questa cornice, che non voglia
questo bordo chiuso e che vorrebbe, anzi,
uscirne, non abituato
com’è a certi limiti. Ma i laghi
che riposano laggiù non se ne danno
cura perché l’infinità di quell’alcova dove il cielo
al mare, giorno
dopo giorno, si unisce
loro non la conoscono, non percepiscono
quella vicinanza, sono
indifferenti al fatto che, dall’altra parte appena delle dune
di sabbia, l’infinità di quell’alcova si apre
dove la tua mente, fino a che
vuole, si può spingere, si apre anche al di là dell’ombra
azzurrina che il Circeo
effonde e che non ti impedisce
di vedere – o immaginare – tutta la vastità che si allontana.

Sono le dune che creano
questa separatezza ed è da questa
che sono nati i laghi e l’essere racchiusi, d’altro canto
– e perciò indifferenti –, appartiene
alla loro stessa indole lacustre.

Ora, al contrario della loro indifferenza,
a noi la nostra saggezza permette, quando stiamo
qui lungo la cresta dove c’è la strada, di riconoscere
ciò che di diverso da una parte e dall’altra è separato.

Ora, al contrario della loro indifferenza,
ci fa distinguere – questa nostra saggezza –, mentre ce ne stiamo
lungo la cresta, da questa parte,
la finitezza e di là,
non l’infinito certo, perché non è umana
questa dimensione, però una sua terrena
immagine, una sua rappresentazione che sia
alla nostra portata.

Per questa saggezza, per questa possibilità
che abbiamo di guardare,
dall’una parte e dall’altra delle dune, due
così diverse
misure dell’esistenza e ravvisarle entrambe come parte
di ciò che ci appartiene, per tutto questo – credo –
non è concessa a noi l’indifferenza.


La poesia visiva

A proposito della mostra Belle parole a Fano

Poco meno di due settimane fa ho pubblicato un post, Che vergogna!, a proposito delle tragicomiche avventure di un mio viaggio a Fano. A Fano ero andato per vedere la interessantissima mostra di poesia visiva Belle parole che si è svolta fino al 28 giugno scorso nelle sale della Galleria Carifano a Palazzo Corbelli. Avevo promesso che ne avrei parlato ed ecco le mie riflessioni in proposito.

La mostra ha presentato al pubblico, per la prima volta tutte insieme, molte importanti testimonianze di poesia visiva e, in particolare, di quella corrente nata nel 1963 con il “Gruppo 70” e cresciuta poi fino agli anni Novanta del secolo scorso in quella vera e propria officina di idee costituita da Campanotto Editore. In questa straordinaria casa editrice l’espressione della poesia visiva è stata favorita, da una parte, dalla lungimiranza e dalla lucidità di Franca Campanotto – grande “signora” dell’editoria italiana scomparsa purtroppo tre anni fa – e, dall’altra, dalla creatività del suo direttore editoriale Carlo Marcello Conti, artista e poeta egli stesso, sempre disponibile alle avventure della mente.
Le opere esposte (tra le più importanti, quelle di Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini, Mirella Bentivoglio, Michele Perfetti, Lucia Marcucci, Adriano Spatola, Gian Paolo Roffi) ci hanno ricordato la volontà di quel gruppo di poeti di trasformare la poesia in comunicazione plurimediale, anzi in un «neo-volgare» mediale, cioè in un linguaggio comprensibile a tutti (a differenza di quello della contemporanea neo-avanguardia), disponibile alla contaminazione con la tecnologia e capace, proprio per la sua semplicità di approccio, di demistificare i prodotti della moda e della pubblicità, magari facendo loro il verso. In questo universo mediale la parola non solo si mescolava con altri media, ma assumeva a sua volta una duplice medialità: continuava sì a essere testo verbale scritto, composto di segni alfabetici, ma diventava al tempo stesso segno iconico in grado di interagire con altri segni iconici mediante le tecniche più svariate. Si può dire che il “Gruppo 70” portava così a compimento il lungo cammino cominciato dalla poesia contemporanea nel momento in cui aveva preso coscienza di quella che chiamerei la solitudine – ma anche, perciò, la autonoma significatività – del testo poetico scritto.

Eugenio Miccini, Il poeta incendia la parola,
s.d.,
Tecnica mista su cartoncino

Per capire in che cosa è consistito questo cammino è necessario qui un approfondimento (per cui potete leggere anche questo mio intervento di qualche tempo fa). In breve, il testo poetico è stato per millenni un testo verbale fonico. La forma scritta attraverso la quale esso ci è stato tramandato sui vari supporti che la storia via via ha offerto – da ultimo, la carta stampata – non ha mai avuto altro valore che quello di testimone: textus/testis, come dicevano i latini con un azzeccato gioco di parole. Questa condizione millenaria si è modificata solo intorno alla fine del XVIII secolo. Più o meno in quel periodo la lettura privata del nuovo genere letterario di massa, il romanzo, una lettura fatta da soli e solo con gli occhi, ha, per così dire, contagiato anche quella della poesia, che da Esiodo fino ad allora era stata fatta in pubblico e ad alta voce. Da allora il testo poetico è stato percepito dal lettore come testo verbale scritto. Poco più di un secolo dopo questa svolta alcuni poeti, in particolare Apollinaire e i futuristi, hanno avvertito la possibilità di un uso nuovo e diverso di quel testo verbale scritto che da tempo non era più semplice trascrizione del suono delle parole, ma aveva una sua piena e totale autonomia: hanno cioè utilizzato quello testo, quell’insieme di segni alfabetici, come segno iconico. Il risultato più importante e più poeticamente riuscito di questa nuova assunzione del testo poetico come testo anche iconico sono certamente i Calligrammes di Apollinaire (qui il sito di riferimento), ma non mancano esempi molto belli di poesia visiva futurista (uno di questi, Paesaggio+temporale di Giacomo Balla, esempi lo trovate nell’intervento già richiamato). Ormai da un secolo, dunque, il testo di una poesia che noi vediamo scritto su una pagina, da quella stessa pagina, ci occhieggia con gli attributi di un grafo. E non solo nei testi dei poeti che, più consapevoli di questa svolta, hanno volutamente prodotto testi di poesia visiva, come quelli, appunto, del “Gruppo 70”, ma nei testi di tutti i poeti. La collocazione dei versi sulla pagina non si limita più soltanto all’indicazione dell’a capo: è diventata ormai anche una indicazione visiva, un segnale stradale lungo il percorso della fruizione del testo poetico. È sufficiente pensare, per rendersene conto, alla collocazione tipografica dei versi sulla pagina, con rientri, spaziature e con ogni genere di deformazione dell’andamento lineare della riga su cui viene collocato il verso.

Lucia Marcucci, Polluzione 1971,
Tecnica mista su carta

Rispetto a questi interventi tipografici che troviamo più o meno diffusi in quasi tutti i libri di poesia stampati nell’ultimo secolo, la poesia visiva opera un processo di semplificazione. Nessuna ambiguità, nessun occhieggiamento: il segno verbale scritto, la parola scritta con i segni alfabetici, diventa in tutto e per tutto segno iconico e si affianca senza stridere ad altri segni iconici che nulla hanno a che vedere con l’alfabeto. In qualche caso, anche tra le opere esposte a Fano, la parola è assente e allora – a mio parere – è difficile parlare ancora di poesia visiva e non di opera d’arte visuale. In tutti gli altri casi, la parola non perde importanza, ma, come nella pubblicità, si assolutizza in uno slogan, in un titolo, diventa un motto da ricordare. «Il poeta incendia la parola», un tema sul quale Eugenio Miccini è tornato più volte, è tutto questo: è lo slogan di un manifesto pubblicitario nel quale è affiancato a una fiammata di testi, è il titolo dell’opera ed è un motto che ben sintetizza l’attività dei poeti del “Gruppo 70” e, in fondo, di tutti i poeti. «Polluzione» è il titolo di un testo di tre righe (tre versi? credo di sì) che Lucia Marcucci fa confrontare e contrastare, nella loro linearità, con un profilo che definirei arcimboldiano, ridotto però al rigore della quadricromia. In tutti e due i casi, come fare a non sussultare, a non lasciarsi coinvolgere emozionalmente da quell’incendio o da quell’esplosione? L’effetto è appunto quello di una pubblicità, la cui essenza è smentita però dalla assoluta non commerciabilità dell’oggetto proposto – la poesia, la guerra atomica – ed è perciò smontata e svelata nei suoi meccanismi suasori.

Il fatto che la poesia visiva non abbia avuto eredi diretti dopo il quarantennio di piena attività nel quale si è sviluppata a partire dalla metà degli anni Sessanta non vuol dire che essa non sia stata fertile. Da quel terreno è cresciuta una nuova consapevolezza della ampiezza dei confini del testo poetico e, nel praticare quello stesso terreno, così strettamente legato al segno iconico, la poesia ha riscoperto paradossalmente il valore del suono della parola: molti poeti visivi hanno acquisito nuove contaminazioni con i media digitali e sono oggi performer di testi multimediali. Alcuni poeti visivi sono stati anche poeti sonori (si pensi ad Adriano Spatola e Gian Paolo Roffi). Allontanarsi dalle origini ha aiutato insomma a ritornare più vicini alle origini, quando il testo poetico – testo verbale fonico – si mischiava a quello musicale, alla danza e costituiva, ogni volta che veniva eseguito, un evento al quale si poteva ben attribuire il nome di «Poesia totale» coniato in un saggio del 1978 da Adriano Spatola. Un grazie di cuore agli organizzatori della mostra Belle parole che ci ha fatto riflettere su tutto questo.

Che vergogna!

Un viaggio in treno da Roma a Fano

Tempo fa ero stato avvertito da un caro amico, il poeta e performer Giampaolo Roffi, di una bella mostra sulla poesia visiva a Fano (Belle parole: chiude sabato prossimo, ne parlerò presto su questo blog) e ieri mi sono messo in viaggio per andarla a vedere. Nel fare via internet i biglietti del treno mi ero subito accorto che non sarebbe stata una cosa tanto facile: all’orario buono per me non c’era né uno dei due intercity giornalieri né l’unico “frecciabianca”; solo “regionali veloci”. Niente di male, ho pensato, dato che non avevo nessuna fretta e che il “RV” delle 11.28 mi avrebbe portato comunque in meno di quattro ore a Falconara e da lì, con una coincidenza piuttosto sicura (quaranta minuti di scarto), sarei stato a Fano per le quattro e mezza: avrei avuto il tempo per una doccia, per un breve riposo, e per una tranquilla passeggiata a Palazzo Corbelli, dove, nelle sale della galleria “Carifano”, la mostra avrebbe aperto alle 18.30.

Pronti, via! Un primo problema si è presentato al momento in cui è apparso sul display luminoso della stazione Termini il numero del binario, 1ES, inutile abbreviazione di 1 EST, ma senza l’indicazione, che sarebbe stata invece utilissima, che il medesimo binario si trova esattamente a mezzo chilometro dalla stazione propriamente detta. Niente di male, ho pensato un’altra volta, dato che sono un buon camminatore e che, come sempre, ero in largo anticipo sull’orario di partenza. Difatti ho raggiunto perfettamente in tempo il mio “RV”, un trenino di due vagoni che dava l’impressione di essere abbandonato al sole in uno scenario desolato. Ma era solo un’impressione. Bastava salire e si capiva subito che quei due vagoncini non erano affatto abbandonati, erano anzi pieni, pienissimi e trovare un posto a sedere non è stato facile. Niente di male, ho pensato, una volta che mi sono seduto nel penultimo o terzultimo posto libero: il calore umano di tanti passeggeri ci avrebbe aiutati tutti a sopportare il freddo intenso prodotto, già prima della partenza, da un’aria più “sconsiderata” che “condizionata”.

Nel frattempo riflettevo sul nome di questi treni che una volta si chiamavano “accelerati” e ora “veloci”. Li chiamano così, mi domandavo, per esorcizzare, con questi riferimenti semantici alla rapidità, la loro lentezza? Oppure quei nomi li usano proprio per sottolineare quella lentezza persino con una punta di cattiveria, come certe volte fanno i ragazzi a scuola quando chiamano “occhio di lince” un loro compagno particolarmente miope? La seconda, forse.

Eh, va bene. Pronti, via! Il secondo problema che ho notato non viene di solito considerato tale: il treno è partito con circa dieci minuti di ritardo. Ma posso affermare con certezza che nessuno dei treni che ho preso da un anno a questa parte (mi sembra inutile risalire più indietro) è mai partito perfettamente in orario. È l’abitudine che non fa considerare un problema questi ritardi nella partenza. Sciatteria? Non lo so. Niente di male, ho pensato comunque, dato che c’è tutto il tempo per recuperare.

Solo venti minuti dopo ho cominciato a pensare che qualcosa di male dovesse esserci in quel viaggio. Forse l’ottimismo che avevo ripetutamente ostentato a me stesso era fuori luogo. Il treno, infatti, dopo la regolare fermata a Tiburtina, si era piantato come un albero in aperta campagna e non non si muoveva da un pezzo. Qualcosa di male deve proprio esserci, ho pensato. Ma che cosa? Come al solito, a lungo nessuna comunicazione è stata fatta ai viaggiatori. Infine, dopo più di un quarto d’ora, un sintetico avviso ci annunciava che la sosta del treno era “dovuta per motivi di precedenze”. L’unico scopo di questo avviso era farci capire che l’amore per la sintassi, qualora provato da chi aveva predisposto quel testo, non era comunque per niente corrisposto. Infatti non ci era stata detta la sola cosa che ci interessava, cioè quanto a lungo potevano durare quei “motivi di precedenze”. La risposta a questo interrogativo è venuta dai fatti: molto. La sosta è durata molto; abbastanza da fare accumulare al treno circa quaranta minuti di ritardo. Ahi, che male! Proprio i quaranta minuti di scarto della coincidenza che io consideravo sicura.

Pronti via! Di nuovo. La ripresa del movimento del treno, salutata da tutti con soddisfazione, ci ha portati in breve, via Orte, Nera Montoro, Narni, Terni e Spoleto, fino a Trevi dove un nuovo e, questa volta, inaspettato e indesiderato annuncio ci ha avvertito che chi viaggiava per Falconara doveva cambiare treno a Foligno. Questo non era assolutamente previsto. Dunque il panico. La metà di noi (io, da un po’ immerso nella lettura, ero compreso in questa metà) era convinta di trovarsi già a Foligno e si è precipitata verso le uscite, ma è tornata indietro come una molla dopo che i primi, una volta scesi sul marciapiedi della stazione, avevano letto la targa con il nome di Trevi e avevano fatto un non facile, ma comunque deciso e tumultuoso, dietro front. I viaggiatori stranieri, poiché tutti gli annunci venivano fatti rigorosamente solo in italiano (e in quell’italiano) seguivano il flusso dei più, ma, dopo il tira e molla al quale avevano assistito, si erano accasciati sui loro posti in attesa di una catastrofe sconosciuta, ma ritenuta imminente.

In queste condizioni di spirito e di fisico siamo arrivati a Foligno. Qui era davvero il momento di scendere, ma solo per noi che eravamo diretti a Falconara. Coloro che erano diretti a Perugia dovevano restare sul treno d’origine. Gli stranieri, dovunque fossero diretti, sono scesi e hanno preso l’altro treno, sempre con l’idea che seguire il flusso dei più fosse comunque la cosa migliore da fare. D’altro canto, tutti noi, anche quelli in possesso di un po’ di inglese, eravamo già abbastanza abbrutiti (lo confesso con personale imbarazzo e disagio) da fregarcene completamente della loro destinazione giusta o sbagliata.

Ancora una volta, pronti, via! Dopo il cambio imprevisto, il ritardo era salito a circa quarantacinque minuti. Ma nessuno ce lo ha detto. Sul nuovo convoglio, infatti, nessun annuncio. Niente di niente fino all’arrivo a Falconara. Sembrava che non ci fosse personale a bordo. Come ho fatto allora a sapere del ritardo? Nel trambusto, consultando freneticamente il mio tablet per capire se avevo altre possibilità di arrivare in tempo a Fano nel caso probabile in cui fosse saltata la mia coincidenza, mi sono accorto che una app (si chiamano così, non chiedetemi perché, i programmi per i tablet e gli smartphone), “Prontotreno”, aveva al suo interno una opzione, “Stato treno”, dalla quale – rete telefonica permettendo – si poteva seguire passo passo, o meglio, stazione dopo stazione, il passaggio del treno e il ritardo rispetto all’orario previsto. Un libro in una mano, il tablet nell’altra, e il gioco era fatto. Una serie di leggeri miglioramenti prontamente registrati dall’app, mi ha fatto sperare: il ritardo andava scendendo verso i trentacinque minuti.

Devo aggiungere qui, per dovere di cronaca, che il passaggio da un treno con dieci gradi circa di temperatura a quest’altro con almeno venticinque (aria condizionata rotta o scelta sadica?) aveva intanto fatto sgorgare in tutti noi piccoli e diffusi ruscelletti di sudore e forse in qualcuno, anche per il protrarsi del viaggio, l’esigenza di ruscelletti di altro e più escrementizio genere. Fatto sta che il treno non profumava davvero e, vicino alle toilettes scrupolosamente d’annata, puzzava in modo insopportabile. Io e gli altri che dovevamo prendere la coincidenza per Fano, tuttavia, eravamo talmente concentrati sul trascorrere del tempo e sul ritardo del treno che i nostri sensi, come accade in queste occasioni, erano attutiti, tanto che persino i meravigliosi luoghi attraversati non avevano suscitato in noi nessuna emozionata meraviglia, come invece avrebbero dovuto.
Finalmente, ecco, il treno rallenta in vista della stazione di Falconara e tutti ci precipitiamo verso l’uscita in anticipo perché siamo a pochi minuti dall’agognata coincidenza e non vogliamo perderla. Una ragazza, arrivata con il respiro affannato sulla piattaforma dell’uscita (vicina alla toilette), nel riprendere fiato, ha insufflato nei polmoni una zaffata della puzza terribile che lì aleggiava e ha cominciato ad avere violenti conati di vomito, finiti soltanto, senza ulteriori e più effusive conseguenze, all’apertura della porta da dove la ragazza stessa si è poi praticamente gettata a corpo morto sul marciapiedi della stazione con il rischio, data la situazione di generale prostrazione morale, di essere calpestata e sopraffatta. Un barlume di pietà umana rimasto in noi ha scongiurato questo rischio. Eravamo ancora esseri umani ed eravamo a Falconara, incredibilmente, in tempo per la coincidenza per Fano. Dunque, tutti giù di corsa per le scalette fino al sottopassaggio dove il display mostrava i treni in partenza e il relativo numero di binario: e, a fianco al treno per Fano delle 16.01, era scritto: “sopp”, abbreviazione per “soppresso”. Il treno successivo alle 16.49.

Inutile protestare. Con chi poi? Unica alternativa due passi per Falconara. Uscito dalla stazione, vedo un’edicola con il “Resto del carlino” in bella mostra e il titolo: “Italia. Il giorno del giudizio”. Ecco, mi sono detto, era tutto previsto, come facevo a non saperlo? Il titolo però non si riferiva a una catastrofe ferroviaria che avesse fatto prospettare, in tutto il pianeta, solo la fine della penisola italiana, ma alla imminente partita Italia-Uruguay (conoscendo l’esito della partita, si potrebbe dire con facile ironia che la nazionale italiana di calcio è andata ai Mondiali come un treno o, meglio, come i suoi treni).

E comunque, per l’ennesima volta, pronti, via! Alle 16.49, direte voi. No, perché, dovendo partire da Ancona alle 16.40 e dovendo arrivare a Falconara alle 16.48, il treno della nuova coincidenza è riuscito ad accumulare cinque minuti di ritardo su otto di percorso – un bel record – ed è poi arrivato a Fano con dieci minuti di ritardo su ventotto di percorso – forse non un record, questo, ma comunque, bisogna riconoscerlo, una bella prestazione!

Un salto in albergo, una rapida doccia, un cambio completo di biancheria e di abiti e via alla mostra, non con una tranquilla passeggiata, come avevo previsto di fare, ma a passo rapido. Una mostra stupenda, permettetemi di parlarne in un prossimo intervento.
Lasciatemi riposare.

E lasciatemi dire che, più e oltre che disappunto, più e oltre che rabbia, ho provato alla fine di quel viaggio una indicibile vergogna per come, in questo paese bello e sventurato, vengono trattati i cittadini e per la noncuranza con la quale si manca di rispetto al loro diritto costituzionale alla mobilità.

P.S.
Non vi parlo del viaggio di ritorno: tutto quasi normale. Sul treno Falconara-Roma, i soliti dieci gradi di temperatura ma, bisogna dirlo, due soli minuti di ritardo (per questo ho scritto “quasi normale”). Tutto come al solito, dunque, compresa – per me che abito a Velletri – la soppressione del treno da Ciampino delle 13.14 (questa volta neanche annunciata dal display, ma comunicata a voce ai viaggiatori in attesa sul marciapiedi da un funzionario delle Ferrovie apparentemente, e forse ragionevolmente, in fuga), il ritardo di circa dieci minuti del treno successivo e, insomma, le solite due ore abbondanti per percorrere i trentotto chilometri che dividono la capitale d’Italia dalla amena località dei Castelli romani dove ho scelto di vivere.

I nomi dei poeti nelle strade

Sei anni fa, il 4 maggio 2008, è apparsa su un importante quotidiano italiano la notizia che il Governo dell’Ucraina, allora presieduto da Julija Tymošenko, aveva deciso di rimuovere dalle strade delle città ucraine le targhe con i nomi di grandi personalità russe del passato e, tra queste, le targhe con i nomi dei grandi poeti russi. Io non vidi affatto in quel gesto un fenomeno di costume, come sembravano suggerire certi toni leggeri dell’articolo che riportava la notizia in questione. E non vidi neanche una semplice rivendicazione di identità nazionale. Fui invece preoccupato dalla quantità di odio nazionalistico che pensavo fosse stata necessaria per cancellare il nome di Puškin e sostituirlo con quello di Roman Shukhevych, discusso generale che aveva collaborato con i nazisti e partecipato a tragici eccidi negli ultimi anni della seconda Guerra Mondiale.
Fu questa preoccupazione, allora – mi sembra – non avvertita dagli “esperti” di politica internazionale, a farmi scrivere di getto la poesia che potete leggere qui sotto, I nomi dei poeti nelle strade. Pochi giorni dopo, il 12 maggio, volli aprire la presentazione al Salone di Torino del mio libro La mente irretita con la lettura di questa poesia, lettura che fu accolta con emozione, ma anche con una certa sorpresa da parte del pubblico che o non aveva letto l’articolo o non ne era stato particolarmente colpito.
A sei anni di distanza, l’interrogativo che conclude la poesia mi sembra che abbia assunto, come capita a volte alle inascoltate parole dei poeti, un senso profetico.

Michele Tortorici, I nomi dei poeti nelle strade (da Viaggio all’osteria della Terra, Manni, 2012)


Agli amici dell’Ucraina

Amici dell’Ucraina,

lasciateli stare i nomi dei poeti nelle strade
di Kiev e delle altre
vostre città. Quei nomi che volete cancellare saranno
pure di poeti nati in un paese che ora
voi chiamate nemico, ma la patria
dei poeti non è dove nascono, è in ogni luogo dove
sono vivi uomini
sulla terra e la parola
li accompagna.

Lasciateli stare i nomi dei poeti, anzi, dalle targhe
dove sono scritti, copiateli con la vernice bianca sull’asfalto
come una volta facevano i supporter per i corridori
del Giro o del Tour. Scrivete i nomi e poi scrivete anche
i loro versi e camminateci sopra
per vivere.

I poeti di quel paese che ora
voi chiamate nemico sono
poeti del mondo e di confini
non sono abituati ad averne. Lasciateli stare
i loro nomi, se qualcuno
ne avevate prima dimenticato,
aggiungetelo adesso. Scrivete il nome e poi scrivete anche
qualcuno almeno dei versi
che ha composto. Amici, è sempre tempo
di avere parole di poeti per compagne
sulle strade di Kiev e di ogni altra
vostra città: se li togliete
quei nomi, quelle strade
dove credete che vi porteranno?


Buon Primo maggio

Quest’anno la stagione è un po’ in ritardo. Ma la campagna romana e, immagino, anche altre campagne lievemente ondulate e soleggiate in Italia e altrove, hanno già cominciato a tingersi del rosso dei papaveri. Tra non molto ne saranno interamente colorate.
E diventeranno, a guardarle, enormi bandiere rosse che ondeggiano al vento. Come, una volta, erano le piazze il Primo maggio.

A differenza delle piazze, i papaveri insistono a sbandierare il loro rosso e lo faranno ancora a lungo. Non so quanto, ma ancora a lungo. Ogni volta che viene, in ritardo o no, la loro stagione.

Buon Primo maggio a tutti

Michele Tortorici, Papaveri e papere (canzone che mi viene in mente quando attraverso in macchina la campagna romana) (Da Viaggio all’osteria della terra, Manni, 2012)


«Lo sai che i papaveri son alti, alti, alti»
(Mario Panzeri, 1952)
«Il testo di Papaveri e papere mi è stato suggerito
dalla prosopopea di certi personaggi politici.
Credo che anche con una semplice canzonetta
si possa fare della satira di costume»
(Mario Panzeri, 1952)

Ora che è la stagione dei papaveri, al vederli,
mi domando perché
mai a questi fiori sia stata associata
l’idea di un privilegio. Certo, sono alti i papaveri, come
dice – ed è giusto – la vecchia canzone; però
basta guardarli per capire
che non hanno nessuna prosopopea, anzi occupano
con umiltà posti da altri fiori
certo non desiderati,
perché sono sparsi qua e là in mezzo a erbe
spesso selvatiche, infestanti.

L’unico privilegio – credo io –
che i papaveri hanno è nel colore. E ciò per due ragioni.

La prima è che,
per quanto possano altre
erbe sopraffarli, sono loro – i papaveri –
che tu vedi, sono loro anzi che macchiano,
come se fossero inchiostro, con il colore
rosso le occasionali,
moleste compagne della breve
vita che vivono.

La seconda è che,
a causa di questo loro macchiare, appena si alza
un po’ di vento, tutta la campagna,
lì dove sono i papaveri, è un’onda di rosso, o piuttosto
– guarda bene – è una bandiera.

L’unico privilegio – credo io –
che i papaveri hanno è nel colore. Per due buone ragioni.


La «lampada accesa»

Dante era più avanti di Papa Francesco?

Nel discorso tenuto all’Angelus domenica 9 febbraio Papa Francesco ha ripreso e commentato due immagini del Vangelo del giorno. Nel brano citato (Matteo, 5, 13-16), Gesù dice ai suoi discepoli:


Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.


Riferendosi all’immagine della “lampada accesa” il papa ha detto (cito direttamente dalla pagina web della Libreria Editrice Vaticana che contiene anche le note relative alla risposta della folla):


[…] Ma che bella è questa missione di dare luce al mondo! È una missione che noi abbiamo. È bella! È anche molto bello conservare la luce che abbiamo ricevuto da Gesù, custodirla, conservarla. Il cristiano dovrebbe essere una persona luminosa, che porta luce, che sempre dà luce! Una luce che non è sua, ma è il regalo di Dio, è il regalo di Gesù. E noi portiamo questa luce. Se il cristiano spegne questa luce, la sua vita non ha senso: è un cristiano di nome soltanto, che non porta la luce, una vita senza senso. Ma io vorrei domandarvi adesso, come volete vivere voi? Come una lampada accesa o come una lampada spenta? Accesa o spenta? Come volete vivere? [la gente risponde: Accesa!] Lampada accesa! È proprio Dio che ci dà questa luce e noi la diamo agli altri. Lampada accesa! Questa è la vocazione cristiana.


Quella della «lampada accesa» è in effetti una immagine di grande intensità che, prima ancora dei Vangeli, affonda le sue radici nella tradizione dell’Antico Testamento. Il papa, in queste sue parole, ne ha tratto spunto per ricordare ai cristiani la natura e la bellezza della loro missione – finalmente qualcuno che parla della “bellezza” del comportamento umano! –, che è quella di essere accesi e dare la luce.
Come non concordare, in particolare da una prospettiva laica, con questa impostazione che mette da parte secoli di proselitismo e di propaganda e privilegia la funzione della testimonianza e – mi sembra –, anche se non detto esplicitamente, del servizio? Tuttavia a chi ha letto la Commedia dantesca, a chi, come me, attraverso il poema dantesco, ha ricostruito certi aspetti fondanti della cultura medievale resta l’impressione che Papa Francesco avrebbe potuto dire qualcosa di più.
Infatti la cultura medievale e Dante, che ne ha dato la più alta e vigorosa sintesi, manifestano nella lettura della metafora della “lampada accesa” una straordinaria apertura della quale oggi riusciamo ad apprezzare tutta quella forza vitale che forse non sempre è stata vista nella sua pienezza.
Gli intellettuali cristiani del medioevo avevano un problema che noi non abbiamo: come evitare di perdere tutta la ricchezza e bellezza della cultura pagana pur riconoscendo l’insufficienza oggettiva del suo essere pre-cristiana? La soluzione fu trovata in quello che poi Dante, nel Convivio, definì come sovrasenso «allegorico». Attribuire ai testi (a tutti i testi, ma in particolare a quelli dei poeti pagani) un sovrasenso allegorico consentiva di vedervi «una veritade ascosa sotto bella menzogna». Attraverso questa interpretazione, il senso «litterale» dei testi provenienti dall’antichità pagana, che nella visione cristiana era di per sé falso, poteva però essere visto come custodia di una verità; e nulla impediva ai lettori cristiani di cercare legittimamente tale verità negli scrittori pagani.
Questa impostazione, che ha fatto degli intellettuali cristiani medievali – da Agostino a Dante – i più grandi traghettatori della cultura e della letteratura pagana per i secoli successivi e per noi (che saremo loro eternamente grati), è certamente, come ho scritto poco fa, di straordinaria apertura. Ma, bisogna aggiungere, Dante va oltre e compie un passo in avanti decisivo. Il luogo, famosissimo, nel quale egli compie questo passo è il XXII canto del Purgatorio.
Riassumo brevemente la situazione. Nel canto XX Dante e Virgilio, mentre si trovano nella quinta cornice del Purgatorio dove ci si pente del peccato di avarizia, avvertono un terremoto e sentono un grido corale di tutte le anime: “Gloria in excelsis Deo”. Nel canto XXI appare improvvisamente loro un’ombra che li saluta con «Dio vi dea pace» e li accompagna. Quest’anima spiega ai due la ragione di ciò a cui hanno assistito: il Purgatorio è «libero […] da ogni alterazione» che riguardi la terra e tutti i fenomeni che vi accadono sono dovuti alla volontà di Dio; in particolare, la terra vi trema non per ragioni fisiche, ma «quando alcuna anima monda / sentesi, sì che surga o che si mova / per salir su; e tal grido seconda»: il terremoto avviene cioè quando una delle anime che stanno espiando i loro peccati si sente purificata (monda) ed è quindi libera di salire al Cielo; e il “Gloria” accompagna la raggiunta liberazione dell’anima. L’ombra che è apparsa a Dante e Virgilio e che ha chiarito loro ciò che è effettivamente accaduto è proprio l’anima che si è appena liberata. Ma chi è? Virgilio glielo chiede. Senza sapere, a sua volta, chi sia colui che gli pone la domanda, l’ombra rivela di essere il poeta Stazio, dichiara che l’Eneide è stata per lui una potente fonte di ispirazione e conclude: «per esser vivuto di là quando / visse Virgilio, assentirei un sole / più che non deggio al mio uscir di bando». Insomma, Stazio afferma che sarebbe stato disposto ad accettare un anno in più di pene del Purgatorio, se avesse potuto conoscere «di là», sulla terra, Virgilio. Una bestemmia mentre sta per ascendere al Paradiso? No.

Perché quella espressione di Stazio non debba essere considerata una bestemmia lo capiamo nel XXII canto. Qui Virgilio, interpretando anche la curiosità di Dante, chiede infatti a Stazio quando e in che modo era divenuto cristiano e ne riceve una risposta tanto inaspettata quanto importante per capire ciò di cui sto parlando: la posizione degli intellettuali cristiani del medioevo nei confronti del paganesimo. Vale la pena leggere i versi bellissimi con i quali Stazio risponde a Virgilio (Purgatorio, XXII, 64-73):


 […] Tu prima m’invïasti
verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
e prima appresso Dio m’alluminasti.
 Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e se non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte,
 quando dicesti: «Secol si rinnova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenïe discende da ciel nova».
 Per te poeta fui, per te cristiano:
[…].


Virgilio – questo il senso delle parole di Stazio – era stato colui che lo aveva spinto alla poesia (‘a bere nella grotte del Parnaso’, sede delle Muse) e anche colui che lo aveva scortato con la sua luce verso Dio. Virgilio aveva fatto con Stazio come il servo che di notte con la lampada fa luce a chi lo segue, ma non a se stesso. Infatti, pur non essendo cristiano, Virgilio aveva ispirato il cristianesimo a Stazio con i versi della sua IV Egloga nei quali aveva cantato l’avvento di un’età nuova e di una nuova progenie divina («Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit Virgo, redeunt Saturnia regna; / ima nova progenies caelo demittitur alto»). Stazio, per merito di Virgilio, era diventato poeta; ma era anche diventato cristiano. Di conseguenza Stazio deve proprio a lui il fatto di non essere stato dannato e perciò, quando si è detto disposto a un anno in più di Purgatorio se gli fosse stato possibile vivere nello stesso periodo di chi gli ha ispirato la conversione e lo ha spinto a battezzarsi non ha pronunciato una bestemmia, ma ha affermato un principio di eterna gratitudine.

Qui non importa il fatto che la notizia della conversione di Stazio sia storicamente molto poco attendibile. Anzi proprio questo rende ancora più importante il fatto che Dante abbia creato dal nulla questo bellissimo episodio. Se lo ha creato è stato proprio perché aveva bisogno di testimoniare il suo passo in avanti. Non soltanto Dante riconosce a Virgilio la presenza, nella sua Egloga, di una verità (anzi di una profezia, come si credeva nel medioevo) nascosta nei suoi versi inevitabilmente, dolorosamente, falsi; gli riconosce il fatto che quella verità potesse essere “lampada accesa”. Virgilio, pur non cristiano (e perciò destinato eternamente al Limbo), ha portato la “lampada accesa”; l’ha portata dietro di sé, tanto da non poterne vedere egli stesso la luce, ma l’ha portata!
Si tratta di una affermazione di importanza straordinaria. Dante ha reinterpretato la cultura medievale con una lucidità e una ampiezza di orizzonte che gli hanno consentito di trarne delle conseguenze di eccezionale modernità: tra le altre – ecco il grande passo in avanti del quale ho parlato -, quella di riconoscere, lui cristiano, agli altri, ai non cristiani, la possibilità di essere “lampada accesa”. Quando Dante sarà alle soglie del Paradiso terrestre, sulla cima della montagna del Purgatorio, una figura non ancora ben spiegata dalla critica, Matelda, lo accoglierà confermando le parole di Stazio: «Quelli ch’anticamente poetaro / l’età de l’oro e suo stato felice, / forse in Parnaso esto loco sognaro» (Purgatorio, XXVIII, 139-141). Il Parnaso, cioè l’ispirazione poetica, ha consentito ai poeti pagani di superare se stessi come in un sogno, ma, soprattutto, ha consentito loro di essere “lampade accese” pur non essendo, non potendo essere, cristiani. Le verità che essi avevano espresso, pur essendo di necessità nascoste «sotto bella menzogna», erano comunque in grado di fare luce, anzi, di fare quella particolare luce che scorta alla fede in Dio.

Avanti, papa Francesco, è il momento di riprendere Dante e di accettare, anzi di affermare, che un non cristiano può essere anche lui “lampada accesa” e fare luce a cristiani e non cristiani, a credenti e non credenti, insomma a tutti quelli che hanno la volontà di vederla, quella luce: una volontà che rappresenta anch’essa una “bella missione”, perché, se c’è bisogno nel mondo di chi fa luce, c’è anche bisogno di chi è disposto a riceverla.

I nostri figli, le loro strade
e un augurio per tutti

Due intellettuali di grido (e di sinistra) hanno pubblicato di recente un libro ciascuno per dichiarare la propria insoddisfazione nel rapporto con i loro figli, ragazzi che hanno preso strade diverse, soprattutto nel modo di pensare, da quelle ipotizzate e desiderate dai rispettivi illustri padri. Io ho pubblicato l’anno scorso (nel mio più recente libro di versi, Viaggio all’osteria della terra) una poesia scritta nel 2008 – e che trascrivo qui sotto – nella quale esprimo tutta la mia gioia per il fatto che i miei figli, Giacomo e Mario, hanno preso, in piena autonomia di pensiero e di cuore, le loro strade. Per quanto mi riguarda, oltre a essere stato loro vicino il più possibile, con il più grande amore possibile, ho cercato proprio di far crescere, insieme al loro fisico e alla loro cultura, il senso del loro “essere sé”, del loro “fare da sé”.

In questa crescita sono stato, semplicemente, accanto ai miei figli. Fino a quando non ho constatato che si allontanavano da me. E allora, proprio allora, ho capito che avevo svolto bene il mio compito. Sono ormai uomini fra i trenta e i quarant’anni, hanno preso le loro strade e sono strade nuove. Ecco, il bello è che sono strade nuove; e sono io che mi trovo a doverle percorrere per capire dove i miei figli stanno andando. D’altro canto, come sanno bene tutti i miei amici, a me piace molto viaggiare. I miei figli sono il mio viaggio più bello, sono la mia città futura: e questa città io sono ben felice che siano loro a costruirla.
Ora, da qualche mese, questo viaggio e questa città si sono riempiti di una nuova, grande felicità portata dall’arrivo di una nipotina, Lucrezia, figlia di Giacomo e Loredana, una bambina meravigliosa che, sono certo, comincerà a poco a poco a costruire la sua strada, ancora una nuova strada, ancora una città futura: una città talmente futura che io non riuscirò di certo a vederla tutta. Ma, che importa? È così bello sapere che ci sarà!

L’augurio che faccio a tutti per le prossime feste, per il prossimo anno e per tutti gli anni è che ciascuno abbia la possibilità di costruire la sua strada e che questa strada sia nuova e diversa da tutte le altre. E, a chi ha figli o figlie, auguro di vedere ancora nuove e diverse strade: le strade intraprese dai loro ragazzi e ragazze. Perché il bello dei nostri figli è che siano sé e non che siano come noi li vorremmo.
Buone feste e Buon 2014 a tutti.

Michele Tortorici, Due ragazzi e le stelle (Da Viaggio all’osteria della terra, Manni, 2012)


Ragionando, penso spesso che i miei figli – quei due
ragazzi alti che mi hanno
accompagnato allo stadio l’altra sera e mi hanno offerto
il biglietto e il panino e una serata noi tre così fisicamente
vicini, stretti
a sentire l’uno le voci urlate e i cori
degli altri due – sì penso dentro di me che oggi
quei due ragazzi posso
amarli non perché nel loro
sangue hanno il mio, non solo per la vita
data e presa e per quella passata insieme e per gli anni
che abbiamo trascorso a penetrare il mondo e a inseguire,
giocando un poco e un poco no, il senso
di ciò che vi accadeva – parole poche: lo sanno
tutti che io dico solo
poche parole per amore.

Ragionando, penso spesso che li amo oggi perché sono
quello che sono. Certo che vedo anche un poco me in ognuno
di loro, ma vedo che sono sé
principalmente. E mi appago ad amarli così dopo che tanto
tempo il filo forte
che me li legava era d’esser loro padre.

Ragionando, penso adesso che non basterebbe
la vita data e presa e quella passata insieme a farmeli
amare oggi. Oggi li amo invece
come sono. E li vedo
come si vedono – penso – nascere le stelle, stelle
che sono là dove sono da un tempo immenso e che la luce
ci hanno mandato per un immenso spazio e solo
alla fine di quel lungo andare all’improvviso
ci appaiono. È successo così che, fino
a un certo punto, io questa luce così forte in loro
non la vedevo; era come se – lontanissima – dovesse ancora
giungere, guardavo – è naturale –
quella tenue tanto
da vicino da me riflessa, e quelle stelle non potevano
in tutto a me apparire. Ecco, così li amo questi due
ragazzi oggi, amo il dono che hanno, quello che ora
– dopo il lungo cammino della luce – posso
vedere, non già solo
quello che di mio in loro riconosco. Amo
le storie nuove che hanno incominciato.