La mia poesia Porto di giorni
alle Assises de la traduction littéraire

Si svolgono da oggi a domenica ad Arles, le trentesime Assises de la traduction littéraire, il più importante appuntamento riservato a coloro che traducono da tutte le lingue del mondo in francese. Il tema di quest’anno è “Traduire la mer”, e un posto d’onore viene riservato al romanzo di Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, del quale Monique Baccelli e Antonio Werli stanno portando a compimento l’immane opera di traduzione per le Éditions Attila.

Ma il fatto che mi tocca direttamente – e che mi emoziona nel profondo per l’esplicito e autorevole riconoscimento nei confronti del mio lavoro – è che la produzione poetica italiana è rappresentata in queste Assises dalla poesia Porto di giorni, tratta dalla mia più recente raccolta di versi, Viaggio all’osteria della terra. In questa raccolta Porto di giorni dà il titolo alla intera prima sezione dedicata al mio rapporto con il mare e con l’isola di Favignana, che è centrale nella mia poesia. Mi fa perciò particolare piacere che proprio questo testo sia stato scelto nell’anno nel quale le Assises hanno come tema “Traduire la mer”.
Sarà Danièle Robert, bravissima e appassionata traduttrice insignita l’anno scorso del prestigioso Prix Nelly Sachs, a condurre il 10 novembre prossimo l’atelier sulla versione in francese, ancora inedita, di questa poesia.
Inutile aggiungere che terrò informati i venticinque lettori della uscita degli atti relativi a questo atelier.

Al pubblico francese, che ha dimostrato in questi anni uno straordinario amore per i miei versi, e a tutti i miei lettori italiani dedico la pubblicazione in questo blog di Porto di giorni.

Michele Tortorici, Porto di giorni (da Viaggio all’osteria della terra, Manni, 2012)


Tornano le barche tutti i giorni al porto; e tornano
al porto i giorni con la loro
pazienza, con la cocciutaggine
che è necessaria perché non manchino mai coi loro soli
alti e bassi e poi le loro lune
cangianti. Tornano le barche e tornano
i giorni sui moli e si diffonde
l’attesa come l’eco
fa quando risuona sulle pareti alte che riparano,
dal lato di scirocco, il porto.

Porto dove le barche antiche hanno
nomi di santi usciti certe volte
da un calendario anch’esso antico, un calendario
che altrove sarà stato
dimenticato ed è rimasto qui perché si è invischiato nei detriti
salati che si ammassano e poi seguono il vento come i ragazzini
fanno con il pallone per le strade
che di là dalla Plaia alla rinfusa
si allontanano.

Porto di giorni visti mille volte, di ritorni
pervicaci tanto che li credi immutabili, di cicli ordinati, o pensati
così, comunque
rassicuranti.

Porto di giorni che fortunosamente,
uno dopo l’altro, cadono tra questi moli dove
anche loro rimangono invischiati nei detriti
che il mare accumula e che poi si disfano
in un marciume liquido: nessuno
sa quando – e se – altre correnti
riusciranno a sospingerli via di nuovo al largo.

Porto di giorni che, anche quando la folla per mercanteggiare
il pesce, d’agosto, si assiepa fin sul bordo
della banchina, ostinatamente ritornano, ai vocii
indifferenti, indifferenti a tutti i calpestii. E allo stesso modo
che respira, al tendersi
e allentarsi delle corde,
ogni barca ormeggiata, i giorni pure, col moto delle onde,
respirano qui in un alternarsi
di slanci e tregue, premure e svogliatezze. E l’eco
risuona sulle pareti alte che riparano,
dal lato di scirocco, il porto.


16 ottobre 1943. La deportazione

Ricorre oggi il settantesimo anniversario della deportazione degli ebrei romani dal ghetto. Il momento nel quale cade questo anniversario è di vergogna, segnato dal tentativo di trasformare in “cerimonia” – e, attraverso di essa, quasi in una legittimazione post mortem – il pur necessario e pietoso rito di inumazione dovuto (ma privatamente e in questo caso, direi, segretamente) finanche a un colpevole di crimini contro l’umanità.
Non voglio, tuttavia, parlare di questo. Ci ritornerò, forse, con la lentezza che rivendico nelle righe di “Benvenuto” di questa pagina web.
Lo scopo di questo mio post è quello di dedicare alla memoria dei più di mille ebrei romani deportati e uccisi nei lager (ne tornarono vivi soltanto quindici, dei 1081 prelevati dal ghetto) una poesia che ho scritto dopo avere ascoltato, il 13 maggio del 2007 a Torino, la presentazione di un bel libro scritto da Alessandra Chiappano come vademecum per quegli insegnanti – coraggiosi, ma talvolta emotivamente disarmati – che portano i loro allievi in visita di meditazione ai campi di concentramento. Il libro, I lager nazisti. Guida storico didattica (Giuntina, 2007), fu presentato al Salone del Libro da un gruppo di valenti storici. Tra questi, Bruno Maida aprì il proprio intervento con la frase: «I libri sono come telescopi». Ebbene, quella frase suscitò in me, lettore quasi compulsivo, un’emozione straordinaria: l’idea dei libri come telescopi che servono a farci vedere attraverso il tempo e, in particolare dei libri capaci di trattenere la memoria di quella grande tragedia del Novecento che fu l’Olocausto, mi entrò dentro fino a fare quasi esplodere nella mia testa i versi di questa poesia, Hai ragione, Bruno, che i libri. Versi che hanno poi ricevuto un notevole consenso e che sono stati tra i più richiesti nelle molte letture che ho fatto della raccolta nella quale sono stati pubblicati, La mente irretita.

Michele Tortorici, Hai ragione, Bruno, che i libri (da La mente irretita, Manni, 2008)


A Bruno, ad Alessandra
e agli ebrei romani deportati settanta anni fa

Hai ragione, Bruno, che i libri
sono come telescopi e quello che ci fanno
vedere vicino è la nostra
storia che scapperebbe via così lontano
così presto e il passato sarebbe passato
come in un volo e non potremmo scorgere
orme prima di noi. Telescopi: resteremo
nel nostro rifugio di vecchi nani saliti
su spalle di giganti a guardare
la terra di cui non sappiamo
se ci sorregga più o se non sia
soltanto una forza
senza nessuna materia a tenerci
soffermati in questo angolo dove
fortuitamente nell’universo si scioglie
la vita. Telescopi: ci siamo issati su queste
spalle pietrificate per guardare
più indietro e più avanti, abbiamo voluto
essere signori – quassù – del pensiero
e della nostra sapienza, ma anche
qui ci sono arrivati
addosso tutti i sentori che la terra impudica-
mente si lascia sfuggire e siamo impregnati
del fumo dolciastro dei forni – di quei
forni – e nessuno può perdonare
oramai nessun altro. Telescopi: prima
di guardare ci sarà chiesto – credo –
di non fuggire per l’orrore, di restare quassù,
di non scendere per poi dovere scrutare
la terra dalla terra e passo
dopo passo scoprire la nostra
improvvisa cecità; prima di guardare saremo
– credo – confortati, saremo tenuti
per mano, accompagnati a un altare alto,
ancora più alto di queste spalle che sono
i nostri piedistalli, per fare
sacrificio di ciò che fino a ieri avevamo
pensato come il male; prima di guardare
i nostri saperi saranno consumati e noi
saremo più vecchi e più nuovi. Hai ragione,
Bruno, che i libri
sono come telescopi e guardarci
dentro è passare la vita ogni giorno
con una sapienza
nuova e sopra i giganti che ci sostengono
essere un poco più alti anche noi.


La strage

«Vecchio Nereo custode di visioni / e di memorie che disvela un divino / capriccio all’improvviso per non so quale / inattesa cedevolezza» ho scritto di me stesso parecchi anni fa in una poesia, La vita dell’isola, pubblicata poi ne La mente irretita (2008).
In questa figura mitologica generata, secondo Esiodo, da Ponto (il Mare) unitosi a Gaia (la Terra), mi sono sempre riconosciuto a causa della doppia natura, terrestre e acquatica, propria di chi, come me, è originario di un’isola. Oggi, 3 ottobre 2013, giorno della strage di miei fratelli e sorelle, di miei figli e figlie migranti, morti in quello stesso mare mediterraneo nel quale io cerco e vedo la vita ogni volta che me ne faccio avvolgere, oggi questo mio sentirmi Nereo mi porta accanto a tutti loro. Percepisco chiaramente su di me, per il semplice fatto di essermi immerso in quello stesso mare, il peso della loro morte. E, mentre maledico tutti coloro che in queste ore usano i corpi di questi miei fratelli e sorelle, figli e figlie, come strumenti di polemica politica, prego, da laico, che il mare possa offrire quell’abbraccio confortevole che il mondo e gli uomini hanno loro negato.

A tutti loro dedico la mia poesia La vita dell’isola.


Quante ne avrò raccolte di conchiglie
madreperlacee su fondali astuti amici d’ombre
e di alghe che cullano le onde in una danza
lieve, ma trascina a volte la risacca
come un coro di supplici protese
con le braccia di qua di là, a un dio
o a un vincitore. Cosmogonia nascosta
vagabonda per grovigli di cammini
d’acqua dove si accende il cuore del piacere
e del dolore che ritornano uno
dopo l’altro nella vita dell’isola sul fondo
del mare sottocosta – e dirupi d’arenaria
specchiano sé in una chiarezza che t’inganna,
in un biancore che si adombra
di tutto ciò che vive e di incavi
e di sale. Neppure te ne accorgi
di tutta la vita che laggiù si mischia se ti affacci
dalla scogliera: vedi solo
una insensata svogliatezza della luce
svagata pellegrina dei fondali
e che ne sai delle conchiglie che da un lato
la riflettono e dall’altro
sono scabre e le nasconde tutto ciò che intorno
a esse si affatica? Ogni tanto
le cerco ancora, ma spesso sono loro
a venirmi incontro con la malizia di un brillio
a riconoscermi per quello che non ho
dimenticato dell’isola che vive lì sul fondo
del mare – e forse la memoria me la porto
sul corpo tatuata con segni che non vedo –,
animale marino dei ritorni
annuali, vecchio nereo custode di visioni
e di memorie che disvela un divino
capriccio all’improvviso per non so quale
inattesa cedevolezza. La vita dell’isola
si avvicenda alla morte lì sul fondo
del mare sottocosta – così come accade
dappertutto – e il polverio di ciò che vive
e ciò che muore mi avvolge come
un’avventura senza luoghi, senza punti
di partenza o di arrivo, in un tempo
incostante, perdigiorno
e anche un poco stanco di inseguire
nel mio viaggio il mio fine.


I miei Versi inutili
per ricordare i quaranta anni del golpe in Cile

Quarant’anni fa dal giornale radio delle sette del mattino del 12 settembre – se non ricordo male – ebbi le prime notizie del golpe militare in Cile. Notizie, almeno le prime, frammentarie e incerte: di sicuro c’era soltanto la presa del palazzo presidenziale e la morte di Salvador Allende. Subito fissai dentro di me quelle notizie con l’immagine della notte. Naturalmente non sapevo quello che sarebbe successo nei giorni, nelle settimane e negli anni successivi. Non potevo prevedere la ferocia di un regime dittatoriale disumano che sarebbe passato alla storia per la pratica sistematica della tortura, per gli oltre tremila assassini accertati degli oppositori (ma il numero”reale” degli assassinati è probabilmente più di dieci volte superiore) e per i milleduecento desaparecidos. Ma, per una di quelle intuizioni che a volte fanno capire i fatti meglio di tante analisi, vidi la storia che entrava in una notte e mi resi conto di non riuscire a vedere il giorno che sarebbe seguito.
È vero che il Cile era dall’altra parte del mondo. Ma mi era vicino – come era vicino a tanti ragazzi italiani della sinistra di quegli anni – per la sua poesia, quella di Pablo Neruda, per la sua musica, quella degli Inti-Illimani o di Victor Jara, per la bellezza – sì: la bellezza – del percorso di democrazia e giustizia sociale, quello intrapreso da Salvador Allende, che negli ultimi tre anni avevamo seguito passo passo con ammirazione e trepidazione.

Da quel momento di quarant’anni fa, ogni volta che ho avuto la percezione del venir meno di una lucida prospettiva di speranza in qualsiasi parte del mondo, compresa quella dove mi trovo a vivere, ho avvertito in quella percezione la stessa immagine della notte. E, ogni volta, non ho potuto non ripensare a quel golpe come a qualcosa, oltre che di storicamente accaduto purtroppo, anche di simbolico, di tragicamente evocativo
È per questo che, quando circa quattro anni fa ho scritto le tre poesie della piccola raccolta Versi inutili e altre inutilità, versi sul mio modo di vedere la storia dei nostri ultimi venti anni, mi sono quasi sentito trascinare da quel simbolo e non ho potuto fare a meno di evocare, a proposito della notte che l’Italia sta attraversando, anche quell’altra notte tanto più tragica e profonda.
E dunque, il mio modo di ricordare che sono trascorsi quaranta anni dal golpe cileno consiste nell’offrire alla vostra lettura la prima delle tre poesie della raccolta, quella nella quale, appunto, ricordo quel golpe attraverso la figura di Victor Jara (nella foto). Per i più giovani ricordo che Victor Jara (1932-1973), cantautore cileno, membro del Partito comunista, fu arrestato l’11 settembre, subito dopo il colpo di stato di Pinochet, e rinchiuso nell’Estadio Chile trasformato, come è noto, in campo di concentramento. Per evitare che potesse suonare o scrivere, gli furono spezzate le mani. Ma lui riuscì lo stesso a comporre i versi della canzone Estadio Chile, forse dicendoli e facendoli imparare ai compagni di prigionia. Questi versi uscirono poi da quello stadio e oggi sono una delle poche cose che restano di quei giorni immediatamente successivi al golpe, di quella notte della democrazia e dell’umanità. Oggi l’Estadio Chile, dove il cantautore fu assassinato – forse – il 16 di settembre, si chiama Estadio “Victor Jara”.
Ho dedicato questa poesia a Giovanni Perrino, poeta e amico che ha scritto, tra gli altri, il bel libro Ellis Island (Interlinea, 2007). Una delle poesie di questo libro comincia con il verso «Bisogna pure ricominciare, per sciatteria o viltà». Anche se io ho plagiato le sue parole, anche se ne ho in parte tradito il senso e se ho persino chiamato «stramaledetto» (ma solo perché ce l’avevo continuamente in testa) il suo verso, Giovanni non mi ha tolto l’amicizia.

Michele Tortorici, Versi inutili (da Versi inutili e altre inutilità, Edicit, 2010)


A Giovanni

Bisogna pure ricominciare per sciatteria o viltà, bisogna
– ti dico io – ricominciare ogni giorno che capita e sapere
che andare avanti può dipendere dalle quotidiane
pigrizie (o eccitazioni, fa lo stesso)
che ci spingono, comunque sia, a vivere.

Ricominciare
ogni giorno che capita. È un modo di dire. Dalla notte
dove siamo
non ce la facciamo a uscire e il buio
che s’intorbida dilata
le nostre pupille e noi aspettiamo la luce, ma quando
sarà tornata potremmo
non vedere ancora. Sarebbe bella! Uno scherzo
della nostra natura: le pupille
sono fatte così. Ma tutta
questa storia di sciatteria e viltà, questo stramaledetto verso
che mi è rimasto in testa ed è cocciuto
come un moscone ammaliato
dal non-senso del vetro dove sbatte, l’una
e l’altro non sono uno scherzo – è evidente.

Ricominciare
ogni giorno (e sia pure per modo di dire) che capita: quello che posso
fare è scrivere – non aspettarti chissà che cosa – versi
come sempre, come è
nella loro essenza,
inutili, anzi, date le circostanze, lo capisci, i più inutili
che mi vengono in mente. Non so scrivere inni d’altro canto
(sacri o profani), ammesso che gli inni (in una
qualsiasi delle due specie) siano utili, e neanche
so a che cosa inneggiare: mi viene in mente la luce perché vorrei proprio
ora vederci più chiaro.

Ma in questa notte dilata il buio che s’intorbida le nostre
pupille tanto che non sappiamo se quando
sarà tornata la luce vedremo davvero di più o se saremo
ciechi ancora.

E poi c’è un’altra cosa: non so neppure gridare, non saprei
nemmeno
per strada strillare i miei versi per farli
ascoltare, anche solo per caso, a chi è lì che cammina.

Mi chiedo come faranno
i suonatori ambulanti a fare sentire
le loro canzoni sui tram, a farle sentire persino
nelle carrozze della metro.

E poi c’è un’altra cosa
ancora ed è
più importante: non so come sia potuto accadere che i versi
di una canzone siano stati
detti uno dopo l’altro in uno stadio
di prigionieri (non si poteva
scrivere lì) e insomma siano stati creati e fermati
in una memoria
comune così come echi continuamente
ripetuti e tutto questo sia stato fatto da chi
sapeva che nessuno
di quei versi gli sarebbe servito a niente per vivere, però
di quei versi ciascuno poteva
essergli compagno per morire. Ricordi Victor Jara, Estadio Chile? Non so
come sia potuto accadere, ma dev’essere
stato lì tutto un mischiarsi di versi e di sangue e di mani
spezzate e di morte e so per certo che i versi
detti e ridetti tra tutto
quello che accadeva erano la cosa più inutile, però è anche vero che sono
l’unica cosa che ora
ci è rimasta di quella notte – Estadio
Chile, Santiago dall’undici
al sedici di settembre.

Ed era una notte – lo so – diversa da questa. Ma ciò
non toglie che adesso
il buio dilata, torbido
com’è, le nostre pupille e non sappiamo se quando
sarà tornata la luce vedremo davvero di più o se saremo
ciechi ancora.

Io penso che, se qualcuno riuscisse
non a gridarle, piuttosto
a spargerle nell’aria le parole
di questi versi sarebbe
come se la loro inutilità non fosse un’astrazione, ma
un aerosol da spruzzare; ci sarebbe comunque l’effetto di non soffocare,
almeno io che le ho scritte, queste parole, tu
che le leggi, gli altri, se ci saranno, che le raccoglieranno
con il loro respiro per la strada.

E se questa notte è malata
e marcisce il suo buio, sarà meglio non irrorarsi
della frescura nemmeno, in ogni caso sarà meglio non credere
che la luce del giorno
arrivi per conto suo. Se la vogliamo, la luce,
toccherà a noi di trovarla, e sia pure con tutte le nostre
quotidiane pigrizie (o eccitazioni, fa lo stesso),
o forse proprio per quelle,
per quella incompiutezza che accompagna
la nostra umanità dentro a questa storia di sciatteria e viltà che ci è
venuta addosso e non è uno scherzo – è evidente.

Versi inutili. Però è anche vero che se
– meglio di niente – la loro inutilità non fosse un’astrazione, ma
un aerosol da spruzzare e riuscissimo a spargerli
davvero in un modo o in un altro nell’aria, potremmo non soffocare
di questo marcire del buio e fare catena di mani con chi c’è (almeno
io che li ho scritti, questi versi, tu
che li leggi, gli altri, se ci saranno, che li avranno raccolti
con il loro respiro per la strada) e riusciremmo a trovarla
noi la luce del giorno. Dopo
si tratterà di vederci di nuovo, se l’avremo trovata, la luce, e sia pure
con tutte le nostre
quotidiane pigrizie (o eccitazioni, fa lo stesso),
o forse proprio per quelle,
per quella incompiutezza che accompagna
la nostra umanità dentro a questa storia di sciatteria e viltà che ci è
venuta addosso e non è uno scherzo – è evidente.


Novembre 2009
Il volume Versi inutili e altre inutilità è stato pubblicato nel 2010 dall’editore Edicit di Foligno.

La negazione degli altri. Una spiegazione del populismo

Sfrecciare a cinquanta metri dalla costa

Qualche giorno fa sono andato a fare il bagno al Circeo, precisamente in quel tratto di scogliera vicino al faro che prende il nome di Punta rossa, credo, dal colore delle rocce. Chi mi conosce sa che “fare il bagno” per me significa nuotare, allontanarmi una bracciata dopo l’altra dal punto nel quale mi sono buttato in acqua e vedere quel punto allontanarsi sempre di più fino, magari, a scomparire dietro una punta. Da ragazzo mi allontanavo parecchio dalla costa; poi, con il passare degli anni, ho cominciato a gustare il nuoto più vicino a terra: ho fatto, come si dice, di necessità virtù. Mancanza di forze? Certo, come non riconoscere che la spinta delle braccia e delle gambe è diminuita parecchio a causa dell’età. Ma la decisione di non avventurarmi verso il largo dipende principalmente dal sempre maggior numero di motoscafi che sfrecciano appena qualche decina di metri più in là rispetto al mio pur prudente percorso natatorio.
È vero che ci sono norme precise, norme che, sul sito della Lega navale italiana, vengono riassunte in questo modo: «La navigazione costiera con le unità da diporto è disciplinata dal Capo del Compartimento. Le ordinanze stabiliscono i limiti entro i quali la navigazione a motore è vietata, generalmente nella fascia dei 300-500 metri dalla costa (o altre distanze come nelle zone adriatiche) tra le ore 08.30 e le 19.30 in cui, per ragioni di sicurezza dei bagnanti, si può navigare solo a remi. Attenzione: nella fascia costiera dei 1.000 metri la velocità delle unità non deve superare i 10 nodi».
Questo è vero, ma chiunque legge queste righe e frequenta zone di mare sa bene che nessuna di queste norme è rispettata e io posso affermare con assoluta sicurezza che i motoscafi che vedo sfrecciare a poche decine di metri dalla costa superano abbondantemente i 10 nodi. Posso anche aggiungere che, poiché molti di questi, in planata, finiscono per avere una prua molto alta, chi è al timone non può assolutamente vedere un eventuale bagnante che si trovi qualche decina di metri davanti a lui, e non vedrà nemmeno un piccolo natante gonfiabile sul quale qualcuno se ne stia in pace a prendere il sole o a pescare. Difatti, di incidenti causati dallo spregio di queste regole siamo costretti a fare ogni estate il tragico, più o meno lungo, elenco.
Ho parlato di Punta rossa al Circeo e potrei parlare allo stesso modo dell’isola dove vado tutti gli anni ad agosto e dove ho esperienza di chilometri di nuotate quotidiane (quindi di decine di ore trascorse in un mese lungo le coste a vederne di tutti i colori), così come potrei parlare senza sostanziali differenze di qualunque altro posto di mare tra quelli che ho frequentato negli ultimi venti o trenta anni.

La negazione degli altri e la base sociale del populismo:
una questione culturale

Ma che cosa c’entra tutto questo con il populismo di cui parlo nel titolo di questo mio intervento?
Ora ci arrivo.
Tutta questa folla di motoscafi che sfreccia a cinquanta metri dalla riva ha infatti molto a che vedere, secondo me, con una domanda che io mi pongo spesso: qual è la base sociale del populismo e, in particolare, di quella versione italiana del populismo che è, per ora, il berlusconismo? Ecco, io non sono un sociologo né un politico, ma scommetterei che la stragrande maggioranza degli “sfrecciatori” (e, naturalmente, dei loro consimili in tutti i settori della società) sono il nerbo di questa base sociale.
Non sono così superficiale né così fazioso da non sapere che lo zoccolo duro del partito di Berlusconi, comunque questo partito si chiami, comprende anche un normale “blocco conservatore”, quella parte della società che non vuole cambiare nulla di quello che la circonda e che esiste in tutti i paesi del mondo, a volte con una nobile volontà di difesa delle tradizioni, della certezza del diritto, del senso dello Stato. Ma, a parte il fatto che in Italia questa nobile volontà di difesa dell’esistente in quanto “buono” mi sembra almeno offuscata, ciò che non esiste negli altri paesi sviluppati è proprio quell’estesa platea di persone alle quali non interessa tanto conservare il bene (o il male) che c’è, quanto affermare il proprio esclusivo interesse, indipendentemente dalla sua legittimità, fino alla sostanziale negazione degli altri, fino alla estrema conseguenza, cioè, di pensare che gli altri non esistano o che, se esistono, non hanno rilevanza rispetto a quell’interesse.
Questo insieme di persone si sente più forte, e quindi sta meglio, se si riconosce in un modello, se è guidato da un capo che dell’interesse proprio e della negazione degli altri (della società nel suo complesso e – peggio – dello Stato, delle istituzioni) fa una sorta di religione, anzi, una sorta di impero religioso, il sacro moderno impero dell’affermazione di sé, dove l’imperatore consacra i suoi fedeli vassalli e questi lo difendono perché sono, appunto, in tutto e per tutto suoi, soprattutto nel condividerne tale negazione degli altri.
Questa è, ne sono convinto ogni volta che vedo un motoscafo sfrecciare poco lontano da dove nuoto, la base sociale del populismo italiano: quella base indefettibile che, sommata al “blocco conservatore”, dà al berlusconismo una percentuale di votanti in grado di farne un pilastro – non sempre maggioritario, ma comunque inamovibile – della politica italiana. Tuttavia, qui è il problema, questa compagnia di “Sfrecciatori & Co.”, non si sconfigge politicamente, ma culturalmente.
Né, lasciatemi fare questo non breve inciso, possono certo abbattere questa compagnia più o meno gravi sentenze giudiziarie. Da quanto ho detto finora si evince anzi chiaramente che è l’illegittimità dell’affermazione dell’interesse privato, che è la qualità di questo interesse di porsi in un luogo diverso dalla legge (la quale riguarda soltanto “gli altri”) a eccitare l’adorazione nei confronti del sacro moderno imperatore e ad aumentare, di conseguenza, i voti del suo partito. Il sacro moderno imperatore ci tiene ad apparire, più ancora che a essere, l’abitante privilegiato di quel luogo diverso dalla legge. Una condanna è il prezioso riconoscimento di questo suo status, tanto più se essa viene poi aggirata con leggi ad personam o viene sbeffeggiata – insieme a coloro che l’hanno emessa – con lo sventolio di bandiere che inneggiano alla libertà di stare in quel luogo o, addirittura, viene proposta come problema degli “altri” (della società nel suo complesso, dello Stato, delle istituzioni). Questo è il busillis del populismo italiano: la compagnia degli “Sfrecciatori & Co.” si riconosce in quello status, vuole quello status e abbandonerebbe un sacro moderno imperatore rispettoso della legge. Ammettiamo per ipotesi che questo sacro moderno imperatore, accusato di rapporti sessuali con una minorenne, ultrasettantenne, con i postumi di una grave operazione per cancro alla prostata, continuamente debilitato dalle medicine che lo gonfiano sotto le enormi giacche doppio petto, avesse presentato una perizia medica che lo dichiarava impotente. Chi avrebbe potuto non credergli? I magistrati, per quanto “comunisti” e pregiudizialmente colpevolisti, sarebbero stati in serie difficoltà. Egli avrebbe forse evitato una condanna. Ma chi, tra la compagnia degli “Sfrecciatori & Co.”, lo avrebbe più adorato? Tutti gli avrebbero voltato le spalle. Compatimento al posto dell’adorazione!
Chiuso l’inciso, arrivo alla conclusione. Io sono convinto che sia stata la decadenza della scuola e della cultura italiana negli ultimi decenni a creare intorno a questa compagnia, un’area di consenso. Quando ero ragazzo, se per caso un motoscafo provava a passare a tutta velocità vicino alla costa (capitava raramente, ma capitava anche allora), quasi tutti i presenti osservavano o pensavano: «Che cafone!». Ricordo di averne parlato con sorrisi di commiserazione, forse un quarto di secolo fa, con il ricchissimo proprietario di un cantiere navale di Trapani, che costruiva motoscafi per gli altri e, per sé, aveva costruito uno splendido gozzo di legno con una vela latina e lo usava per godersi adagio adagio le meravigliose acque delle isole Egadi. Oggi, coloro che guardano passare un motoscafo a tutta velocità vicino alla riva osservano o pensano quasi tutti: «Ammazza che barca!», con una punta di invidia per chi ci sta sopra. Ecco l’effetto di decenni di decadenza della scuola molto più che del dominio dei media da parte del sacro moderno imperatore.

Più cittadini in una scuola di qualità, meno “Sfrecciatori & Co.”: propongo al prossimo governo a guida progressista di riflettere sul perché le due quantità in questione sono inversamente proporzionali e, dopo averci riflettuto bene – e magari anche presto -, di incrementare di molto gli investimenti sull’istruzione e di pensare a norme che ne aumentino la qualità.

Tanto, di cafoni “sfrecciatori”, e di loro consimili in tutti i settori della società, ce ne saranno sempre abbastanza.

La lezione di Malala
che è bene non dimenticare

Il 12 luglio scorso nella sinistra italiana si discuteva ancora, per il terzo giorno consecutivo, se il Pd avesse fatto bene o male (o benino o maluccio o malissimo: l’ipotesi che avesse fatto benissimo non era stata presa in considerazione da nessuno) ad acconsentire alla sospensione di alcune ore dell’attività parlamentare. Questa sospensione era stata chiesta dai senatori del Pdl per una esigenza istituzionale effettivamente inderogabile: quella di poter piangere sulla annunciata prossima conclusione in Cassazione, il 30 luglio, di almeno uno dei procedimenti giudiziari che riguardano il loro leader. Nei giorni e nelle settimane precedenti si era discusso di argomenti altrettanto futili che è inutile elencare qui. Nei giorni successivi il Parlamento italiano si è impegnato in una inutile prova di forza sul “Decreto del fare” e intanto il Pd ha intensificato il suo inutilissimo (agli occhi degli italiani) dibattito sulle regole interne. Nel frattempo, mentre si moltiplicano parole – e atti – di razzismo a causa dei quali il mondo civile guarda con orrore al nostro Paese, il 30 luglio si sta avvicinando e tutti coloro che si occupano di politica, dentro questi confini nei quali agisce da troppo tempo una sorta di veleno dell’intelligenza, non pensano più ad altro e non discutono più di niente se non della ormai imminente conclusione in Cassazione, dopodomani, del famoso processo.

Lo stesso giorno 12 luglio dal quale ho preso le mosse, invece, nel Palazzo delle Nazioni Unite a New York, una ragazzina di sedici anni, Malala Yousafzai, si è rivolta ai leader mondiali chiamandoli «fratelli e sorelle» e ha parlato loro di cose che ritiene importanti e che probabilmente, fuori d’Italia, lo sono. Ha detto che non parlava per se stessa, ma «per tutti coloro la cui voce non può essere ascoltata» (cioè soprattutto le donne, i bambini e le bambine), e affermando l’importanza di essere al fianco di coloro che in tutto il mondo lottano per l’affermazione in particolare di alcuni diritti: quello di «vivere in pace», quello di «essere trattati con dignità», quello alla «uguaglianza di opportunità» e quello, che promuove e favorisce tutti i precedenti, di «venire educati». Poi ha continuato così:


Cari fratelli e sorelle, è il momento di prendere posizione.
Per questo oggi noi chiediamo ai leader del mondo di modificare le loro strategie politiche in favore della pace e della prosperità.
Noi chiediamo ai leader del mondo che tutti i processi di pace devono proteggere i diritti di donne e bambini. Un processo che va contro la dignità delle donne e contro i loro diritti è inaccettabile.
Noi chiediamo ai leader del mondo di assicurare una educazione libera e obbligatoria per ogni bambino in tutto il mondo.
Noi chiediamo a tutti i governi di combattere contro il terrorismo e la violenza, per proteggere i bambini dalla brutalità e dal male.
Noi chiediamo a tutte le nazioni sviluppate di sostenere l’espansione delle opportunità educative per le bambine nel mondo in via di sviluppo.
Noi chiediamo a tutte le comunità di essere tolleranti – di rifiutare i pregiudizi basati sull’aspetto, le convinzioni, l’appartenenza a gruppi, la religione o il genere. Chiediamo di assicurare libertà e uguaglianza per le donne in modo che esse possano fiorire. Noi non possiamo prosperare tutti se la metà di noi è respinta indietro.
Noi chiediamo alle nostre sorelle in tutto il mondo di essere coraggiose – di afferrare la forza che è dentro di loro e di realizzare tutte le loro potenzialità.
[…]
Un bambino, un insegnante, una penna e un libro – ha concluso Malala – possono cambiare il mondo.


In Italia, dopo mezza giornata di attenzione, dopo qualche colonna di colore sui giornali di carta e qualche decina di secondi di notizia e commento nei giornali televisivi, del discorso di Malala Yousafzai alle Nazioni Unite nessuno parla più. Eh già, che c’importa? Non parlava mica di noi!

Certo, il discorso della giovane pakistana che i talebani hanno cercato di ridurre al silenzio a causa di un suo blog sulla libertà delle donne sembra rivolto a Paesi diversi dal nostro.
Ma ne siamo così sicuri noi che viviamo in un Paese dove ogni due giorni una donna viene ammazzata specificamente per intolleranza di genere e dove, a mezzo secolo dall’introduzione della scuola media obbligatoria (ma a sette anni soltanto dalla estensione dell’obbligo fino ai sedici anni!) un terzo circa dei ragazzi abbandona la scuola appunto tra la fine della scuola media e i primi due anni delle superiori?
Ne siamo così sicuri noi che viviamo in un Paese nel quale l’investimento in istruzione è inferiore, in percentuale sul Pil, a quello di quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea? A proposito, provate a indovinare quali sono quelli che vengono dopo.
Ne siamo così sicuri noi che viviamo in un Paese nel quale oltre la metà dei cittadini, indipendentemente quanto ha frequentato o non frequentato la scuola, non è in grado di comprendere un semplice periodo se esso contiene più di una informazione (e questo fatto ci colloca all’ultimo posto nelle statistiche di “Literacy”, cioè di “alfabetizzazione” della popolazione tra i Paesi dell’Ocse)?
Ne siamo così sicuri noi che viviamo in un Paese nel quale si trovano sotto la soglia della povertà in particolare le famiglie che hanno più di tre figli?
Ne siamo così sicuri noi che viviamo in un Paese nel quale è lecito ricondurre alla generale disastrosa mancanza di istruzione gran parte dei problemi di intolleranza (e violenza) di genere e di razzismo che fanno inorridire i nostri vicini europei?
Io non ne sono affatto sicuro e, se fossi stato un politico italiano, in particolare se fossi stato un politico della sinistra italiana, in questi giorni avrei studiato attentamente il discorso di Malala Yousafzai, perché nelle sue parole c’è un profumo di futuro che non sento aleggiare da tempo in nessuna delle aree di questa tanto frantumata sinistra. Ma c’è di più: se fossi stato un leader del governo delle “larghe intese” ne avrei fatto oggetto di discussione con gli alleati e, se fossi stato il Ministro dell’Istruzione, mi sarei incatenato a Palazzo Chigi fino a che questa discussione non fosse avvenuta. E invece nessuno ha fatto – né pensato – nulla a proposito del discorso di Malala. Forse è sfuggito. Ma … ecco la pagina web dove si può leggere integralmente. Pensate che domani questo discorso sarà sulla bocca di tutti i nostri politici?

Buon compleanno, City Lights!

Sessanta anni fa, il 23 giugno del 1953, Lawrence Ferlinghetti e il suo amico Peter Martin aprivano, al numero 261 di Columbus Avenue a San Francisco, il “City Lights Bookstore”. Dettero alla libreria il nome di una rivista cinematografica che Martin pubblicava in quel periodo con esplicito riferimento al titolo del celeberrimo film di Chaplin (1931). In poco tempo il “City Lights Bookstore” sarebbe diventato il mitico rifugio degli scrittori della Beat Generation e una delle sedi più vitali della sinistra americana.
Favorirono, paradossalmente, la sua fama e la sua funzione culturale e politica le vicende giudiziarie che seguirono la pubblicazione, come libreria editrice, nel 1956 del poemetto Howl [Urlo] di Allen Ginsberg, vicende per le quali quel negozio di libri semisconosciuto vicino all’Oceano Pacifico assunse ben presto, anche agli occhi degli intellettuali dell’East Coast, il valore di simbolo della libertà di parola e di stampa.
Al tempo stesso il “City Lights Bookstore” rappresentò, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta (ma ancora oggi non ha rinunciato a questa sua caratteristica) un vero e proprio terminale della poesia europea sulla costa occidentale degli Stati Uniti. Infine, si può dire che dal “City Lights Bookstore” Ferlinghetti e gli altri poeti della Beat Generation sono stati tra i primi, alla metà del XX secolo, a restituire il suono alla poesia attraverso quelli che da allora si sono chiamati in tutto il mondo i readings, le letture ad alta voce. Erano almeno centocinquant’anni, infatti, che il testo poetico veniva fruito, come se fosse prosa, sulla pagina stampata e che non se ne sentiva più, di conseguenza, il suono che ne aveva costituito, sin dalle origini – e non può non esserne, oggi e sempre – l’elemento fondante.
Ferlinghetti si era ispirato, per il suo bookstore, a un altro mitico luogo d’incontro, la libreria “Shakespeare and Company” aperta nel 1951 da George Whitman al numero 37 di rue de la Bûcherie a Parigi (ne ho parlato in questo altro intervento), libreria che, a sua volta, era il punto di riferimento della cultura americana in Europa e costituiva un vero e proprio centro d’attrazione in quegli anni per gli stessi poeti della Beat Generation.
Per la verità la libreria di Whitman, quando Ferlighetti l’aveva conosciuta, per i rapporti con il suo fondatore e con i poeti che l’avevano direttamente frequentata, si chiamava ancora “Mistral”, ma aveva ereditato le abitudini della vecchia libreria con quel nome, aperta già nel 1920 a Parigi da Sylvia Beach e chiusa dagli occupanti nazisti nel 1941, abitudini che consistevano nell’ospitare sistematicamente tutti gli scrittori provenienti dagli Stati Uniti e, in particolare, quelli che Gertrude Stein e Ernest Hemingway chiamavano con l’unico nome collettivo di “Lost Generation” [Generazione perduta]. Soltanto in seguito, nel 1964, dopo la morte di Sylvia Beach, la libreria “Mistral” avrebbe preso in eredità, proprio in omaggio alla memoria della scomparsa, il nome di “Shakespeare and Company” con il quale è ancora attiva.

Ho già accennato che, come una sorta di specchio lontano della “Shakespeare and Company”, il “City Lights Bookstore” ha fatto da punto di diffusione per l’America della poesia europea. Per quanto riguarda in particolare questa sua attività, quello che più interessa noi italiani è la predilezione assoluta di “City Lights” e dei suoi frequentatori per Pier Paolo Pasolini da loro considerato, al di là della sua poliedrica attività di prosatore e di cineasta, uno dei massimi poeti europei e mondiali del ‘900 e del quale Ferlinghetti ha tradotto nel corso degli anni alcune poesie delle prime raccolte, poi pubblicate nel 1986, insieme ad altre tradotte da Francesca Valente, con il titolo Roman Poems (volume edito per l’appunto nella collana “City Lights Pocket Poets” della City Lights Publishers).

Insomma, un filo molto forte lega la mia passione di scrittore e di lettore di versi (passione debitrice, in entrambi i casi, sia nei confronti della Beat Generation sia nei confronti di Pasolini, come dovrebbe sapere chi ha letto le mie poesie e chi segue il mio blog) a questo lontanissimo negozio di libri che, purtroppo, non ho mai visitato di persona, ma del quale seguo, attraverso il sito, le attività e le pubblicazioni. Per questo, oltre che per il mio amore verso tutti i negozi di libri, auguro oggi, 23 giugno 2013, Buon compleanno, City Lights!

Rathaus Schöneberg

Nel 50° anniversario del discorso di J.F. Kennedy dal Municipio di Berlino Ovest

Il Municipio di Berlino Ovest, nel quartiere di Schöneberg, fu teatro, il 19 giugno del 1963, del famoso discorso nel quale J.F. Kennedy dichiarava, tra l’altro, «Ich bin ein Berliner» e chiamava gli europei a un nuovo modo di sentire la libertà, nella prospettiva di una fine della guerra fredda.

Oggi quello stesso palazzo ospita di nuovo una sede amministrativa, quella del settimo distretto della capitale tedesca, ma la suggestione che esso ispira è dovuta certamente più alla sua storia, testimoniata da una targa di bronzo, che al suo presente.
Due anni fa, durante un mio soggiorno a Berlino, sono andato a visitare Rathaus Schöneberg. Era giugno: un sabato di sole, con il cielo straordinariamente limpido.
La poesia che segue, Sabato a Rathaus Schöneberg, ora inserita in una sorta di dittico, Sabato e domenica, comprendente anche Domenica a Dresda, fa parte della mia raccolta più recente, Viaggio all’osteria della terra.

Michele TortoriciSabato a Rathaus Schöneberg da Viaggio all’osteria della terra, Manni, 2012).


Sarà perché è sabato mattina e l’importanza
del mercato delle pulci non è da sottovalutare, sarà per tutto
questo sole di oggi e per il cielo
di un blu così profondo che i berlinesi sono,
in molti, a testa in su,
meravigliati: insomma qualcosa sarà a far dimenticare adesso, qui,
il palazzo e, sul palazzo – das Rathaus Schöneberg, intendo – la targa
di bronzo con l’effigie
del Presidente e quella sua frase, «Ich bin ein Berliner» che dovrebbe
dire qualcosa a chi passa di qua.

O forse non dice più niente. Non posso negarlo: quarantotto
anni fa, di tanti
che oggi sono nella piazza, non doveva
esserci nessuno. Troppo giovani adesso, oppure erano allora
troppo lontani, dato che questo, è evidentemente un mercatino
per immigrati e nella storia
che racconta la targa loro
non ci sono stati. Ma chi ci è stato? Mi domando
se non rimanga, questa storia, solo nella testa
di qualche kennediano irremovibile,
granitico vecchio liberal di sinistra con in mente: l’Europa
come un fiore
della pace. “Wir sind alle Berliner”, Presidente. Così
la penso io. In questa piazza,
levate le bancarelle, già domani, qualcuno
si avvicinerà
alla targa di bronzo o perché ricorda (qualcuno
ci sarà pur stato in quella storia), o perché
– sia caso o volontà – troverà qualche cosa
nuova da conoscere. La tenacia
del bronzo non è da sottovalutare.


La «mala Pasqua» per l’Italia del disonore

La novella di Verga Cavalleria rusticana (qui il testo completo) è una storia piena di disonore; è la storia di un quadruplice tradimento.
Turiddu, uno di quelli che vorrebbe «fare il bravo» («bravo» nel senso manzoniano del termine») ma non ne ha il coraggio, tornato dal servizio militare, scopre che la sua vecchia fidanzata, Lola, sta per sposare il carrettiere Alfio. Piuttosto che affrontare il rivale, per farle dispetto – ecco il primo tradimento – si mette a corteggiare un’altra ragazza, Santa, fino a farla innamorare.
Nel frattempo Lola, a sua volta ingelosita, benché abbia effettivamente sposato Alfio, cerca – ed ecco il secondo tradimento – di riprendersi Turiddu.
E quest’ultimo – ecco il terzo tradimento -, dimenticata Santa, cede alla rinnovata seduzione di Lola.
Sarà infine Santa a far precipitare gli eventi con un quarto tradimento: avverte infatti Alfio della relazione di Lola e Turiddu e causa il duello rusticano durante il quale, nel giorno di Pasqua, Turiddu, infine, viene ucciso senza poter «profferire nemmeno: “Ah, mamma mia!”», come scrive, in conclusione della novella, il Verga.
Soltanto nella riduzione del testo verghiano a libretto dell’opera di Mascagni (riduzione di G. Targioni Tozzetti e G. Menasci: qui in una pagina dell’archivio della Stanford University), compare quella che è diventata poi una delle frasi più famose dell’intera storia: la maledizione «A te la mala Pasqua» lanciata da Santa a Turiddu.
In tutti e due i testi ciascuno dei personaggi agisce in nome del disonore: pensa a sé e al piccolo cerchio del proprio sentimento e, in nome di questo, è disposto a tradire o, come Alfio, a servirsi di chi tradisce e a essere sleale pur di vincere il duello. Un concentrato di disonore che non lascia scampo.

Anche questa nostra Pasqua è piena di disonore.
Un ministro degli esteri del governo in carica che manca alla parola data in sede internazionale (anche se poi è costretto a ripensarci, ma intanto si guadagna l’ammirazione incondizionata della destra più svergognata del mondo); il “capo” del secondo partito italiano, il Movimento 5S, che si lava le mani da tutto e aspetta sulla riva del fiume di vedere passare il cadavere del paese che odia (il suo!), trascinato dalla corrente; un ex presidente del consiglio accusato da un reo confesso e da altri testimoni di aver comprato i voti per far cadere il governo guidato dal suo avversario politico.
Queste sono alcune delle ferite più recenti che segnano il volto dell’Italia del disonore. Sarebbe troppo lungo enumerarle tutte. Ma va almeno segnalata, tra le altre ferite, la non sempre taciuta vicinanza con posizioni razziste e antisemite di esponenti di Pdl, Lega e M5S: una vicinanza dovuta (e non sai quale delle due ragioni sia la peggiore) alla ricerca di qualche voto in più o a sincera convinzione.

Verrebbe da dire: se questa è l’Italia che piace agli italiani, che se la tengano.
Ma io non la penso così. Penso che gli italiani, che pure sono confusi e – perché non riconoscerlo? – attratti da promesse populiste e da messaggi di rigenerazione palingenetica, possano ancora tornare a ragionare sul bene del paese: se non hanno in testa anche loro (qualcuno ce ne sarà, ma non tutti!) una qualche forma di tradimento, se non odiano il loro stesso paese fino a voler cadere con esso per la gioia di chi aspetta sulla riva del fiume, se non vogliono servirsene per scamparla dalle loro malefatte.
Penso che gli italiani abbiano bisogno di un semplice e chiaro messaggio di verità e di speranza: poche cose da fare – da poter fare sul serio – per il «bene comune» (una volta si diceva così, non è vero?).
Non sono un politico. Ho in testa tre grandi obiettivi: sapere, energia, lavoro (non ultimo obiettivo, ma necessaria conseguenza dell’intervento sugli altri due). Naturalmente, altri più esperti di me avranno in testa altri campi di azione e di decisione. Se è così, lo dicano. Lo dicano presto. Al Parlamento o agli elettori; meglio ancora all’uno – se ve ne sarà la possibilità – e agli altri. L’Italia aspetta: l’Italia dei milioni di cittadini che, con onore, tutti i giorni fanno il loro dovere.

È in nome di questa Italia di cittadini onorati che ai mestieranti del disonore io dico «A voi la mala Pasqua».

Agenda digitale: ventiquattro ore
raccontate al governo che verrà

In periodo pre-elettorale tutti trovano più facile fare proclami – alcuni si avventurano persino in proclami di palingenesi – piuttosto che parlare di problemi e, magari, delle possibili soluzioni.
Tuttavia, siccome i problemi ci sono, io voglio parlarvi di uno di questi. E, per farlo, vi racconto ventiquattro ore di ordinaria assenza di cultura digitale. Naturalmente, dal mio piccolo osservatorio di uomo comune, intendo parlare della cultura digitale (e delle relative infrastrutture) nella vita di tutti i giorni, non del digitale sbandierato come un’ideologia e usato per dirette in streaming senza interlocuzione.
Quanto ci costa, nella vita quotidiana, l’assenza di cultura digitale?

Due piccole avvertenze preliminari.
La prima: non farò nomi perché non voglio mettere alla gogna nessuno; le persone che hanno avuto una parte in queste ventiquattro ore sono state con me di una gentilezza squisita e sono convinto che non abbiano responsabilità personali.
La seconda: non sono un “fissato” dei media digitali (per esempio, scrivo spesso a mano, leggo molti più libri cartacei che e-book); ma uso molto i media digitali sia perché mi consentono di organizzare – e trasportare – meglio le informazioni e le conoscenze che mi servono, sia perché mi aiutano (forse dovrei dire: potrebbero aiutarmi) a semplificare molti aspetti della vita pratica.

Ecco dunque le mie ventiquattro ore.
Sono andato tempo fa a ***  per tenere una lezione in un seminario di formazione per docenti.

In albergo, un quattro stelle, la sera prima della lezione.
Chiedo per telefono alla reception come collegarmi alla rete wi-fi. Nonostante il recente pronunciamento del Garante della privacy che prevede il collegamento libero nei locali pubblici, non trovo nessuna libertà (e nessuna privacy): mi dicono che devo usare un userid e una password ed entrambi mi vengono – gentilmente, ma ben poco riservatamente – dettati per telefono. Tutto facile con il computer. Un po’ meno con lo smartphone: infatti userid e password servono per accedere con un browser al portale dell’albergo e, cominciando da qui – e solo da qui – si può successivamente navigare. Dunque è necessario l’uso di un browser e non si possono usare app che richiedano direttamente il collegamento wi-fi. Il quale ultimo è, per altro, di una lentezza esasperante.

A scuola, per la lezione. La scuola che ospita il seminario si può definire tecnologicamente avanzata, con laboratori ben forniti e, a quanto posso constatare, molto usati (probabilmente anche ben usati). Tengo regolarmente la mia lezione e, successivamente, vado in segreteria per la documentazione delle spese di viaggio. Chiedo un indirizzo email per poter mandare le ricevute dei biglietti ferroviari. No, l’impiegato della segreteria mi dice che ci vogliono gli originali di carta. Originali che naturalmente non ho, perché ho fatto i biglietti on line e le mie “ricevute” non sono altro che file pdf. Tiro fuori la mia chiavetta usb, dove ho provvidenzialmente salvato i file in questione e l’impiegato, inserita la mia chiavetta nel suo computer, stampa le ricevute. Subito dopo mi consegna dei moduli di carta che devo riempire a mano con i miei dati e mette in una cartellina un bel malloppo di fogli che contengono dati che verranno poi copiati in un file che a sua volta verrà stampato e così via per l’eternità, o quasi.

In treno al ritorno. Non ho parlato dell’andata semplicemente perché, nella tratta per ***, nessuno, in oltre due ore di viaggio e con due cambi, mi ha controllato i biglietti, cioè i famosi (o famigerati) file pdf che avevo per comodità e per sicurezza trasferito, oltre che sulla chiavetta usb, anche sullo smartphone.
Questa volta il controllo c’è. Mostro il file sul display dello smartphone. Il controllore mi guarda desolato spiegandomi che, per viaggiare sui treni regionali, i biglietti devono essere stampati su carta. È incredibile, ma è vero. Una avvertenza che non avevo notato recita quanto segue: «Il Biglietto Elettronico regionale è emesso già convalidato. Stampa l’allegato pdf alla mail di conferma che costituisce biglietto. Il biglietto è nominativo e associato a nome e cognome inseriti all’atto della registrazione online o nei dati del viaggiatore, pertanto a bordo tali dati saranno soggetti a riscontro con documento d’identità valido». Il controllore è comprensivo: con un dito che benevolmente minaccia, mi indica che per questa volta lascia correre e perdona la mia birichinata. Da parte mia, io riconosco apertamente il mio errore e dentro di me rifletto: Trenitalia (che, non si sa bene perché, mi dà del “tu”) mi aveva effettivamente intimato: «Stampa l’allegato pdf alla mail di conferma». Io avrei scritto, per gentilezza e chiarezza: «La preghiamo di stampare il pdf che trova allegato alla mail di conferma» e magari lo avrei scritto grande in alto sulla pagina. Ma questo è il meno. Il fatto è che i biglietti dei treni regionali, quelli di carta che si comprano nelle biglietterie, non sono nominativi, mai e per nessuno (solo i “biglietti integrati a tempo lo sono). Pertanto chi acquista il biglietto on line (con risparmio di tempo, personale e carta per Trenitalia) viene fatto oggetto di un doppio sopruso: è costretto a stamparsi in proprio «l’allegato pdf» che contiene anche la pubblicità a colori di «servizi accessori post-vedita» come noleggio auto e così via; se poi decide di non viaggiare lui, non può, come tutti gli altri viaggiatori, cedere il biglietto al parente o all’amico, perché chi si è permesso una tale audacia digitale deve essere in qualche modo vessato ed essere così spinto a non permettersela più.

Ecco. Il racconto finisce qui. Moltiplicate adesso le mie ventiquattro ore per i milioni di persone che ogni giorno si spostano per lavoro, devono fare biglietti, documentare i loro spostamenti (soprattutto nella Pubblica Amministrazione) e, secondo le pubblicità che affollano il web, possono felicemente lavorare nel “cloud”, nella “nuvola” dove i dati sono (o dovrebbero essere) sempre disponibili. Calcolate, moltiplicando ancora per circa 280 giorni lavorativi all’anno, lo spreco astronomico provocato ogni anno in Italia da questo aspetto della assenza di cultura digitale. Aggiungete gli altri sprechi astronomici dovuti ai tanti altri aspetti che questa assenza assume. E vedrete se non è vero che si può fare una spending review in Italia senza colpire necessariamente pensionati e malati.