George Whitman:
l’eco della poesia americana in Europa

Nella provincia culturale d’Italia che riempie le pagine dei giornali con i dibattiti sui lucchetti e che sembra non riuscire più ad alzare lo sguardo, la morte di George Whitman, avvenuta il 14 dicembre scorso, ha rappresentato soltanto l’occasione per più o meno idealizzati necrologi, quasi sempre rielaborati a partire da quello pubblicato nel sito della sua mitica libreria parigina “Shakespeare and Company”. Con un colonnino “di colore” nelle pagine della cultura i maggiori quotidiani nazionali (con alcune illustri eccezioni: per esempio “Repubblica”, che l’ha dimenticato del tutto) hanno ritenuto di adempiere al loro obbligo professionale. Coscienza a posto per una ventina di righe. E poi subito a occuparsi ancora di lucchetti.

Il fatto è che Whitman, con quella libreria al 37 di Rue de la Bûcherie, non ha fatto soltanto una lunghissima opera di diffusione del libro e della lettura, non ha soltanto portato avanti una rivoluzione del costume mettendo letti per scrittori e lettori in viaggio vicino agli scaffali e omettendo di denunciare i ladri di libri del suo negozio: George Whitman ha costituito una eco decisiva per l’Europa di ciò che accadeva, soprattutto negli anni Sessanta, nella cultura e nella poesia americana.
Chi di noi avrebbe conosciuto i Ginsberg, i Corso, i Burroughs, i Ferlinghetti, se non ci fosse stata questa eco europea di quello che loro scrivevano e facevano? È vero che la altezzosissima Europa (con l’arretratissima Italia, naturalmente, al primo posto) ha poi pensato di poter fare a meno delle straordinarie suggestioni che da questi poeti giungevano. Ma intanto chi voleva ha potuto conoscerli, si è poi affidato alla grande opera di traduzione e interpretazione di Fernanda Pivano, ha seguito le loro storie che si sono via via spostate da Parigi a New York a San Francisco, ha imparato un linguaggio nuovo che, almeno a qualcuno (e io sono tra questi), ha liberato la testa da tanto ermetismo d’accatto vigente in Italia in quegli stessi anni e ancora oggi non sradicato, ha permesso di trovare nuovi ritmi e di affacciarsi su nuovi orizzonti: questi ultimi collocati sul versante opposto rispetto a quello che la neoavanguardia italiana, magari con scopi analoghi, percorreva contemporaneamente.

Da lì, da quella libreria anglo-americana di Parigi (davanti alla quale, come si può vedere qui a fianco, sono stato anche io), abbiamo avuto l’eco di un’epoca nuova della cultura occidentale. Nuova e al tempo stesso antichissima: non è forse vero che, sulla porta della “Shakespeare and Company”, la poesia è tornata a essere suono, a essere detta ed eseguita, come ai tempi di Omero e di Esiodo, dopo secoli di poesia soltanto scritta? Naturalmente, bisognava stare a sentire. Anche allora, come oggi, bisognava leggere notiziole più di costume e “di colore” che di cultura, affidarsi a trafiletti di poche righe, poi leggere i versi della Beat generation e aspettare che germogliasse qualcosa nella propria anima.
Nel frattempo è successo anche il contrario. È successo che, preso esempio da Whitman, Lawrence Ferlinghetti ha creato la sua libreria “City Lights” a San Francisco, dove ha fatto conoscere e amare i poeti europei (tra gli italiani, più di ogni altro, Pasolini). In quella libreria di San Francisco è nata la grande stagione dei readings, delle letture (rimaste nella storia quelle di Ginsberg) che anche in America, soprattutto in America, hanno riportato la poesia alla essenza sonora delle sue origini.

Non sarebbe il caso di discutere di tutto questo? Non sarebbe il caso di farlo in questo paese dove i readings li abbiamo scoperti decenni dopo per farne una piccola moda un po’ snob da esibire nei festival di poesia? Non sarebbe il caso di farlo in questo paese dove si discute di librerie solo quando chiudono?
Evidentemente non è il caso. O così pensano i nostri intellettuali.
Lasciamoli parlare di lucchetti!

P.S.
Trascrivo qui sotto la traduzione del necrologio apparso sul sito della libreria “Shakespeare and Company”.


Mercoledì 14 Dicembre 2011 George Whitman è morto serenamente nella sua casa, un appartamento sopra la sua libreria, “Shakespeare and Company”, a Parigi. George aveva avuto un ictus due mesi fa, ma ha mostrato incredibile forza e determinazione fino alla fine, continuando a leggere ogni giorno in compagnia di sua figlia, Sylvia, dei suoi amici, del suo gatto e del cane. È morto due giorni dopo il suo novantottesimo compleanno.
Nato il 12 Dicembre 1913, a East Orange, nel New Jersey, George si trasferì a Parigi nel 1948 e vi aprì nel 1951 la libreria “Le Mistral”, in seguito ribattezzata “Shakespeare and Company”. Il negozio, stipato da parete a parete da libri e da letti destinati agli scrittori in viaggio, è cresciuto rapidamente fino a essere un paradiso per gli amanti dei libri e per gli autori, mentre George diventava un’istituzione originalissima della Parigi letteraria. Nel 2006 fu premiato con l’Officier des Art et Lettres dal ministro della Cultura francese per il contributo da lui dato alle arti durante tutta la sua vita.
Dopo una vita interamente dedicata ai libri, agli autori e ai lettori, George mancherà molto a tutti i suoi cari e ai bibliofili di tutto il mondo che hanno letto, scritto e e sono stati nella sua libreria per oltre 60 anni. Soprannominato il Don Chisciotte del Quartiere Latino, George sarà ricordato per il suo spirito libero, la sua eccentricità e la sua generosità, tutti e tre riassunti nei versi di Yeats scritti sui muri della sua libreria sempre aperta e frequentatissima: «Non essere inospitale con gli sconosciuti / potrebbero essere angeli sotto mentite spoglie “.
George sarà sepolto al cimitero di Père Lachaise a Parigi, in compagnia di altri uomini e donne di lettere, come Guillaume Apollinaire, Colette, Oscar Wilde e Balzac. La sua libreria continua, gestita dalla figlia.


Steve Jobs,
inventore di strumenti per farci pensare meglio

Oltre i clamori e i superlativi: grazie Steve

Nei primi giorni dei quasi due mesi trascorsi dalla scomparsa Steve Jobs ha attirato sul suo lavoro e sui prodotti della Apple commenti caratterizzati da un uso spropositato di superlativi. Per lo più ci si è soffermati sulla sua straordinaria capacità di anticipare il futuro con intuizioni che lui stesso ha paragonato alla follia.
Ora, con la mia solita – e orgogliosamente rivendicata – lentezza, cessati i clamori, voglio approfondire la questione a modo mio. E lo faccio cominciando con il notare come possa sembrare strano – e lo è – che sia stato un americano a ricordarci con questo paragone una linea di pensiero che è stata propria dell’umanesimo e del rinascimento italiani ed europei. Una linea di pensiero che, a partire da una originale lettura di Paolo di Tarso, individuava appunto nella follia un formidabile strumento di approccio alla conoscenza. Nella concezione erasmiana, la follia è quella che ci consente al tempo stesso di essere liberi nel pensiero e di accettarne il limite umano: due tendenze, solo apparentemente contrastanti, che per Erasmo hanno origine nella superiore follia della fede e che per un laico sono le coordinate dell’orizzonte terreno.
Nella mia vita ho avuto, e ho, a che fare con gli strumenti che la follia di Steve Jobs ha creato. E questi strumenti mi hanno aiutato a pensare meglio.

Appena sono usciti i primi computer di largo consumo ho cominciato a ragionare sul fatto che il linguaggio digitale di queste macchine avrebbe potuto modificare il nostro modo di organizzare le conoscenze. Un modo che, dall’illuminismo in poi, si è stancamente cristallizzato in una forma esclusivamente sequenziale, la stessa che era all’origine del concetto ordinatore e della concreta realizzazione della Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Ma non la sola forma di organizzaqzione delle conoscenze: né allora, né prima, né dopo.
Quando dunque sono usciti i primi personal computer, a metà degli anni ottanta, provai a poco a poco tutto quello che circolava, dal Commodore 64 al successivo 128 fino al Macintosh e all’Amiga. Di questi ultimi due mi affascinava l’interfaccia grafica che, rispetto a quella dei computer a comandi testuali, rendeva sempre più facile (anzi, in certa misura, rendeva necessario) il superamento della sequenzialità in primo luogo nella organizzazione delle azioni per comandare la macchina e facilitava perciò anche una diversa organizzazione delle conoscenze. Pur essendo da subito un fan scatenato di Steve Jobs, quando, dopo aver usato i computer degli amici, e dopo aver avuto per un anno un Commodore 128, dovetti passare all’acquisto di un computer “serio”, optai per l’Amiga.
Il motivo era semplice. Con il computer dovevo lavorare, oltre che per me stesso, anche per la redazione di una rivista, “Il Nuovo Spettatore italiano”, nella quale ero capo redattore della sezione culturale. E i pochi pezzi che mi arrivavano in formato digitale erano regolarmente scritti con computer “Ibm”. Ebbene l’Amiga aveva questo vantaggio: con una piccola spesa, al corpo del computer originale si poteva collegare un “sidecar”(come si vede nella foto qui sopra), cioè un altro computer con processore 8086 e, dunque, perfettamente compatibile con tutti i software per “Ibm”. È ovvio che, quando dovevo lavorare per me, usavo l’Amiga. Con questo computer ho realizzato, per esempio, il database di tutti gli articoli pubblicati sulla rivista, poi uscito come indice analitico in fascicoli a stampa nel 1987 e nel 1988.

Soltanto più tardi sono passato al Mac, e sempre dopo averci lavorato a casa di un amico. Tra il 1994 e il 1995 con questo amico, Emilio Piccolo, decidemmo di realizzare una edizione ipermediale della Storia della letteratura italiana nell’orizzonte europeo, un’opera che io avevo diretta e in parte scritta e che era stata pubblicata nel 1992 dall’editore Oberon di Milano.
Il lavoro, da un punto di vista concettuale, non era difficile perché il mio compito di direttore di quella storia letteraria era consistito, appunto, nell’organizzarla in forma ipertestuale, per quanto ciò era consentito dal supporto cartaceo. La “storia” era infatti articolata in un testo sequenziale e in “schede” ipertestuali che di volta in volta aprivano verso estensioni di vario tipo: approfondimenti, collegamenti intra e intertestuali e così via. Il vero problema era trovare lo strumento digitale capace di tradurre questa organizzazione concettuale in un prodotto finito. Lo strumento fu appunto un Macintosh classic (nella foto) e un software, “Hypercard”, nativo per Mac. In due anni di lavoro riuscimmo a realizzare quello che avevamo in mente e presentammo a Galassia Gutenberg, con grande interesse (e anche moltissima curiosità) del pubblico la prima edizione ipermediale di una storia letteraria mai realizzata (ricordo a chi legge che era il 1995). Alla storia e alle schede avevamo integrato i testi di molte delle opere citate, immagini e musiche.

Ma torniamo ai miei computer. L’uso di quello straordinario strumento che ci aveva aiutato in maniera decisiva a tradurre in un prodotto digitale ipermediale una complessa organizzazione ipertestuale (storia e testi, schede, immagini, suoni, tutti rintracciabili con flessibili strumenti di ricerca) mi aveva entusiasmato. Così mi procurai un Macintosh usato (generazione precedente a quello che avevamo usato insieme, ma prestazioni, per me, eccezionali) e ho continuato a usarlo fino a quando non ho comprato un iMac, il primo modello uscito, ancora con il Mac Os IX. Da allora, il Mac è stato il mio compagno di viaggio in ogni realizzazione di progetti di scrittura, di prodotti ipermediali e di strutture per siti web.

Cedimento a una estetica di consumo? No. Anche se devo dire che il primo modello di iMac, con il corpo bianco latte a pallini blu, e quello stesso che sto usando ora, alluminio e nero, mi affascinano anche come oggetti. Semplicemente strumenti che mi hanno aiutato e mi aiutano a pensare meglio. Niente superlativi. Solo: grazie Steve.
Niente di più

Ritorno a Berlino: Bebelplatz

Quattro anni fa, nel luglio del 2007 sono stato a Berlino per la prima volta. Ed è stato amore a prima vista per una città straordinaria che si ricostruiva e che intanto costruiva una propria immagine tanto nuova quanto pervasa di memoria.
Più di tutto mi aveva colpito il modo in cui spesso la Berlino del dopo-89 presentava questa memoria: non grandi monumenti, non qualcosa che si innalzava davanti al cittadino o al visitatore, ma qualcosa che, invece, si collocava al livello dei suoi passi. Sì, la memoria faceva parte del nuovo volto di questa città in modo originalissimo perché chi percorreva le sue strade o le sale dei suoi musei ci camminava sopra.
Chi segue quello che scrivo, conosce I segnalibri di Berlino, una raccolta di quattro poesie uscita poi nel 2009 che parla appunto di questo. Mi permetterete di fare una citazione da questo libro:


Dove camminiamo, su queste strade lucide, lo vedi
anche tu, ci sono a volte incise sopra liste
di metallo parole
che alla pioggia brillano più
di quanto potrebbero brillare al sole e tutto
intorno senti che prega la terra per far sì
che non si volti chi passa e faccia finta
di non avere visto.

Qui, ora
dove camminiamo
ci sono solo due parole incise, die Mauer,
e attraversano le strade dove passava fino
all’Ottantanove il Muro. Sulla piazza
con il suo nome, frasi di Rosa Luxemburg di pace
sono incise su altre lunghe liste a fianco
dei giardini che tigli
giovani coprono all’uscita
della U-Bahn.

Dove camminiamo, qui a Berlino i nostri passi sono
improvvisati segnalibri, linee
tracciate con la matita sotto righe che
chi ha scritto
ha scritto per far dire alla terra una preghiera
per non farci voltare e fare finta
di non avere visto.


Nella poesia ricordavo anche la sala dello Jüdische Museum, quella dove si trova l’installazione detta “Schalechet” o “Gefallenes Laub” (Foglie cadute) realizzata da Menashe Kadishman in uno dei grandi spazi vuoti che l’architetto Daniel Liebeskind ha lasciato all’interno del Museo per simboleggiare l’assenza degli ebrei dalla società tedesca. In questa sconvolgente installazione le “foglie cadute” non sono altro che vere e proprie maschere umane realizzate in metallo: chi percorre lo spazio dall’inizio alla fine e ritorno sente sotto i propri piedi queste maschere stridere tra loro con l’effetto di veri e propri urli. Ancora una volta, la memoria richiedeva non di osservare un monumento, ma soltanto di camminare.

Qualche mese dopo, nel corso di una mostra a Roma, parlavo di questo carattere forte di Berlino con la scultrice Yvonne Ekman e lei mi ha mostrato una sua opera, Bebelplatz 1933 che rievocava il rogo dei libri perpetrato dai nazisti in quella piazza nel maggio di quell’anno. Mi ha anche detto che, se fossi tornato a Berlino, nella attuale Bebelplatz avrei trovato un altro “segnalibro”: una installazione realizzata da Micha Ullman consistente in una buca quadrata ricoperta da una lastra trasparente e con le pareti ricoperte di librerie vuote.

Naturalmente, quando qualche settimana fa sono tornato a Berlino, andare a Bebelplatz è stata una delle prime cose che ho fatto. Ed è stata un’altra esperienza straordinaria e di fortissimo impatto emotivo.
Ancora una volta, la nuova Berlino offre la memoria ai passi che fai, richiede la tua attenzione per i luoghi dove cammini, luoghi che rende sacri con modifiche apparentemente piccole. La piazza, che fiancheggia Unter den Linden, subisce in questo periodo il non gradevole effetto del cantiere per il restauro della Staatsoper, ma quando ci si avvicina a quella piccola buca per terra, tutto il resto scompare. Ci si può solo inginocchiare e unirsi a quella preghiera silenziosa che viene dalla terra. A fianco del “Denkmal zur Erinnerung an die Bücherverbrennung” (“Memoriale per il rogo dei libri”) ancora due “segnalibri”: due targhe di metallo con la citazione di due versi tratti dalla tragedia Almansor (1821) di Heinrich Heine: «Das war ein Vorspiel nur, dort wo man Bücher / Verbrennt, verbrennt man auch am Ende Menschen» [Questo era solo il prologo, dove i libri / si bruciano, si bruciano alla fine anche le persone].
Inutile aggiungere altro, se non rinnovare la mia dichiarazione di amore a Berlino.

Centrali nucleari: vogliamo spegnerle tutte

Un quotidiano di destra, la destra seria (quella che c’era prima dell’era berlusconiana e che forse riuscirà a esserci anche dopo), titolava ieri la prima pagina con una domanda altrettanto seria: «Volete spegnerle tutte?». Si riferiva, evidentemente, alle centrali nucleari e alla paura determinata dalla situazione in Giappone. La risposta, anch’essa assolutamente seria, è: sì, vogliamo spegnerle tutte. Perché siamo uomini.

E ora vi spiego come io vedo il fatto, il perché e il per come.
I reattori attivi nel mondo – ci dice l’International Nuclear Safety Center – sono 442. Sono distribuiti in 29 paesi, alcuni dei quali dipendono dal nucleare per oltre il 50% della loro produzione energetica. Ma, complessivamente, l’energia generata da questi 442 reattori è pari al 3% di quella prodotta nel mondo.

Se si guarda al totale, si può dire allora che, facendo a meno delle centrali nucleari, il mondo continuerebbe a produrre il 97% dell’energia che gli serve. Se poi si guarda al futuro prossimo (la fine di questo XXI secolo), bisogna aggiungere che, in ogni caso, quelle centrali chiuderebbero per mancanza di materia prima. L’uranio, infatti, non è infinito. Se vogliamo essere precisi, si tratta dunque soltanto di anticipare i tempi, ciò che vale, d’altronde, anche per la produzione di energia da fonti fossili, anch’esse non infinite.
E questo è il fatto.

Ora veniamo al perché. Anzi, ai perché.
Uno. La scienza (parlo di quella per usi pacifici) si è da sempre sviluppata in un consapevole rapporto tra innovazione e rischio. Consapevole, perché il rischio è sempre stato correlato ai benefici che l’innovazione poteva comportare e ha riguardato, nella storia umana, la vita di alcune (o anche di molte, ma non innumerevoli) persone o possibili danni materiali anche prolungati nel tempo di alcuni (o anche di molti, ma non innumerevoli) anni. Nel caso dei reattori nucleari, questa correlazione si è persa. In questo caso, per quanto grandi possano essere i benefici, i rischi riguardano quantità enormi di persone in tutto il pianeta e gli eventuali danni (per esempio quelli già provocati dai vari incidenti “non gravi” avvenuti nel corso dei decenni nelle varie centrali nucleari) si estenderanno per molte decine di migliaia di anni.
Ma vi è un secondo perché: la “ordinaria gestione” delle centrali nucleari (comprese quelle di ultima generazione delle quali si prospetta l’istallazione in Italia), a causa dell’ancora irrisolto problema del riprocessamento e della conservazione delle scorie, determina conseguenze di estremo pericolo che possono arrivare a 240.000 anni e, per certi materiali, fino a circa un milione di anni. Sono rimasto molto colpito quando ho avuto notizia degli studi su come comunicare tale pericolo ai nostri discendenti, considerato che nessuna lingua umana ha mai superato la durata di qualche migliaio di anni (ammesso e non concesso che un sito di stoccaggio sia davvero sicuro per un periodo così lungo). L’ho anche accennato in una poesia del 2006, Via Retarola:


[…] Attraversare
il tempo non sarà
facile, ma avverrà, come sempre è avvenuto, e noi
non sappiamo che cosa lasciare scritto
– e in che lingua – a chi vivrà per maledirci o forse
non vivrà neppure e non potrà
profanare i nostri cimiteri e seppellire mostri
e schernire un eterno riposo tanto breve.


Infine, c’è un terzo perché. La gestione delle centrali nucleari implica un potere politico forte, in grado di impegnare una quantità enorme di risorse finanziarie per molti anni (a proposito: il quarto perché, su cui non mi dilungherò, riguarda il costo) e di tacitare in un modo o nell’altro chi solleva problemi; e un potere economico e industriale fortissimo, quello delle poche aziende al mondo – le dita delle due mani sono decisamente troppe per contarle – che sono in grado di costruirle e di mantenerle e reggono così il destino di interi popoli: un accentramento di poteri che necessariamente confligge con la democrazia e piace invece a tutte le autocrazie o aspiranti tali. Non a caso c’è spesso un massiccio strato di ideologia sotto il sostegno apparentemente “tecnico” alla soluzione nucleare del problema energetico.

Ma è tempo di passare al “per come”. Insomma, come si fa a sostituire quel 3% di energia mondiale prodotta senza distruggere né le economie dei paesi che ne dipendono (penso alla Francia: guardate la cartina!) né quelle dei paesi che dovrebbero aiutarli? In questo caso le risposte sono soltanto due.
Una. Un accordo mondiale su una exit strategy dal nucleare. Mentre sto scrivendo, Nicolas Sarkozy, dichiara che convocherà una riunione del G20 – del quale la Francia ha la presidenza di turno – per discutere delle opzioni energetiche. La mia non è dunque l’utopia di un visionario. Questo accordo mondiale dovrebbe prevedere una fase di circa dieci anni di progressiva dismissione delle centrali nella quale i paesi non nucleari esporteranno una parte dell’energia da loro prodotta per compensare la mancata produzione delle centrali in via di spegnimento.
Due. Una immediata revisione degli accordi sulle emissioni di anidride carbonica che preveda, ancora una volta a livello mondiale, un gigantesco impegno finanziario a favore della produzione di energia rinnovabile diffusa. Il principio dell’energia rinnovabile diffusa, sostenuto tra gli altri da Jeremy Rifkin, è quello della rete, molto simile a quello con cui funziona internet. Ciascuno produce l’energia che gli serve e immette nella rete quella eccedente. Sole, vento, correnti oceaniche, biomasse, idroelettrico, geotermico: tutte le fonti rinnovabili devono essere utilizzate per produrre l’energia che serve a privati e aziende e tutte le risorse della ricerca scientifica devono essere rivolte in questa direzione per raggiungere i due grandi obiettivi dello spegnimento di tutte le centrali nucleari e della fine dell’uso dei combustibili fossili. È evidente, tra l’altro, che la produzione diffusa di energia da fonti rinnovabili, per il principio della rete, difficilmente può essere messa in difficoltà da un evento naturale, per quanto catastrofico. Se da una parte venisse meno la produzione, da altri milioni di “produttori” continuerebbe a essere immessa energia nella rete.

Una prospettiva come questa ha molte buone ragioni per essere perseguita. Quelle economiche lasciano intravedere una ripresa basata su un settore destinato a toccare nel tempo tutti gli abitanti del pianeta. Quelle politiche ci dicono che, nell’ambito di una governance mondiale, questo modo di produrre energia non solo non confligge con la democrazia, ma può diventarne una struttura portante. Quelle sociali hanno a che vedere con il risparmio di energia e dunque con un modo diverso (ma chi dice che sarà peggiore?) di affrontare la questione dei consumi.

Siamo uomini. Sappiamo bene che per la natura l’intero genere umano non è necessario:


Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.


Giacomo Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese

Ma, a differenza degli altri esseri animati che popolano il pianeta, siamo capaci di guardare lontano con gli occhi della mente. E questo sguardo può abbracciare i millenni, le decine e le centinaia di millenni e può ancora vedere uomini su questo pianeta. Siamo uomini: perciò possiamo pensare gli altri uomini di un futuro anche lontanissimo; possiamo non sapere come saranno, ma possiamo pensarli. Per questo dovremmo considerare mostruoso questo mezzo secolo nel quale ci siamo lanciati nel cosiddetto “nucleare di pace”, a volte – e forse è proprio il caso dei giapponesi – in buona fede; nel quale abbiamo parlato della “sicurezza” dei reattori per nascondere il nostro odio del futuro; nel quale abbiamo deciso di vivere divorando i nostri figli. Dovremmo considerare mostruoso questo mezzo secolo nel quale abbiamo costruito centinaia di centrali nucleari.
Siamo uomini. Per questo vogliamo spegnerle tutte.

L’odore della paura

Perché il Presidente del Consiglio attacca la “scuola di Stato”

La paura ha un odore. È sgradevole, come sanno bene i nostri amici cani, che giustamente se ne offendono e rispondono per le rime. La paura della libertà ha un odore ancora più sgradevole e anche noi umani, con il nostro limitato olfatto, possiamo percepirlo. Da lontano. E a distanza di tempo. È una paura che si osserva bene in chi la libertà la nomina troppo. Perché, chi non ne ha paura, la considera una condizione “normale” del vivere civile e parla di ciò che, posta questa condizione, si dovrebbe fare.

Riferiscono i media che il Presidente del Consiglio ha detto: «Libertà vuol dire avere la possibilità di educare i propri figli liberamente, e liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare principi che sono il contrario di quelli dei genitori».
Certo, c’è in questa frase un tentativo maldestro – ma non si sa mai – di accattivarsi le simpatie della Chiesa e, attraverso di essa, di quel mondo cattolico che i sondaggi indicano come sempre più lontano dal sostegno a un uomo dai costumi non propriamente irreprensibili.
Ma c’è di più: viene fuori da questa frase, senza remore, la vecchia paura che la destra più retriva ha tradizionalmente per l’istruzione di tutti. La “scuola di Stato” (oggi veramente si chiama “sistema pubblico di istruzione e formazione” e comprende le scuole statali e quelle paritarie: la frequenza di queste ultime è finanziata dallo stato) è sempre stata la garanzia che l’istruzione possa essere davvero «aperta a tutti» (art. 34 della Costituzione), e che «libero» vi sia l’insegnamento (art. 33).

Proprio di questo ha paura il Presidente del Consiglio, come sempre hanno avuto paura – ripeto – i peggiori esponenti della destra autoritaria. Naturalmente, c’è anche una destra che non ha mai avuto paura della “scuola di Stato” e che l’ha anzi difesa come presidio di laicità. Ma non è questo il caso. Ha paura il nostro (ahimè!) Presidente che i bambini e gli adolescenti possano crescere pensando con la propria testa, e non con quella dei genitori, o di altri. Ora, proprio il confronto tra opinioni diverse, tra idee diverse della vita, tra pensieri fondati su diversi presupposti culturali (quelli dei genitori e quelli dei vari insegnanti, ciascuno differente dall’altro) fa crescere liberi. E questo tipo di crescita il nostro (ahimè!) Presidente vorrebbe impedire: la sua paura della libertà riguarda l’oggi e il domani.

Viene fuori, anche, da questa frase, una concezione della scuola non statale che fa davvero impressione e che dovrebbe suscitare lo sdegno, anziché solleticare istinti favorevoli, da parte almeno delle scuole cattoliche più serie. Il discorso, infatti, si presume che riguardi principalmente queste scuole, dato che è stato rivolto a un uditorio di “Cristiano riformisti”, partito che io non conoscevo ma che si autodefinisce – ho scoperto – di «donne e uomini cristiani animati da senso civico e che credono fortemente nella possibilità di riscatto della politica solo se essa ha dei forti punti di riferimento morali».
La scuola cattolica
sarebbe dunque, per ovvia deduzione, quella che nelle teste dei giovani ‘inculca principi identici a quelli dei genitori’. E questo sarebbe, secondo il nostro (ahimè!) Presidente, il corretto sviluppo di un processo di crescita culturale: un processo ideologico autoconservativo lungo il quale, se mai dovesse realizzarsi, la storia non riuscirebbe ad andare avanti e, anzi, si incepperebbe in una involuzione raccapricciante. Raccapricciante per tutti coloro che, a destra e a sinistra, vogliono, sia pure con visioni diverse, che un futuro, comunque, ci sia.

Ha parlato a braccio, il nostro (ahimè!) Presidente, e non si è reso conto delle deduzioni che si potevano trarre da quello che diceva. Ma l’odore della paura si sente ogni volta che questa frase viene trascritta sui quotidiani o viene ritrasmessa dalle tv. È talmente sgradevole che, nonostante il freddo, mentre leggevo il giornale, ho dovuto aprire la finestra. E, da vecchio insegnante, mi son sentito di dover rispondere per le rime. Si fa così. Me lo hanno insegnato i miei cani.

Che ciascuno di noi faccia qualcosa

Una poesia di Saba per capire come è (o dovrebbe essere) cambiato
l’immaginario della donna per gli uomini del ventesimo e del ventunesimo secolo

«Che ciascuno di noi faccia qualcosa, perché la somma di questo fare è un grande valore» ha detto Oscar Luigi Scalfaro nell’invitare a sostenere l’appello di Libertà e Giustizia per le dimissioni del Presidente del Consiglio. Ho aderito all’appello, considero giusto e importante quello che ha detto Scalfaro e faccio l’unica cosa che so fare bene. Parlare di letteratura, anzi di poesia. E cercare, così, di capire quello che succede.

Sono passati poco più di cento anni da quando Umberto Saba ha scritto le poesie della piccola raccolta Casa e campagna. Appena cinque poesie scritte tra il 1909 e il 1910 e, tra queste, una che lo stesso Saba riconosce essere la sua più nota e comunque – aggiunge parlando di sé in terza persona nella Storia e Cronistoria del Canzoniere – «se di questo poeta si dovesse conservare una sola poesia, noi conserveremmo questa».

Si tratta della poesia A mia moglie.

Umberto Saba, A mia moglie


Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio.
Così, se l’occhio, se il giudizio mio
non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun’altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.

Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la sua carne.
Se l’incontri e muggire
l’odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l’erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t’offro quando sei triste.

Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d’un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.

Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l’angusta
gabbia ritta al vederti
s’alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?

Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest’arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere:
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un’altra primavera.

Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l’accompagna.
E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun’altra donna.


Anche in questa poesia così “nuova” rispetto alla tradizione italiana Saba subisce tutti gli stereotipi sulla donna propri del suo tempo, in particolare quello della devozione. Ma fa qualcosa che nessun poeta aveva mai fatto. Strappa il velo angelico che dallo stilnovo in poi la poesia colta italiana aveva posto sulla donna – esaltandola, ma al tempo stesso travisandola – e dichiara che lei avvicina a Dio per se stessa, come «tutte / le femmine di tutti / i sereni animali». Non perché è un angelo, insomma, ma perché è una donna, perché appartiene al regno degli esseri “viventi”, prima ancora che “umani” (il «genus omne animantum» del Proemio del De rerum natura di Lucrezio). È nella donna stessa, nel suo fisico “essere viva”, la sua capacità di relazione con l’assoluto.
Che cosa cambia, con ciò?
Dal punto di vista della storia letteraria va a rotoli una plurisecolare tradizione tipicamente italiana che aveva separato l’immagine della “donna poetica” (e la lingua con la quale questa immagine veniva rappresentata) da quella della “donna vera”, in carne e ossa. Non che qualcosa non si fosse mosso anche prima: la donna di A se stesso, in Leopardi, è ben diversa dalla «donzelletta» del Sabato del villaggio. E, nel Natale del 1833, il Manzoni si ribella addirittura con violenza a quell’assoluto (il Dio cristiano, per lui) che ha consentito il venir meno della presenza fisica della moglie Enrichetta dal suo fianco (leggi qui). Ma sono episodi. Piccoli vortici. La corrente andava in un’altra direzione. Ora, con Saba, la corrente viene deviata da una diga. La poesia A mia moglie fa scandalo. La moglie stessa di Saba, in un primo momento, se ne offende. Benedetto Croce la legge con orrore e rimprovera a Saba (senza degnarlo di una lettera, ma scrivendogli una cartolina postale) che le sue poesie «mancano di qualunque elaborazione formale».

Il fatto è che intanto stava cambiando il mondo, oltre che dal punto di vista politico (la crisi degli imperialismi), anche da quello antropologico. Cominciava così a cambiare, tra l’altro, la prospettiva dalla quale l’uomo guardava all’immagine della donna. Qui non si parla dei poeti (certo, durante Stilnovo, l’immagine della donna angelo serviva a proiettare verso il più alto livello possibile l’idea stessa del fare poesia, era una scelta di politica culturale), ma si parla del senso comune. Ebbene, nel senso comune, la figura angelica della donna era servita e continuava a servire come alibi. La donna finiva facilmente per sdoppiarsi nell’immaginario maschile: da una parte l’angelo, la donna che (al contrario di quanto accadeva per i poeti: ecco dunque la necessità di distinguere) prima o poi si sarebbe sposata, ma non si toccava fino al matrimonio e si toccava poco anche dopo. Dall’altra, il diavolo, colei che soddisfaceva gli istinti, fosse l’amante “stabile”, come accadeva per gli strati più alti della società, o la prostituta del postribolo, che “serviva” un po’ a tutti.

La poesia di Saba è un primo – provvisorio e ambiguo, ma certo – sintomo di questo cambiamento del punto di vista. Non c’è nessun angelo. E dunque non è necessario nessun diavolo. Le vicende esistenziali del poeta, che verranno dopo, sembrano smentire questa nuova prospettiva, ma non è così. In quella pollastra, giovenca, cagna, coniglia, rondine, pecchia si avverte proprio il cambiamento in corso. Non cambia ancora la storia degli atti personali, forse, ma certamente quella dell’immaginario collettivo di una parte del mondo.
Il cambiamento che allora cominciava appena ad avvertirsi nell’aria si è poi sviluppato nel Novecento. Tanto che oggi non c’è più nessuna cultura che consideri “normale” il fatto che il buon padre di famiglia, per non offendere i sentimenti e il pudore dell’angelica moglie, si tolga qualche sfizio al bordello dove, chi ci andava, andava con gli amici, faceva conversazione, non aveva timore di mostrarsi. Oggi, chi lo fa, lo fa di nascosto. Se c’è un gruppo di persone che lo fa senza che ciascuno abbia timore di farsi vedere dagli altri, il senso comune le considera depravate.
Ma, si sa, la storia non va diritta per la sua strada: fa strade tortuose e a volte torna indietro. Ad Arcore è tornata indietro, si dimostrino o no reati e pagamenti (ma la vicinanza al potere una volta ripagava di per sé: non c’era bisogno di ragionieri). La storia del modo in cui l’uomo entra in rapporto fisico e di idee con la donna è purtroppo tornata indietro da tempo in mille tv, o comunque in quelle contano, nelle quali la “donna-diavolo” occhieggia con il corpo bene in mostra e sottintende che da qualche parte, proprio lì, davanti ai televisori, qualche “donna-angelo” sta facendo la sua parte di brava moglie mentre il marito sbava e sogna di essere lui il padrone della tv che certamente, o prima ha messo, o dopo metterà le mani su quei corpi e potrà così allontanare la sua ossessiva paura della morte. Questo è il danno peggiore che il paese riceve da un circolo vizioso di potere, media, soldi, cortigianeria. Questo è il danno peggiore perché il senso comune è trascinato all’indietro da chi dovrebbe governare, oltre che le istituzioni e l’economia, anche la cultura. Ogni giorno che passa è dunque un passo indietro. È un rogo di saperi e pensieri che pensavamo fossero consolidati, non di destra o di sinistra, ma semplicemente nostri, appartenenti al nostro patrimonio di idee. Tali da costituire, per ciò stesso, una base di speranza. Ogni giorno che passa con questo Presidente del Consiglio è dunque un passo indietro della speranza. Ne siamo tutti, uomini e donne, mortificati e offesi. Ma molti, per fortuna, ne sono anche indignati.

Dieci anni di Wikipedia

Mi unisco alle celebrazioni per i dieci anni di Wikipedia, di cui sono un piccolo ma convinto “donor”, con la citazione di una similitudine tanto bella quanto convincente di Kevin Driscoll, dj ed esperto di new media:


L’unica cosa che, nella mia esperienza di vita, posso pensare in un certo modo simile a Wikipedia fuori da internet è quando capita che voi andiate sulla spiaggia e che lì vi sia un gruppo di persone intente a fare un castello di sabbia. E voi potete giusto aggiungervi e cominciare a fare un’altra parte del castello e poi collaborare insieme con tutti. E allora altri possono pensare qualcosa come “oh quei tipi stanno facendo un enorme castello di sabbia”. E allora anche loro si lasciano coinvolgere e la situazione finisce per ingigantirsi tanto che voi non potete più chiedere i nomi delle persone. Intanto continuate a lavorare al castello tutti insieme. E nessuno è il proprietario di quel castello di sabbia. Voi lo costruite tutti insieme e tutti ne siete orgogliosi. E tutti voi beneficiate ciascuno del lavoro dell’altro così che potete realmente ciascuno contare sull’aiuto di ciascun altro. E Wikipedia è come quel castello di sabbia, salvo il fatto che nessuna onda dell’oceano arriverà per cancellare Wikipedia.


Auguri!

A tutti i lettori di questo blog faccio gli auguri con le parole di un messaggio che ho ricevuto da Pedro Pablo Gutiérrez González, docente di Comunicazione audiovisiva all’università di Vigo e amico di scrittori e poeti spagnoli e italiani.


Auguri speciali per la felicità in questi giorni, rinnovabili automaticamente per il resto della vostra vita.
Che nel 2011 nessuna cosa possa togliere la voglia di stare bene insieme, di fronte a un buon vino.
Non smettete di sognare. La gioia arriva sempre.


La poesia non è sull’Aventino

Alcuni amici si sono meravigliati del fatto che i miei Versi inutili, a leggerli, non corrispondono all’idea che se ne erano fatta, prima ancora di leggerli, in base al titolo. Pensavano a testi di ripiegamento e di rinuncia, a una sorta di mio ritiro sull’«Aventino» in attesa di tempi migliori.
E invece mi scrivono di aver trovato un testo «impegnato» contro certi perversi meccanismi economici e di potere del mondo contemporaneo. Spero di aver ben sintetizzato quello che pensano. E comunque li ringrazio. Non credo, comunque, di aver sbagliato titolo.

Né credo che la parola «impegnato» corrisponda all’intenzione di questo libro. Non perché sia una cattiva parola (onore a chi pratica l’impegno in letteratura), ma perché io non sono affatto dispiaciuto che la (mia) poesia sia inutile. Ho già scritto in questo blog che l’inutilità è per me una prospettiva “forte” dalla quale guardare il mondo e dunque non la concepisco davvero come una collinetta (sia pure amena come l’Aventino romano) nella quale starmene tranquillo ad aspettare che qualcun altro abbia a cuore un mondo migliore e si batta per realizzarlo. Sia chiaro: non sono affatto tranquillo.

Già nel 1975 Montale, quando individuava nell’inutilità il carattere proprio della poesia, ne cancellava al tempo stesso quel senso di inadeguatezza, di insufficienza e di inettitudine che a suo tempo aveva contrassegnato l’autoflagellazione dei crepuscolari e lo presentava come un «titolo di nobiltà». E, in questi anni, sempre più il valore dell’inutilità è stato ipso facto, cioè per il fatto stesso di essere tale, una contraddizione tanto nobile quanto insanabile rispetto alla presuntivamente utile e produttiva “normalità” quotidiana; una contraddizione guardata con così grande sospetto dagli interessati custodi di questa “normalità” da spingerli a tener fuori la poesia dall’orizzonte stesso dei generi della scrittura contemporanea e a relegarla in una sorta di controllata nicchia da poche centinaia di copie di tiratura. Un esilio, e neanche dorato: questo è certo. Un esilio che non tocca, tutti lo vedono, la letteratura o la saggistica «impegnate».

Il fatto è che il valore dell’inutilità contraddice in particolare, per la sua natura stessa e in modo totale, le cosiddette “regole del mercato” e più ancora tutti quei poteri economici e politici che di esse si fanno scudo per trasformare gli stati in rappresentanti di tornaconti particolari anziché dell’interesse generale, garanti dei dividendi anziché di “regole” diverse. A guardar bene, si scopre una cosa che, se non fosse tragica, sarebbe divertente: la rinuncia non è quella di chi scrive «versi / come sempre, come è / nella loro essenza, / inutili»; è quella degli stati, o meglio, per non essere qualunquisti, di quei governi che hanno messo gli stati sull’Aventino dell’economia e ne hanno fatto impotenti vedette di quello che succede, salvo naturalmente a farli scendere di corsa da quello stesso Aventino quando tornaconti e dividendi soffrono qualche malanno.

In Italia c’è qualcosa di più. La notte che stiamo attraversando è determinata qui dal fatto che questa sostanziale rinuncia dello stato si mischia a una ridente ostentazione sia dei tornaconti privati sia degli stessi privati costumi (i latini dicevano mores). Ridente, ma certi ghigni di cartapesta dimostrano che quel riso è forzato. Questi costumi, che si pretenderebbero riservati, vengono invece appositamente fatti vedere – e non solo dal buco della serratura – per essere presentati come desiderabili ai più e non goduti solo da chi non può permetterseli perché ahilui, fuori dal mercato e dal potere: il massimo della sfiga. E il guaio è che tanti di coloro che non possono permettersi questi costumi si sentono davvero sfigati.

Perciò viviamo in una notte e non in un qualsiasi travagliato e difficile giorno. E perciò l’inutilità della poesia assume, qui e ora, nel «buio che s’intorbida» ogni minuto di più, un carattere di contraddizione ancora più radicale di quello che ha sempre avuto anche in altri tempi e in altri luoghi.

La poesia è la contraddizione.
Chi vuole uscire da questa notte provi a far tornare la poesia dall’esilio.
Amici, fatelo voi.

L’Apologia di Socrate

Sere fa la televisione non offriva molto. Violenze su un campo di calcio e banalità sulla giustizia spacciate per pareri di politici esperti e – ancor peggio – di esponenti del governo in un talk show. Uno dei tanti.
Meglio una buona lettura. E allora ho preso dagli scaffali della libreria una vecchia edizione delle opere di Platone. Volevo leggere l’Apologia di Socrate. Lo scopo era quello di riconciliare la mia mente con qualcosa di serio, guarda caso, proprio intorno alla violenza dei privati e alla giustizia dello Stato

Saranno stati vent’anni che non tornavo su questo testo. E l’altra sera mi sono reso conto di aver fatto male. È un testo da rileggere almeno una volta l’anno. È più salutare che fare le analisi del sangue. Se ti confronti con questo testo, capisci chi sei e come stai molto di più che non guardando i valori della glicemia e del colesterolo.

L’Apologia è la difesa che Socrate fa di sé stesso davanti ai giudici per rispondere alle accuse che un gruppo di violenti gli aveva rivolto imputandogli, in sostanza, di essere ateo e di corrompere i giovani. Anche nell’Atene di allora non mancavano ultras nazionalisti non molto diversi da quelli che oggi girano per certi stadi di calcio.
Platone scrisse quest’opera probabilmente molto giovane, pochissimo tempo dopo il processo (avvenuto nel 399 a.C.), quando le parole dette da Socrate dovevano essere ricordate da molti e si deve quindi pensare che la ricostruzione che egli fa del discorso del suo maestro sia molto fedele. C’è forse una contaminazione della filosofia di Socrate con una concezione dell’«idea» più propriamente platonica. Ma non è questo che importa. D’altro canto non sono un esperto di filosofia, ma solo un lettore qualsiasi.

Quello che importa è che esce fuori dall’Apologia la straordinaria personalità di un uomo che non si piega né alla violenza diretta dei suoi accusatori, né a quella indiretta dei giudici (che avrebbero voluto vederlo «piangere e lamentarsi e fare molte altre cose di lui indegne») in virtù di un’idea del male che costituisce, a mio parere, la pietra di paragone di ogni morale laica. Il male non è, per Socrate, la morte; è invece, certamente, per ciascun uomo, commettere atti ingiusti o empi, cioè contrari alle leggi dello Stato o ai valori universali.

Da questa posizione Socrate ricava per sé, durante il processo e la successiva carcerazione (come si vede poi nel Critone, altra opera che mi sono affrettato a rileggere), una totale libertà intellettuale che gli consente di trasformare la sua difesa in una rivendicazione altissima della sua “sapienza”. Una “sapienza” che è tale, come è noto, proprio in quanto riconosce a priori i suoi limiti e che fa di questa azione del riconoscere ciò che non si sa una missione dettata da un’ispirazione che Socrete stesso considera di natura “divina” (il “demone” che gli sta dentro e che lo spinge a non fermarsi neanche di fronte al rischio della morte).

Per riconoscere ciò che non si sa Socrate non aveva fatto altro che andare in giro per la città a esaminare chi si credeva sapiente e a convincerlo che in realtà la sua è solo una presunzione di sapienza senza reale contenuto. Sapeva bene che questo gli procurava molti nemici, particolarmente in un’epoca di tirannia o di incertezza politica come quella seguita alla sconfitta ateniese nella guerra con Sparta. Ma non per questo aveva smesso di esercitare il suo magistero.

E ora, durante il processo, questa sua coerenza gli dà la forza necessaria per fare due cose che probabilmente né i suoi accusatori né i giudici si aspettavano. La prima è riaffermare, davanti al più grande uditorio possibile (i cittadini ateniesi che assistono al processo e gli stessi cinquecento giudici che lo condanneranno) il metodo dell’«esame» come quello che consente di verificare ciò che si sa e di distinguerlo da ciò che si crede di sapere: una lezione pubblica di filosofia straordinaria, tanto più perché chi la pronuncia sa bene che è l’ultima. La seconda è quella di preferire la morte piuttosto che rinunciare alla propria missione trasformando così questa missione in un valore assoluto per i suoi contemporanei e per chiunque, dopo di allora, voglia vivere come un uomo e non come una bestia.

«Si è fatta ora di andare: io a morire, voi a vivere – dice ai giudici concludendo la terza parte della sua Apologia – chi di noi andrà a stare meglio è nascosto a tutti tranne che al dio».

Penso di aver fatto proprio bene a spegnere la tv e mettermi a leggere l’Apologia.