Un saggio critico sulla mia poesia
Un amour partagé di Danièle Robert

Danièle Robert, scrittrice, italianista e traduttrice pluripremiata (da ultimo ha vinto il Premio di traduzione di poesia “Nelly Sachs 2012”), ha realizzato qualche anno fa la traduzione in francese del mio libro La mente irretita (La pensée prise au piège, Vagabonde, 2010) e ha contribuito in maniera decisiva alla ampia diffusione dei miei versi in Francia.

Ora torna a occuparsi della mia poesia con un breve ma intenso saggio critico, Un amour partagé, pubblicato sul sito Altritaliani.net (qui la pagina del “Chi siamo“) e contenente il testo di due poesie, Leggere parole (da La mente irretita, in italiano) e Rue Lepic (da Viaggio all’osteria della terra, nella traduzione francese, ovviamente sua).
Nel saggio Danièle Robert affronta la questione di ciò che lei chiama un «échange amoureux entre les éléments de la nature et les mots que leur contemplation suscite» e trova con straordinaria sensibilità critica – e, bisogna aggiungere, poetica – che lo stesso «échange amoureux» riguarda in ugual modo e con uguale intensità l’isola (l’isola per antonomasia dei miei versi, Favignana, e, per estensione ,il mare e i mari), gli alberi e le piante, e le città con le loro pietre e le loro vie.

Da tempo Danièle Robert sostiene che la traduzione è uno dei modi per cogliere il senso più riposto del verso e il suo saggio su Altritaliani.net è la dimostrazione migliore di quanto l’amore per la parola possa portare chi traduce a scendere più di ogni altro – più dello stesso autore, mi verrebbe da dire – fino negli abissi più profondi del testo poetico.
Grazie, Danièle.

L’avvertimento di Primo Levi:
Lettura della poesia Attesa

Per il giorno della memoria 2013

Come è noto, Primo Levi non riuscì a tornare a casa subito dopo la liberazione da Auschwitz. È bene sapere che il giorno della memoria ricorda proprio l’apertura dei cancelli di Auschwitz, a opera dell’Armata rossa, il 27 gennaio 1945. Dopo una vera e propria odissea, che poi raccontò ne La tregua (1963), Levi arrivò a Torino il 18 ottobre del 1945. Poco tempo dopo, nel gennaio del 1946, cominciò a lavorare in una fabbrica di vernici, poi in un’altra, e nel settembre dell’anno successivo, dopo un breve fidanzamento, sposò Lucia Morpurgo, la «compagna» invocata nel quarto verso della poesia Attesa, che vi propongo di leggere qui di seguito.
La sua vita sembrava quindi essere rientrata nel binario di una esistenza piuttosto comune, un lavoro, una famiglia. Tuttavia Primo Levi non nascondeva il suo bisogno di testimoniare, il bisogno di non essere affatto un uomo comune, ma colui che racconta ciò che ha visto e a cui nessuno può credere, il bisogno di essere colui che dice l’indicibile. In quegli stessi anni andava infatti scrivendo Se questo è un uomo, pubblicato nel 1947 dalla piccola casa editrice Torinese Da Silva, ma, in un primo tempo, senza grande risonanza. E, fin dai primi giorni del ritorno a casa, aveva cominciato a scrivere poche, meditate, intense poesie. Tra queste, con la data del 2 gennaio 1949, scrisse Attesa.

Uno degli assilli più tormentosi che angustiò Primo Levi lungo tutto il corso della sua esistenza riguardava il possibile ritorno di ciò che egli aveva testimoniato proprio perché non tornasse. Coloro che avevano compiuto lo sterminio erano, loro sì, uomini comuni, portati a essere belve certamente dalle loro individuali debolezze e viltà, ma anche da una serie di circostanze più generali, di correità sociali, di parole d’ordine condivise in un delirio di comunicazione di massa. Erano circostanze che non attenuavano, secondo Levi, le colpe individuali, ma ne chiarivano l’orizzonte e ne costituivano lo scenario. Oltre che alle debolezze dei singoli, bisognava – e bisogna – dunque opporsi con tutti gli strumenti offerti dalla cultura, dal senso critico e dalla consapevolezza storica, proprio a quella degenerazione della società. Questa la lezione di Primo Levi e la sua risposta all’assillo del possibile ritorno dell’orrore.
Attesa è espressione di questo assillo. Ma, per noi, a un quarto di secolo dalla scomparsa di questo straordinario uomo e grandissimo scrittore, rimane anche un avvertimento.
Negli anni appena trascorsi, una delle colpe più gravi delle quali si è macchiata la destra berlusconiana è stata quella di aver dato legittimità, con posti in parlamento, con alleanze negli enti locali e nelle regioni, con poltrone di sottogoverno e – persino peggio – con una ammiccante accondiscendenza culturale, alle espressioni più retrive e volgari del neofascismo e del neonazismo.
Né si può tacere di un partito con posizioni razziste principale alleato di governo. Certo, in tutta Europa si è verificato negli anni più recenti un tentativo di queste ideologie di cavalcare frustrazioni e scontenti popolari, di offrire facili ricette di violenza, di trovare capri espiatori in primo luogo negli ebrei, ma anche negli immigrati e in tutti coloro che vengono additati come diversi. Ma fuori d’Italia (con l’unica, preoccupante eccezione dell’Ungheria), i vari partiti di destra hanno tenuto sempre queste frange estreme fuori da ogni possibile alleanza, magari a costo di non vincere le elezioni o di non raggiungere la maggioranza per governare. Solo in Italia forze che si autodefiniscono “moderate” (e, fino all’altro ieri, anche coloro che oggi si autodefiniscono “centristi”) hanno avuto una totale spudorata mancanza di responsabilità e hanno così portato l’intero paese ad abbassare la guardia di fronte ai fenomeni di antisemitismo e di razzismo che, difatti, hanno assunto proporzioni inusitate.
Attesa ci coinvolge con il suo terribile ritmo di marcia, sottolineato dalle anafore e dalla forza degli accenti interni dei versi. Ci coinvolge, ci addita la possibilità del ritorno di un orrore già «noto» e costituisce oggi per questo, a ben sessantaquattro anni da quando è stata scritta (quasi la mia intera vita!), un avvertimento forte e ancora attuale, da non dimenticare. Nel giorno della memoria e in tutti gli altri giorni.

Primo Levi, Attesa (Da Ad ora incerta, Garzanti, 1984)


Questo è tempo di lampi senza tuono,
Questo è tempo di voci non intese,
Di sonni inquieti e di vigilie vane.
Compagna, non dimenticare i giorni
Dei lunghi facili silenzi,
Delle notturne amiche strade,
Delle meditazioni serene,
Prima che cadano le foglie,
Prima che il cielo si richiuda,
Prima che nuovamente ci desti,
Noto, davanti alle porte,
Il percuotere di passi ferrati.

2 gennaio 1949


Vicino al faro … mezza tonnellata di catrame

Tra le mie poesie molte sono dedicate all’isola di Favignana, che si trova nell’arcipelago delle Egadi. È il luogo d’origine della mia famiglia e tutti gli anni, ad agosto, vi trascorro un mese. In quel mese la attraverso a piedi o in bicicletta svariate volte (l’isola è molto piccola), percorro a nuoto per chilometri il mare lungo le sue coste e non trascuro, nelle ore più fresche, un piccolo pezzo di terra che ospita ormai, grazie ai miei sforzi, una ombrosa e profumata macchia mediterranea. Nei miei libri di versi il nome di Favignana non compare: per me è «l’isola» per antonomasia. Per amarci, nessuno dei due ha bisogno di nominare l’altro.

Molti tratti di costa dell’isola sono veri gioielli. Tra questi, è particolarmente suggestivo un lungo tratto che si trova tra il faro di Punta Sottile e il faraglione e che guarda, come per un desiderio d’amore, l’isola di Marettimo, dietro alla quale d’estate tramonta il sole. Qui la scogliera è bassa e vasta e in alcune parti è coperta da una sabbia rosata costituita da infiniti minuscoli frammenti di conchiglie: una sabbia grossa e anche profumata perché questi frammenti, nel loro trasformarsi, hanno acquisito una certa porosità e riescono a trattenere l’odore del mare come le conchiglie più grandi fanno con il rumore dell’onda.

Una trentina di anni fa, forse più, la sabbia è stata in parte utilizzata come materiale di costruzione: un crimine. E il mare ha dovuto poi faticare non poco, aiutato da qualche tempesta di maestrale, per riparare ai danni di quel crimine e colmare nuovamente di preziosi granelli rosati quella costiera. Qualche giorno fa un crimine diverso, ma non meno grave, è stato commesso dal comandante di una petroliera (quale? per ora non è dato saperlo) che ha fatto svuotare i serbatoi proprio lì davanti e ha sversato in mare mezza tonnellata di catrame ora depositato sulle rocce e sulla sabbia.

Il risultato è quello che vedete in questa foto (di Maria Emanuela Ingoglia, da “La Repubblica” di Palermo del 14 gennaio). Le istituzioni – protezione civile e assessorato all’Ambiente del Comune – hanno provveduto a raccogliere una parte del catrame. Nei prossimi giorni gruppi di volontari cercheranno pazientemente di ripulire ancora meglio (ma ripulire del tutto sarà impossibile) quello splendido tratto di costa. A loro, per ringraziarli di quello che fanno per l’isola che amo – anzi, posso dire: che amiamo -, voglio dedicare i versi della mia poesia Vicino al faro, tratta dalla raccolta La mente irretita. Il «faro» del quale si parla nel titolo è infatti proprio quello di Punta Sottile e i «bassi scogli» di cui si parla nel testo sono quelli oggi coperti di catrame.

Michele Tortorici, Vicino al faro (da La mente irretita, Manni, 2008)


Non c’è giorno che il vento, anche solo
una brezza leggera, non penetri negli incavi di questi
muri fatti di pietre secche: labirinti
di nulla dove si confondono
sali di mare e di terra. Non riesci
a capire come l’aria, nell’immenso
cammino che compie sotto il cielo, possa
incidere ricami
così fini sulle schegge d’arenaria scabre con il suo
inanellare danze sull’isola arsa là dove
fatiche pazienti hanno posato – nessuno ormai
saprebbe dire in quale tempo – questi
muri fatti di pietre secche.

Vicino al faro si apre in bassi scogli la distesa
riva. Un’altra
isola a occidente segna appena
una pausa dello sguardo, ma al vento
sottrae soltanto una rada nascosta con poche
barche ignare. Al di là non sapresti se volere
cercare altre isole ancora o altri mari: altro da questi
muri fatti di pietre secche, rimasti – nessuno ormai
saprebbe dire da quanto tempo – a chiudere
ombre e a dare riparo a qualche piccolo rettile pronto
a guizzare via, ingannati
dal vento che li accarezza mentre li consuma; altro da te
come la provvisoria, ma nuova
– e profonda –, conoscenza che investe
qui l’animo con raffiche
ineguali e passa: intanto senti che trasforma
ciò che sei, ciò che pensi.

Vicino al faro la sera, mentre cala, ti depone
un velo di acqua salata sulla pelle, ti fa
animale marino, ti unisce
a ciò che poco prima per un attimo
ha attraversato la tua mente, mischia
te profondamente al libero
divenire di ogni cosa e ti dà senso.


Eginhart Ehlers e la sua famiglia

Ieri sera è scomparso a Toronto Eginhart Ehlers, vero patriarca delle nostre famiglie, quella di mia moglie Roberta e la mia.
Eginhart era la persona più anziana tra tutti i familiari della generazione precedente alla nostra. Ed è stato, soprattutto, colui che, al tempo stesso con forte autorevolezza e con tenera devozione, ha tenuto costantemente nelle sue mani i fili che hanno consentito a tutti i numerosi componenti di questa famiglia di sentirsi legati tra loro. È stato merito suo se cugini e affini di grado molto lontano, sparsi in varie parti del mondo e – se non sbaglio – in tutti i continenti, si sentono parte di un tutto, si mandano gli auguri via facebook o in qualsiasi altro modo, sanno della nascita di uno sconosciuto o di una sconosciuta bisnipote e, insomma, non soltanto comunicano tra loro, ma lo fanno con l’affetto di parenti anziché con il superficiale interesse di conoscenti.

La famiglia di Eginhart è uno straordinario insieme di persone di tutti i colori e di tutte le culture possibili: colori e culture che lui, il nostro amato patriarca, ha tenuto nel suo abbraccio per tutti gli ultimi anni della sua vita così fecondi di affetto e di relazioni. L’ultima riunione di questo bellissimo insieme di persone alla quale io abbia partecipato è stata quella per le nozze d’oro di Eginhart e di Irene, il 9 giugno del 2007, a Toronto (la foto è di quel giorno).
A questa occasione si riferisce una poesia, Ritratto di famiglia, che ho pubblicato nel mio libro più recente, Viaggio all’osteria della terra, con la dedica “Alla famiglia Ehlers, del cui ritratto anche Roberta e io facciamo parte”. Il giorno prima della ricorrenza, sotto una fitta ma calda pioggia estiva, siamo stati condotti tutti in uno studio fotografico dove ci hanno scattato le foto di circostanza così indispensabili in una festa che si svolga negli Stati Uniti o in Canada. E la bella atmosfera di quel giorno, che ci teneva lontani – fisicamente e spiritualmente – dalla lunga notte che l’Italia già allora stava attraversando, voglio ora ricordare con la pubblicazione qui di questa poesia: per Eginhart e per tutti noi che lo avremo sempre nel cuore.

Michele Tortorici, Ritratto di famiglia (da Viaggio all’osteria della terra, Manni, 2012)


Ritratto di famiglia dal fotografo
l’otto di giugno del duemila e sette. Studio Anka
– Bloor Street, Toronto, Ontario, Canada, America del Nord.

Fuori, la pioggia rigava − ricordate? − la vetrina con nastri
argentati quietamente
deposti, uno a fianco dell’altro, come per una festa di bambini; dentro,
la luce debole dei fari, i teli chiari, le pareti
opache avevano creato un giorno eterno, un giorno
strampalato, di una impossibile stagione senza picchi
di sole e senza ombre, se non pallide, quasi trasparenti.

Quel giorno − ricordate? – contraffatto
da un abile artificio era per noi
tuttavia confidente, era per noi come se fossimo d’accordo
già da prima con lui, come se fossimo d’accordo
che ci sarebbe, con quella sua volutamente
debole luce, entrato nell’anima e ci avrebbe
sciolto dalla premura, dalla sollecitudine.

Quel giorno è rimasto così giorno per sempre
anche quando, come doveva
venire, è venuta
la notte e si è distesa
prima nel cielo e poi sui nostri occhi. Ma era
giorno nell’anima, eravamo
senza premura, senza sollecitudine.

Ritratto di famiglia dal fotografo
l’otto di giugno del duemila e sette. Era così lontana
per quel giorno
dall’anima la notte. Studio Anka
– Bloor Street, Toronto, Ontario, Canada, America del Nord.


Una traduzione da Jane Hirshfield:
Siano benedette queste nozze

Dedico questa traduzione a mio figlio Mario e a Esra,
in occasione del loro matrimonio, che si celebra oggi

La poesia che dedico a Mario e a Esra è di Jane Hirshfield (1953), poetessa e scrittrice newyorchese piuttosto nota negli Stati Uniti ma poco in Italia. Il titolo è A Blessing for Wedding (qui l’originale): io l’ho tradotto con una piccola modifica nella quale si perde la dolce consonanza del titolo originale, ma si evita la orribile consonanza di “z” in una frase come Una benedizione per le nozze.

Rispetto a tanti altri componimenti per nozze dei quali la letteratura di tutto il mondo è piena (e quella italiana non fa eccezione, anzi presenta un capolavoro assoluto come Il gelsomino notturno di Giovanni Pascoli), mi sembra che questa di Jane Hirshfield sia particolarmente augurale. A tutta la vita, alla vita che scorre come ogni altro giorno, con le sue piante e con i suoi animali, con chi muore e con chi nasce, viene affidato il compito, in questo giorno particolare (la cui importanza è sottolineata dalla ossessiva figura retorica dell’anafora basata su «today») di benedire le nozze, il giuramento che attraverserà il tempo nelle parole e nel silenzio.
Questa benedizione viene data in modo sommesso e, al tempo stesso, con forza addirittura «feroce». Una straordinaria chiamata a raccolta di tutto ciò che ci circonda perché, con il benedirla, possegga la coppia che si forma in tutti i giorni che verranno.

Jane Hirshfield, A Blessing for Wedding
Traduzione di Michele Tortorici, Siano benedette queste nozze


Oggi che i frutti dei cachi sono maturi
Oggi che i volpacchiotti vengono fuori dalle loro tane nella neve
Oggi che dalle uova maculate si liberano gli scriccioli e cantano
Oggi che gli aceri fanno cadere le loro foglie rosse
Oggi che le finestre mantengono la loro promessa di aprirsi
Oggi che il fuoco mantiene la sua promessa di riscaldare
Oggi che qualcuno che voi amate è morto
o qualcuno che voi non avete mai incontrato è morto
Oggi che qualcuno che voi amate è nato
o qualcuno che voi non avete mai incontrato è nato
Oggi che la pioggia precipita fino all’impazienza delle radici aride
Oggi che la luce delle stelle si piega verso i tetti di chi ha fame ed è stanco
Oggi che qualcuno se ne sta dentro la sua ultima pena
Oggi che qualcuno entra nel calore del suo primo abbraccio
Oggi, lasciate che questa luce vi benedica
Con questi amici lasciate che vi benedica
Con la fragranza della neve e della lavanda lasciate che vi benedica
Lasciate che il giuramento di questo giorno si mantenga sfrenatamente e interamente
Attraverso le parole e attraverso il silenzio vi sorprenda entrando nelle vostre orecchie
Nel sonno e nella veglia si dispieghi entrando nei vostri occhi
Lasciate che la sua forza feroce e la sua tenerezza vi posseggano
Lasciate che la sua immensità si manifesti in tutti i vostri giorni.


Siano benedette queste nozze, cari ragazzi!

Parlo ancora di scuola.
Obama la mette al primo posto

Torno a parlare di scuola, trascinato – direi – dagli eventi

Ma comincio con una piccola premessa metodologica (soltanto tre punti in poche righe, non vi preoccupate) per non essere confuso con i qualunquisti.
1. Non soltanto sono lontanissimo dalla cosiddetta antipolitica, ma credo che la politica, come tutte le attività umane, possa essere buona o cattiva;
2. credo che solo la politica buona, e non l’antipolitica, possa produrre governi buoni;
3. credo ancora nella differenza tra destra e sinistra, ma non sono così settario da credere che solo nella parte nella quale mi riconosco, la sinistra, possa esserci politica buona: sono convinto tuttavia che la buona politica di sinistra abbia il compito di far camminare il mondo in avanti e di renderlo migliore (forward, ‘avanti’, è stata la parola d’ordine dei sostenitori di Obama), mentre la buona politica di destra ha il compito di conservare il mondo così com’è nel migliore dei modi (nessun partito di destra si offende se lo chiamano “conservatore”).

Detto questo, vengo al dunque e ricordo che qualche tempo fa ho scritto un intervento (L’istruzione al centro) nel quale lamentavo, da parte dei nostri politici di destra e di sinistra (da qui la necessità della premessa che avete appena letto), una sostanziale dimenticanza rispetto al problema della qualità dell’istruzione e a quello del suo valore strategico nelle politiche di sviluppo. Naturalmente, rimprovero questa dimenticanza più ai politici di sinistra, perché sono loro che dovrebbero ricordare la frase di Nelson Mandela secondo la quale «l’istruzione è l’arma più potente che si possa usare per cambiare il mondo».
È chiaro – questo il senso di quanto affermavo – che chi vuole conservare il mondo così com’è (non bello, siamo d’accordo?), anche quando governi rettamente, non è interessato a innalzare la qualità dell’istruzione: le masse istruite chiedono, inevitabilmente, più potere. Lo stesso vale per i populisti di ogni risma dei quali l’Italia sembra avere un ben fornito semenzaio: il populismo attecchisce sulla credulità e sulla cieca devozione al capo, e da un popolo istruito potrebbe essere relegato nel folklore politico degno dell’uno, due per cento al massimo; solo l’ignoranza diffusa può dare ai populisti maggioranze di governo o percentuali a due cifre. Ma chi vuole davvero migliorare il mondo deve sentire come suo obbligo primario quello di migliorare l’istruzione di tutti: proprio perché solo così tutti potranno partecipare consapevolmente al processo di cambiamento. Nel mio intervento precedente avevo citato due esempi importanti di attenzione alla scuola: il discorso di Ed Miliband al congresso del Labour Party a Manchester e l’annuncio dell’investimento in libri di testo open source da parte del governatore democratico della California, Jerry Brown.
Da allora è passato più di un mese e non mi sembra di avere avvertito, ad esempio nella contesa per le primarie del centrosinistra, la pronunzia della parola “scuola” in un contesto strategico da parte di nessuno dei contendenti. I miei interessi (la lettura, la scrittura) mi tengono lontano dai talk show e da tanti discorsi politici, ma non dalla lettura dei quotidiani. Se qualche politico italiano si fosse sbilanciato a parlare di scuola in termini strategici, penso che lo avrei notato. Tuttavia chiedo ai venticinque lettori di questo blog di segnalarmi qualcosa che mi fosse sfuggito. Non parlo, lo dicevo già nell’intervento che ho citato, di programmi scritti (per lo più male e sempre per addetti ai lavori), ma di prese di posizione pubbliche, di grande ascolto e di presa popolare. Parlo di qualcuno che ci metta la faccia nel dire che la scuola è al centro della sua concezione dello sviluppo, è al primo posto del suo programma politico.

Dimenticata nel dibattito politico italiano, la scuola continua tuttavia a collocarsi al centro delle prospettive politiche di rinnovamento fuori dai nostri confini. L’ultima presa di posizione di questo genere, che io sappia, viene niente meno che dal discorso di Barak Obama per la vittoria alle elezioni. Finiti i preliminari di rito, acclamato in diretta da decine di migliaia di persone e, attraverso gli schermi televisivi, da decine di milioni, una volta passato alla proposta politica per il futuro degli Stati Uniti, Obama ha detto: «[…] despite all our differences, most of us share certain hopes for America’s future. We want our kids to grow up in a country where they have access to the best schools and the best teachers» («Nonostante tutte le nostre differenze, la maggior parte di noi condivide alcune speranze per il futuro dell’America. Vogliamo che i nostri bambini crescano in un paese dove abbiano accesso alle scuole migliori e ai migliori insegnanti». La prima cosa che il neo presidente americano ha detto riguardo al futuro della sua azione politica – e al futuro del paese – ha riguardato la scuola.
So bene che non basta. Che Obama dovrà tradurre in proposte concrete questo slogan da discorso alle masse, che dovrà fare i conti con una Camera dei rappresentanti a maggioranza ancora repubblicana. So tutto questo, ma intanto l’ha detto.

E in Italia non lo dice nessuno. Né i “tecnici”, né la destra (ma dov’è la destra italiana oggi?), né la sinistra. Anzi, in Italia sono tutti rimasti talmente stupiti da questa priorità data da Obama alla scuola che un grande giornale progressista, “la Repubblica”, che pure ha pubblicato integralmente il discorso del Presidente, nel farne il riassunto in tre ‘titoletti’, ha messo la frase che io ho citato qui sopra non al primo posto, dove si trovava, ma all’ultimo, e l’ha trascritta sotto la parola chiave «La tecnologia»: controllate se non vi fidate: pag. 3 del giornale dell’8 novembre. In Italia non ci possono credere, non ci crede nessuno. E così, a destra e a sinistra, dentro i partiti e tra i partiti, con le primarie e senza le primarie, contendono (per non dire fanno cicaleccio) tutti su tutto, ma «nonostante tutte le loro differenze», su una cosa sono d’accordo: di scuola non si parla, o almeno non se ne parla come di un settore strategico per lo sviluppo.

E va bene, mi toccherà abbonarmi al “New York Times”.

16 ottobre 1943: quel bambino sono io

Quello che mi colpisce, nel ricordo che quest’anno si è fatto della deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma, è il fatto che sono state raccolte e pubblicate le foto dei bambini che furono portati via. Sono state pubblicate in un libro a esse dedicato, 16.10.1943 Li hanno portati via, a cura del Progetto “Storia e memoria” della Provincia di Roma, e si possono trovare, insieme ad altre foto di adulti, nel sito realizzato dal Cdec (Centro di documentazione ebraica contemporanea), I volti della memoria.
Intendo dire che queste foto mi colpiscono in modo assolutamente particolare, così come credo colpiscano tutti quelli che hanno la mia età, poco più, poco meno: diciamo i nati negli anni Quaranta del secolo scorso. Già perché nelle foto degli adulti di quegli anni, noi che adulti lo siamo stati dagli anni Sessanta o Settanta in poi, è difficile riconoscerci. O meglio, ci riconosciamo fratelli di quegli adulti per un giudizio che diamo sulle responsabilità individuali nella storia, per un impegno morale che abbiamo preso da quando è nata in noi la coscienza di essere persone umane in una società di altre persone umane, insomma, per un atto della volontà, per una scelta valoriale.

Ma coloro che hanno la mia età sono fratelli di quei bambini prima di ogni volontà e di ogni scelta. Anzi, neanche fratelli, sono loro, si confondono con loro.
La fotografia di Claudio Mieli, nato a Roma nel luglio del 1939 (e che quindi aveva quattro anni quando è stato deportato), è una mia fotografia. Quel bambino sono io. La ricordo perfettamente quella foto. I miei mi raccontavano, quando ero ormai più grande e ripassavamo insieme qualche album di famiglia, che per farmi quel boccolo in testa avevano dovuto tenermi fermo in tre. La parrucchiera, per così dire, era stata una zia di mia madre. I tre che si erano incaricati di tenermi fermo per ottenere quel risultato particolarmente gradito dai fotografi dell’epoca erano stati mio padre, mia madre e un’altra sua zia. Sembra comunque, sempre stando ai racconti dei miei, che, una volta fatto il boccolo, quando dopo mille capricci fui accompagnato dal fotografo, mi misi addirittura in posa con l’aria di dire: «Sono bello. Guardatemi!».
E la foto di Gianna di Segni, nata a Roma nell’agosto del 1941 (aveva quindi due anni quando fu deportata), è la foto di mia sorella Cati. Mia sorella, che ora non c’è più, aveva i capelli ricci e biondi, anzi, quando era piccola, fino ai dieci o dodici anni, li aveva biondissimi. Era una bambina dalle guance piene, come si vede dalla foto, e si usava molto allora, negli anni Quaranta appunto, fare scendere i boccoli d’oro sulle guance, così una cosa metteva in risalto l’altra, e così pure si usava fermare i capelli sulla testa con un fiocco. Anche questa foto la ricordo benissimo: era tra le prime negli album di famiglia. Dico album per dire. In realtà si trattava di scatole che avevano però un qualche ordine, deciso da mio padre.
Siamo noi in quelle foto. Chi potrebbe negarlo? Io sono di luglio. Mia sorella di agosto.
Il 16 ottobre di sessantanove anni fa, poiché non eravamo ancora nati, non potevamo essere al Portico d’Ottavia. Eppure, questo è il fatto, in quelle foto siamo noi.
E oggi, scomparsa mia sorella (che non poche domande, anzi non pochi tormenti, ha sempre avuto a proposito degli orrori di quegli anni), sono io a chiedermi, come ho imparato a fare da Primo Levi: perché è toccato a loro? che diritto abbiamo avuto noi di sopravvivere? Una domanda sbagliata, lo sapeva anche Primo Levi che però non riuscì mai a togliersela dalla testa. E io questa domanda la faccio non per una scelta della ragione e dell’etica, ma perché quel bambino sono io.

Al mare mi piace il silenzio

Come sanno tutti quelli che mi conoscono, non amo il mare urlato, e non dico soltanto i motoscafi a tutto gas, le moto d’acqua e altri disastri del genere. Dico anche le discussioni sulla spiaggia a voce spiegata, le radio con il volume alto che si sovrappongono le une alle altre e cose simili. Non mi dispiacciono, invece, i giochi dei bambini: considero quello che fanno i bambini – e persino i loro strilli – un “rumore non urlato”, se così si può dire. Dovunque lo facciano. Lasciate che i bimbi …
D’altro canto, al mare, più che altro, nuoto e lo faccio a lungo e fuori dei luoghi abitualmente frequentati dai bagnanti. Così mi godo il mare silenzioso. Un costume, un paio di occhialetti e via. Niente pinne, che considero una specie di “viagra del nuoto”, niente altro. Dopo le nuotate di prova dei primi giorni di vacanza, copro distanze di due, tre, quattro chilometri e qualche volta qualcosa di più. Avverto chi mi sta vicino che “vado”, mi butto in acqua e, quando torno, cerco semplicemente di prendere molto sole per riscaldarmi bene. Infatti non uso e non ho mai usato una muta. Qualche volta, se penso di superare i quattro chilometri, chiedo ad amici o parenti disponibili di affacciarsi a una certa ora su uno scoglio davanti al quale dovrei passare più o meno a metà percorso. Qualche precauzione non guasta mai.
Non pensavo proprio di percorrere distanze inusitate per un uomo normale della mia età, cioè di sessantacinque anni. Il fatto è che ho per il mare quell’amore unito a rispetto che solo le lunghe storie, i rapporti che durano una vita, sanno produrre. Amore e rispetto. Anche ora che ho capito che nuotare (con le pinne, poi!) per due chilometri e ottocento metri può determinare un grande evento comunicativo, per quanto mi riguarda, continuo a considerare quella distanza la normale media per le nuotate che faccio (sempre senza pinne, è il caso di ripeterlo) quando ho già un po’ di allenamento. Bisogna considerare che d’inverno non mi alleno mai in piscina, perché, se nell’acqua non c’è il sale, non ci provo nessun gusto.
Inutile dire che non mi metterei mai ad avvertire la stampa nazionale ed estera di una nuotata così, non mi farei (e non mi sono mai fatto) aspettare da un’ambulanza all’arrivo, non mi metterei in testa una cuffia con il nome dello sponsor a caratteri cubitali, rifiuterei fotografi e – come si diceva una volta – cineoperatori, non armerei, insomma, tutto l’ambaradam armato da un mio quasi coetaneo (più giovane di un anno o due) neanche se dovessi aprire, non dico una campagna elettorale in Sicilia, ma una campagna presidenziale negli Stati Uniti d’America.

Amore e rispetto. Sono contrario al consumismo del mare, figuriamoci se potrei mai far prostituire questo essere vivente che amo per procurarmi un po’ di pubblicità. Chissà, se lo facessi, potrei vendere qualche libro di più, visto che molte mie poesie sono dedicate a un’isola e al mare che la circonda. Il poeta che fa le traversate! Invece, sono semplicemente uno a cui piace farsi avvolgere dall’acqua salata, a cui piace attraversarla quell’acqua salata. E piace farlo in silenzio. Per questo venderò sempre poche centinaia di copie dei miei libri di versi, come tutti i miei colleghi poeti d’altro canto – nuotatori e no –, avrò sempre poche decine di lettori di questo blog (venticinque, mi sembra), e soprattutto, se mi presentassi alle elezioni, non mi voterebbe quasi nessuno: forse solo i parenti e gli amici stretti, gli stessi ai quali chiedo di aspettare con pazienza il mio passaggio davanti a uno scoglio. Loro sì. Pensate: nessuno di loro mi ha mai fotografato mentre nuoto! Appena un cenno di saluto per farmi capire da lontano che mi hanno visto.

In silenzio, naturalmente.

L’istruzione al centro: è possibile?

Nei giorni scorsi sono successe (fuori dai nostri confini, naturalmente) due cose che devono far riflettere noi italiani sul rapporto tra istruzione e strategie di sviluppo e sulla totale dimenticanza di questo rapporto che si nota nei programmi, nei documenti e nelle campagne di stampa dei partiti del nostro paese. Di tutti i partiti, nessuno escluso, purtroppo, come devo constatare con la personale sofferenza di vecchio uomo di scuola e di vecchio liberal di sinistra (ma esiste ancora questa categoria politica?).
Certo, il populismo dilagante qui da noi, che si dichiari di destra o che lo sia oggettivamente, rifugge dall’istruzione: ha bisogno di credulità e di ignoranza; spesso è pienamente espressione tanto dell’una quanto dell’altra. Anche l’ideologismo di certa sinistra estrema che aspetta la riduzione del paese in cenere per poter rendere credibile la sua “rivoluzione” (un po’ di keynesismo e molto indebitamento pubblico spacciati per egualitarismo sociale) non può avere l’istruzione al centro dei suoi obiettivi. Al massimo può farci entrare la scuola come magazzino ben fornito di posti di lavoro a buon mercato.
Ma in Italia ci sono soltanto populisti e finti rivoluzionari malati di ideologismo? Davvero non c’è altro? Davvero non c’è nessuno che sia in grado di fare proposte politiche? Permettetemi di non rispondere a questa domanda e di osservare soltanto che fuori d’Italia qualcuno c’è. Anzi, ce ne sono molti. Naturalmente, ognuno ha la sua prospettiva, si colloca a destra o a sinistra, pensa che siano i privilegi degli individui a muovere la storia e l’economia oppure ritiene che sia l’uguaglianza delle opportunità a mettere in gioco più risorse per l’una e per l’altra. Ma tutti, da una parte o dall’altra, considerano sempre l’istruzione uno dei cardini – non l’unico, certo – delle loro strategie e dei loro programmi.

Da quanto tempo non sentite un politico italiano che parli di istruzione, del sistema educativo, della crescita culturale dei giovani? Non dico un politico che ne parli in qualche convegno ad hoc (quindi a due o trecento spettatori) o in qualche saggio acuto e raffinato (quindi a un migliaio di lettori). Dico uno che ne parli nelle interviste tv da milioni di spettatori, nelle pagine web da milioni di contatti o magari negli interventi sui giornali da uno o due milioni di lettori e insomma in tutte quelle occasioni nelle quali un importante tema di riflessione diventa l’obiettivo fondante di una grande battaglia delle idee.
Fuori d’Italia, nell’arco di due giorni, due politici di rilievo hanno parlato di istruzione in questo secondo modo. Ed è stata la contemporaneità di questi eventi che mi ha sollecitato a scrivere qualcosa in proposito.
Ed Miliband, al recente congresso del Labour Party a Manchester, seguito massicciamente dalle tv di tutto il mondo con la considerevole eccezione dei canali pubblici e privati italiani, «has focused» (così hanno detto e scritto gli inglesi: cioè “ha messo a fuoco”, “ha concentrato”) tutto il suo intervento di rifondazione della strategia laburista su quel «forgotten 50%» (“il 50% dimenticato”) di ragazzi dei quali il sistema scolastico non deve soltanto cominciare a ricordarsi, ma deve anche valorizzare, secondo Miliband, le capacità e i talenti nei livelli dell’istruzione secondaria e post secondaria.
Il governatore democratico della California, Jerry Brown, più o meno nelle stesse ore, ha firmato un «bill» con il quale ha deliberato il sostegno – anche finanziario – alla creazione da parte delle università di almeno cinquanta libri di testo open source di varie discipline per i primi due anni (quelli della maggior selezione sociale) del livello post-secondario e ha lanciato la California Open Source Digital Library per ospitare subito queste opere e poi le altre che verranno. Nel farlo, si è rivolto ai cittadini del suo Stato con un apparato comunicativo che da noi si metterebbe in moto soltanto per il festival di Sanremo.

È possibile che nel frattempo in altre centinaia di paesi altre migliaia di politici si siano occupati di istruzione nella stessa prospettiva: quella secondo la quale essa si colloca nello snodo fondamentale che porta una società a essere capace di svilupparsi o no, a credere nel proprio futuro o no. Ma riuscite a immaginare in quale paese, in quegli stessi giorni, si parlava di porky partys, di corruzione o magari di regole delle primarie, e la parola istruzione non appariva in nessun intervento di nessun politico?

2012: Il 2 agosto al Baglio di Scopello

Il 2 agosto, al Baglio di Scopello, nell’ambito della serata dedicata a Il paesaggio abitato, in occasione del plenilunio, lettura di poesie dal Viaggio all’osteria della terra. Gios Strazzera ha alternato la sua voce alla mia. Tullio Sirchia, padrone di casa, ha fatto le presentazioni.

Lo scenario è stato quello che potete vedere: il sole che è tramontato mentre si facevano i preparativi e la luna che è sorta, dalla parte opposta, mentre la lettura era in corso.