Il topo di campagna e il topo di città
Una favola, tante storie – III

La “veccia” del topo di Orazio arriva al Novecento

«Tante storie, va bene! Ma forse troppe per un topo!» potrebbe dire qualcuno dei miei venticinque lettori ironizzando sul titolo di questo intervento e sul fatto che esso è la terza tappa (la prima si trova qui, la seconda qui) di un lungo e tortuoso viaggio letterario. È vero, le mie letture, dopo aver preso le mosse da quella che poteva sembrare una favoletta senza troppa importanza, hanno fatto parecchia strada. È stato sufficiente che, di quella favoletta, io traducessi la parola ervum con ‘veccia’, per mettere in moto una serie di relazioni tra testi letterari che nei miei interventi precedenti ho paragonato, a causa del loro andamento a zig-zag, ai movimenti della pallina di un flipper.
Finora ho seguito quei movimenti dalla Satira II, vi di Orazio e dalla traduzione che ai primi dell’Ottocento ne ha dato Antonio Pagnini, fino ai Promessi sposi del Manzoni, non senza passare da un sonetto del Burchiello e da una satira dell’Ariosto. Ora il traguardo è vicino. Ma, prima di raggiungerlo, devo passare (o meglio: mi piace passare) attraverso la lettura de Le avventure di Pinocchio: ciò che, del resto, avevo già preannunciato nel precedente intervento, quando avevo parlato delle tracce importanti lasciate dalla parola ‘veccia’ nella storia letteraria del XIX secolo. Non c’è dubbio, infatti, che Le avventure di Pinocchio siano un testo importante di quella storia.

Carlo Collodi (1826-1890; pseudonimo di Carlo Lorenzini) pubblicò questo libro nel 1883, rimaneggiando e riadattando la storia del burattino di legno che aveva già pubblicato a puntate nel 1881 sul «Giornale per i bambini». Riproduco i brani qui sotto dalle pagine della prima edizione del libro (Firenze, Paggi, 1883). Essi si riferiscono al momento in cui Pinocchio è alla ricerca di Geppetto il quale, a sua volta, si era messo in mare per cercare lui. Come giungere al mare? Pinocchio trova un aiuto insperato in un colombo che, niente meno, se lo carica sul dorso.


Cap. XXIII
Volarono tutto il giorno. Sul far della sera, il Colombo disse:– Ho una gran sete!– E io una gran fame! – soggiunse Pinocchio. – Fermiamoci a questa colombaia pochi minuti; e dopo ci rimetteremo in viaggio, per essere domattina all’alba sulla spiaggia del mare. Entrarono in una colombaia deserta, dove c’era soltanto una catinella piena d’acqua e un cestino ricolmo di veccie. Il burattino, in tempo di vita sua, non aveva mai potuto patire le veccie: a sentir lui, gli facevano nausea, gli rivoltavano lo stomaco: ma quella sera ne mangiò a strippapelle, e quando l’ebbe quasi finite, si voltò al Colombo e gli disse:– Non avrei mai creduto che le veccie fossero così buone! – Bisogna persuadersi, ragazzo mio, – replicò il Colombo, – che quando la fame dice davvero e non c’è altro da mangiare, anche le veccie diventano squisite! La fame non ha capricci né ghiottonerie!


Poco dopo, dopo una notte passata a nuotare, sempre alla ricerca di Geppetto, approdato miracolosamente su un’isola e, qui, arrivato nel “Paese delle api industriose”, Pinocchio è ancora una volta morso dalla fame:


Cap. XXIV
Intanto la fame lo tormentava; perché erano oramai passate ventiquattr’ore che non aveva mangiato più nulla: nemmeno una pietanza di veccie.


Pinocchio nella illustrazione di Enrico Mazzanti sul frontespizio dell’edizione Paggi del 1883

Le avventure di Pinocchio sono un testo tanto importante quanto popolare: è da escludere che il suo autore abbia voluto usare una parola rara. Al contrario, qui la parola ‘veccia’ compare proprio perché popolare. Il Collodi ha forse un vago ricordo della traduzione che il Pagnini aveva fatto della Satira II, vi di Orazio? È probabile. Le ‘vecce’ hanno per Pinocchio la stessa funzione che hanno per il topo di quella satira: placare la fame senza «capricci né ghiottonerie»; sono proprio il cibo povero del quale il topo di campagna si accontenta pur di vivere tranquillo. Come tanti altri intellettuali suoi contemporanei, anche il Collodi può aver letto Orazio nella traduzione del Pagnini; anzi, magari lo avrà studiato a scuola dato che aveva frequentato cinque anni di seminario a Colle Val d’Elsa e aveva completato il suo percorso di istruzione alle Scuole pie S. Giovannino di Firenze: istituti nei quali i testi del padre carmelitano Pagnini dovevano essere tra quelli più accreditati per la formazione linguistica (in latino e in italiano) e morale dei giovani. Il Collodi aveva certamente letto i Promessi sposi. E tuttavia, sia che avesse letto entrambe le opere sia che ne avesse letto una soltanto, c’è, a mio parere, un indizio che ci avverte di come l’autore di Pinocchio abbia voluto segnare una differenza rispetto a esse: l’uso della forma «veccie». Avete visto qui sopra che io ho sempre usato ‘vecce’ come forma plurale di ‘veccia’; e così pure hanno fatto, a suo tempo, il Pagnini e il Manzoni (trovate qui le rispettive citazioni). La forma ‘vecce’ è coerente con l’uso ortografico che si è venuto affermando tra Otto e Novecento e che è stato infine fissato come norma nel 1949[1]. Ma Carlo Collodi, nella prima edizione del suo Pinocchio[2], scrisse «veccie». Nessuno ha pensato finora che l’uso di questa forma fosse il frutto di una scelta stilistica. Ma, domando: se non fosse stata una scelta stilistica, perché il Collodi avrebbe scritto in quel modo? Perché era ignorante? Niente affatto. Anche per effetto della solida formazione della quale ho detto qui sopra, era un dotto cultore della lingua italiana ed era ben conosciuto come tale. Nel 1868, infatti, il ministro dell’Istruzione pubblica Emilio Broglio, quando formò una commissione di studiosi con l’incarico «di preparare tutti i provvedimenti e i modi coi quali si possa aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua», inserì il Lorenzini come «membro straordinario della giunta che avrebbe avuto il compito di compilare il vocabolario dell’uso fiorentino» [3]. Il Collodi sapeva perfettamente qual era l’uso considerato regolare per l’ortografia di quel plurale. Tanto è vero che, in quella stessa prima edizione de Le avventure di Pinocchio, rispettò quell’uso scrivendo «bucce» (parecchie volte, pp. 32 e 33), «figuracce» (p. 63), «risatacce» (p. 136). Allora, una sola conseguenza si può trarre, anche se finora non mi risulta che nessuno ci abbia pensato: che egli abbia scritto «veccie», con singolare e consapevole perseveranza, per distinguere le sue ‘veccie’ veramente popolari dalle ‘vecce’ che aveva trovato nella traduzione oraziana del “letteratissimo” sacerdote Pagnini, che pur parlava soltanto dell’alimento di un topo, e da quelle che aveva trovato nel romanzo del non meno “letterato” Manzoni, che pure aveva attribuito i discorsi in cui esse compaiono a personaggi appartenenti al popolo. Guardate dove ci porta il nostro viaggio in compagnia del topo di Orazio!

A queste considerazioni bisogna aggiungere il fatto che Carlo Collodi non fu il solo, in quel periodo, a usare la forma plurale «veccie». Niente affatto. Una ventina di anni dopo la pubblicazione de Le avventure di Pinocchio, a usare quella stessa forma fu, niente meno, un professore: professore al liceo dal 1882 e all’Università dal 1896: parlo di Giovanni Pascoli.
Siamo alla fine del 1903. Proprio all’inizio di quell’anno, il Pascoli, già molto noto per la sua raccolta Myricae (1891; arrivata nel 1996 alla terza edizione), aveva pubblicato i Canti di Castelvecchio. La sua fama non era certo inferiore a quella del suo maestro Carducci. Nel 1897 aveva pubblicato una raccolta, Poemetti, che raccontava (con molte divagazioni), in terzine dantesche, le vicende di una famiglia di contadini, padre, madre e quattro figli, due maschi, Nando e Dore, e due femmine, Rosa e Viola: una famiglia come tante altre nelle campagne tra la Toscana e la Romagna. Dopo avere già incrementato quella raccolta in una seconda edizione nel 1900, il poeta aveva deciso di ampliarla in modo consistente tra la fine del 1903 e l’inizio del 1904, modificandone anche il titolo in Primi poemetti perché aveva già in mente di aggiungere a essa una successiva raccolta di Nuovi poemetti (che sarebbe uscita nel 1909), sempre imperniata sulle vicende di quella immaginaria – ma realistica – famiglia. Una delle aggiunte ai Nuovi poemetti fu la sezione Le armi, dedicata, non agli ordigni bellici, ma agli strumenti del lavoro contadino[4]. In questa sezione si fa sentire con particolare insistenza l’intenzione del poeta di riprodurre i linguaggio popolare, intenzione già chiara nelle precedenti sezioni nelle quali, per esempio, il padre di quella famiglia colonica viene spesso chiamato «il capoccio». La sezione Le armi comincia con un verso che è già esemplare in questo senso: «”Nando!” al su’ omo disse il babbo “Nando! / […]”», dove il «su’ omo» è ‘il suo figlio maggiore’. Ma, ecco, nei versi dedicati alla «frullana», termine doppiamente popolare, se così si potesse dire[5], il riferimento a coloro che, già «prima dell’aurora» tagliano tutte le erbe del prato, di qualunque tipo esse siano:


[…]          È gente
che falcia; taglia tutto, paleino,
loglio, trifoglio, veccie, timi, mente.


In questo caso l’intenzione popolareggiante del Pascoli è evidente in tutto il brano e la forma ‘veccie’ traduce quella intenzione certamente meglio di ‘vecce’, forma ortografica della quale il professor Pascoli era certamente ben informato: tanto è vero che in altri versi della stessa raccolta scrive «brecce» e «frecce» (e così fa anche altrove). È bene aggiungere almeno tre informazioni. La prima: il Pascoli era uno che, quando si trattava di poesia latina, non aveva bisogno di traduzioni; ma non si può escludere che nei suoi studi filologici avesse letto la traduzione che delle Satire oraziane aveva fatto il Pagnini. La seconda: tanti indizi inducono a pensare che avesse letto Le avventure di Pinocchio, anche se era già trentenne quando era uscito il libro di Collodi. La terza: certamente aveva letto i Promessi sposi. Queste «veccie» derivano da qualcuna delle sue letture oppure dalla diretta conoscenza che il Pascoli aveva di tante piante, una conoscenza forse meno “professionale”, ma certo non meno approfondita di quella che, nel precedente intervento, abbiamo riscontrato nel Manzoni “fattore” della tenuta di Brusuglio? Purtroppo a questa domanda è quasi impossibile rispondere, ma il dubbio che le letture abbiano, per così dire, rinforzato la conoscenza diretta delle piante è, almeno, legittimo. Così come è legittimo pensare che anche il Pascoli, come il Collodi, abbia voluto segnare una differenza rispetto a quei precedenti e che lo abbia fatto con l’uso di una forma ortografica antiquata, sì, ma proprio per questo “popolare”.
Tutto questo sembrerebbe confermato dal fatto che il Pascoli insiste. Di «veccie» ci parla anche in un’altra opera, i Poemi conviviali, pubblicati in quello stesso 1904. In questa raccolta egli reinterpreta o rivisita, in endecasillabi sciolti, alcuni grandi miti. In particolare, nei Poemi di Psyche racconta la prima delle prove alle quali la fanciulla Psiche fu sottoposta, secondo il racconto di Apuleio (125 ca – 180 ca)[6], dopo la sua forzata separazione da Amore. Il compito al quale attende è quello di separare gli uni dagli altri vari semi mischiati in un unico grande mucchio (vd. la nota 6):


E tu devi, d’un mucchio alto di semi,
far tanti mucchi, e sceverare i grani
d’orzo, i chicchi di miglio, le rotonde
veccie, i bislunghi pippoli di rena.
E come fine polvere di ferro
sparsa per tutto il mucchio è la semenza
dei papaveri. E tu, Psyche, tu gemi
[…].
E piangi, ed ecco vengono le figlie
dell’alma Terra, frugole e succinte,
dalla pineta dove a Pan selvaggio
frangean tra gli aghi dei pinastri il suolo.
Non so chi disse alle operaie nere
di Pan la cosa. Ma si fa d’un tratto
un brulichìo per l’odorata selva;
e sgorgano esse a frotte dai minuti
lor collicelli, mentre Pan nell’ombra
s’addorme al canto delle sue cicale.
E salgono alla casa, onda su onda,
fila incessante di formiche, ed opre[
7]
vengono a te; ma prima i grani d’orzo,
pesi, e i bislunghi pippoli di vena
portano, due di loro uno di quelli;
fanno le veccie di tra il biondo miglio,
poi fanno il miglio minimo, poi vanno.
E resta a te la polvere di semi,
di cui ciascuno dal suo nulla esprima
un lungo stelo e il molle fior del sonno.


Anche qui, in un’opera nella quale, in generale, non indulge al linguaggio popolare, tuttavia il Pascoli, quando parla di erbe, lui che, come ho già ricordato, le conosceva bene e le amava, tende a indicarle con quelli che chiamerei affettuosi richiami ai modi di dire popolari: non si può considerare altrimenti una espressione come «i bislunghi pippoli di vena» che sostituisce, addirittura con un vocabolo “infantile”, «gli allungati chicchi di avena». Per questa ragione, anche nei Poemi conviviali, come nei Primi poemetti (opere, d’altronde, pubblicate quasi contemporaneamente) le «veccie» appaiono nella loro forma plurale ortograficamente non aggiornata, ma, come ho già detto, più corrispondente a un modo “popolare” di pensarla scritta.

Che viaggio abbiamo compiuto! Ma non siamo ancora arrivati al traguardo. Dobbiamo seguire un ultimo zig-zag di questa parola povera e umile come il legume che indica, eppure capace di attraversare senza stancarsi secoli di letteratura. L’ultimo zig-zag ci porta – l’avevate capito sin dall’inizio? – a Eugenio Montale.

Montale usa la parola «veccia» in una delle sue poesie più belle e famose, Meriggiare pallido e assorto, pubblicata nella prima edizione degli Ossi di Seppia (Torino, Gobetti, 1925), ma uscita in realtà già nel 1924 (nella rivista «Il Convegno»). Dato che il poeta usa «veccia» al singolare, qui non si tratta più di stabilire se il poeta abbia voluto farci vedere la forma popolare di una parola che indica un’erba: tra l’altro, l’insieme del componimento indica piuttosto chiaramente la sua volontà di usare parole rare; il contrario della scelta stilistica del Collodi e del Pascoli. Quello che importa, rispetto all’uso montaliano di questa parola, è stabilire se per caso il poeta, mentre la scriveva, non abbia avuto presente uno dei tanti testi che ho citato fin qui nei miei tre interventi sul topo di Orazio.
Partiamo da una data: il 1916. Il poeta stesso ha affermato [8] di aver composto Meriggiare pallido e assorto nel 1916. Siamo appena dodici anni dopo l’uscita dei Primi poemetti e dei Poemi conviviali del Pascoli. Proprio in quel 1916 Montale, subito dopo il suo diploma di ragioniere (1915), aveva cominciato a frequentare le biblioteche di Genova insieme a (e, forse, con la guida di) sua sorella Marianna, che stava per iscriversi alla facoltà di Lettere e Filosofia. Inutile dire che, a parte Gozzano[9], i due poeti più famosi alla cui lettura il ventenne Montale poteva pensare di dedicarsi in quelle biblioteche erano D’Annunzio e Pascoli: entrambi amanti, è bene ricordare (soprattutto il primo), del nome “meriggio” e del verbo “meriggiare”. Ma, prima di continuare, leggiamo Meriggiare pallido e assorto.


Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.


Non mi soffermo qui sull’intera poesia (potete ascoltare in questo video un mio intervento in proposito). Quello che importa, arrivati al traguardo del mio lungo viaggio a zig-zag, è verificare se la «veccia» che compare in questi versi deriva soltanto dalla osservazione che Montale fa del paesaggio e dalla sua conoscenza delle piante (che, per quanto ne sappiamo, non era minimamente paragonabile a quella del Manzoni o del Pascoli) o se invece non risenta in qualche modo di un rimbalzo proveniente da uno dei testi che abbiamo seguito fin qui.
In questo caso è il poeta stesso, il ventenne Montale imbevuto di recenti letture, a darci un indizio decisivo. La sua «veccia» ha qualcosa in comune con le «veccie» del Poema di Psyche: «le file di rosse formiche». Formiche che, nei versi pascoliani erano nere, va bene, ma che, proprio come in quei versi, sono colte nell’atto di uscire tutte insieme (Pascoli scrive: «a frotte»; Montale sottolinea le «file») da quei piccolissimi monticelli di terra che segnano il punto di accesso di un formicaio. Quei piccolissimi monticelli il Pascoli li chiama, con parola “popolare” «collicelli» e il Montale, con termine desueto e coltissimo, «biche». Ma la scena è la stessa.
Si possono avere dubbi? In questo caso non direi. Montale, forse, ha davvero visto la veccia in qualche prato incolto, ma la «veccia» che compare nei suoi versi gli viene da Pascoli, e le formiche, rosse o nere che siano, camminano, «a frotte» o in «file», niente meno, da L’asino d’oro di Apuleio. Se e così – e credo proprio che sia così – la poesia di Montale Meriggiare pallido e assorto la possiamo considerare l’ultimo bersaglio colpito da quella pallina di flipper partita quasi duemila anni prima dai versi di Orazio.

L’ultimo bersaglio? Ma no. Quella pallina sbatterà ancora chissà dove, chissà quando, chissà quante altre volte. Che bellezza!
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Il topo di campagna e il topo di città
Una favola, tante storie – II

La “veccia”: dalla mensa povera del topo di Orazio fino alla poesia del Novecento

Nel mio precedente intervento sulla VI Satira del II Libro di Orazio, a proposito di un’eco in quella satira della Bucolica III di Virgilio, ho ricordato che la storia della letteratura – e, in particolare, quella della poesia – non è una sequenza di testi, ma una interazione tra testi: è fatta di testi che si rispondono come echi, di testi che rimandano l’uno all’altro come se fossero colpiti dalla pallina di un flipper. Avevo concluso il mio intervento con la promessa che avrei seguito quella «pallina» a partire da Orazio fino ad arrivare al XX secolo. Ecco: mantengo qui la mia promessa. In questo caso la molla che spinge la «pallina» è la traduzione della parola ervum con l’italiano ‘veccia’. Questa parola, che forse in molti di voi risuona per il ricordo, magari non esplicito, di un verso famosissimo di un poeta del Novecento (che per ora non vi rivelo), percorre vie impensabili nel corso dei secoli. Per seguirle avrò bisogno di due puntate: quindi, alla fine, gli interventi sul topo di Orazio saranno tre.

Ho già avvertito nel precedente intervento che nella mia traduzione io ho usato la parola ‘veccia’ perché ho voluto adottare lo stesso termine usato più di due secoli fa da Antonio Pagnini [10].
Vi assicuro che non si è trattato di un vezzo intellettualistico: ecco, in particolare, le ragioni della mia scelta. Ervum indica in latino varie leguminose, tra le quali anche la lenticchia. Tuttavia, in nessuno dei due luoghi che ho citato, la VI Satira del II Libro di Orazio e la Bucolica III di Virgilio, è possibile pensare che i poeti vogliano alludere alle lenticchie. Infatti, come abbiamo visto, Orazio attribuisce al topo gusti umani e parla di ervum come di un cibo povero di sostanza (tenue) mentre le lenticchie non lo sono affatto. Virgilio parla addirittura di ervum come di un alimento per bovini ed è escluso che le lenticchie potessero essere utilizzate, allora e mai più, in quel modo. “Veccia” indica in italiano proprio un genere di leguminose povere e prevalentemente destinate all’alimentazione animale. Se non è la stessa erba alla quale pensava Orazio, almeno le assomiglia molto. ‘Veccia’ è un termine che, nella storia della nostra lingua, è rimasto a lungo circoscritto al linguaggio popolare e a quello tecnico dell’agricoltura (e, in questo ambito, è usato ancora oggi): di conseguenza era quasi del tutto sconosciuto alla letteratura italiana “colta” fino a quel 1814. E dopo? Le cose sono cambiate, ma non dobbiamo avere fretta: cominciamo dal principio.

Il primo testo letterario italiano – naturalmente non “colto” – in cui è presente questa parola potrebbe essere un sonetto caudato di Domenico di Giovanni (1404-1449) il barbiere poeta fiorentino noto come il Burchiello. Ahi! Ci troviamo in un bel guaio. Infatti ho usato il condizionale. Proprio perché “popolare”, molto popolare, l’opera del Burchiello ha costituito per un bel po’, ai suoi tempi e per qualche secolo, una specie di “cassa comune” poetica dalla quale attingere e nella quale versare i più svariati componimenti purché fossero scritti “alla burchiellesca”. «[…] il nome di Burchiello divenne quello di uno stile e i copisti cessarono presto di distinguere tra imitatori e imitato», ha scritto, con una sintesi perfetta, Claudio Giunta [11]. Il sonetto al quale io mi riferisco, Io vidi un dí nel Serpilongo un fosso, compare, al posto CCCII, in una fortunata edizione settecentesca, Sonetti del Burchiello, del Bellincioni e d’altri poeti fiorentini alla burchiellesca, Londra, 1757 (senza indicazione dell’editore, ma in realtà pubblicato in Toscana, probabilmente a Lucca: Londra come sede di pubblicazione serviva per evitare i problemi di censura del Granducato). Come si vede già dal titolo, anche questa raccolta è un’opera collettiva e non è ben chiaro in che modo sia stata attribuita al Burchiello la paternità di alcuni sonetti e non di altri e viceversa. L’edizione critica curata venti anni fa da Michelangelo Zaccarello [12], basata sulla cosiddetta Vulgata quattrocentesca (la più autorevole edizione del XV sec., del 1481) , non riporta, tra gli altri, proprio questo sonetto. Lo stesso vale anche per le altre edizioni quattrocentesche che io sono riuscito a consultare. La conseguenza che se ne può trarre è la seguente: il sonetto (che non si sa da chi sia stato scritto), a un certo punto (ma quando? Anche questo è incerto), è entrato nella tradizione burchiellesca e l’edizione del 1757 non è andata evidentemente troppo per il sottile e lo ha attribuito al Burchiello in persona. I versi che ci interessano si riferiscono a un gruppo di poveracci che vendono legna per pochi soldi:


Così la mala povertà gli doma,
di verno scalzi, e pochi panni addosso:
pan di saggina, di miglio, e di vecce,
son le vivande della pecorella [
13],
[…]


Ecco: in questi versi la veccia è uno degli ingredienti di un pane che contiene di tutto tranne il grano. Cibo dei poveri. Non sappiamo, come ho chiarito sopra, se questi versi siano proprio del Burchiello, ma non dimentichiamo che sono versi a lui attribuiti in una edizione settecentesca molto diffusa. Non dimentichiamolo, perché tra poco ci torneremo.

Nel frattempo parliamo della presenza del termine «veccia» in un’altra opera, questa volta di un autore della letteratura “colta”: dell’Ariosto. L’opera alla quale mi riferisco è la sua II Satira, scritta nel 1517. Date le perplessità che ho espresso prima, magari è proprio questa la prima volta che la ‘veccia’ si trova in un testo della letteratura italiana. Dunque, la ‘veccia’ compare, come l’ervum, in una satira: uno di quei componimenti nei quali l’Ariosto si richiama direttamente proprio a Orazio con citazioni e rimandi a volte espliciti, a volte più nascosti, ma comunque segno di un costante riferimento a un vero e proprio modello; uno di quei componimenti, bisogna aggiungere, nei quali il linguaggio popolare, naturalmente come citazione scherzosa, non solo non era escluso, ma anzi era richiesto dal genere. Nella II Satira, indirizzata al fratello Galasso, il poeta se la prende con tutti i gradi della carriera ecclesiastica, dal chierico al papa. Proprio lui che stava per recarsi a Roma per ottenere i benefici economici di una parrocchia, ma, questo era il punto, senza l’obbligo del sacerdozio [14]. Ebbene, all’interno di questa sua invettiva anticlericale, l’Ariosto afferma che, quanto più è ricco, tanto più chi ricopre alti gradi ecclesiastici «assottiglia / la spesa» e, di conseguenza, i suoi servi sono ridotti oltre che a mangiar meno carne, ad adattarsi «al pan di cui la veccia / nata con lui, né il loglio fuor si cribra» <[15]. Ancora una volta la fame dei poveri: e il pane fatto con ingredienti che non riescono a spegnere quella fame.

Ma torniamo al Pagnini. Questo è il momento giusto per leggere la sua traduzione degli ultimi versi della Satira II, vi di Orazio:


[…] Cotesta vita
non fa per me. Te la rinunzio [
16]. Il bosco
e la mia tana da’ perigli immune
di secche vecce mi faran contento.


Non è del tutto escluso che il Pagnini abbia tradotto il tenue ervum oraziano con «secche vecce» perché aveva trovato questo termine in un trattato di mezzo secolo prima, Delle specie diverse di frumento e di pane, e della panizzazione, pubblicato nel 1765, con un certo successo, da Saverio Manetti. Ho già accennato al fatto che il termine, oltre che al linguaggio popolare, apparteneva anche a quello tecnico dell’agronomia. Tuttavia, è assai probabile che, per preparare il proprio stile alla traduzione delle Satire di Orazio, il Pagnini abbia letto quelle dell’Ariosto e, pur avendo preferito l’endecasillabo sciolto rispetto all’uso ariostesco della terzina per questo genere poetico, non abbia però dimenticato certi momenti particolarmente intensi di quella sua lettura. Di certo l’attacco anticlericale della II Satira era uno di quelli difficili da dimenticare, soprattutto in considerazione del fatto che il Pagnini era un sacerdote dell’Ordine dei Carmelitani! Per la stessa considerazione sorvolerei sulla eventualità che il Pagnini abbia letto i Sonetti del Burchiello, del Bellincioni e d’altri poeti fiorentini alla burchiellesca, ciò che è possibile, ma che avrebbe comportato altri seri problemi di coscienza. Di una cosa però possiamo essere certi: che, dopo quella sua traduzione (attenzione, non ho detto: “a causa di quella sua traduzione”, ma soltanto “dopo”) il termine ‘veccia’, nella forma singolare o plurale, lascia tracce importanti nei testi della nostra letteratura. E, se dico importanti, un motivo c’è.

Le prime due tracce le troviamo infatti, niente meno, nei Promessi sposi, già nell’edizione del 1827 e, con piccole varianti, in quella del 1840. Di «veccia» o «vecce» il Manzoni parla nel cap. XII (quello, per intenderci, della cosiddetta “rivolta del pane” al culmine della carestia) e nel cap. XXIV (quello nel quale Lucia viene liberata dopo la conversione dell’Innominato). Nel cap. XII chi parla è uno dei manifestanti; nel XXIV è la «buona donna» che don Abbondio ha condotto ad assistere Lucia al momento della liberazione e che subito dopo, l’ha portata a casa sua e le ha generosamente preparato da mangiare Leggiamo:
Ed. 1827


Cap. XII
«Baroni!» sclamava un altro: «si può far di peggio? sono arrivati fino a dire che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per torgli il credito, e comandare essi soli. Bisognerebbe fare una gran capponaia, e cacciarveli dentro, a vivere di veccia e di loglio, come volevano trattar noi.»
Cap. XXIV
«Tutti s’ingegnano oggi a metter tovaglia,» aggiugneva: «fuor che quei poveretti che stentano ad aver pane di veccia e polenta di saggina; però oggi da un signore così caritatevole sperano di buscar tutti qualche cosa. Noi, grazie al cielo, non siamo in questo caso: tra il mestiere di mio marito, e qualche cosa che abbiamo al sole, si campa.»


Ed. 1840


Cap. XII
«Scellerati!» esclamava un altro: «si può far di peggio? sono arrivati a dire che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per levargli il credito, e comandar loro soli. Bisognerebbe fare una gran capponaia, e cacciarveli dentro, a viver di veccia e di loglio, come volevano trattar noi.»
Cap. XXIV
«Tutti s’ingegnano oggi a far qualcosina,» aggiungeva: «meno que’ poveri poveri che stentano a aver pane di vecce e polenta di saggina; però oggi da un signore così caritatevole sperano di buscar tutti qualcosa. Noi, grazie al cielo, non siamo in questo caso: tra il mestiere di mio marito, e qualcosa che abbiamo al sole, si campa. […]»


Lucia in una illustrazione del cap. XXIV dei Promessi Sposi realizzata per l’ed. 1840 da Francesco Gonin

Due osservazioni è necessario fare sull’uso manzoniano della parola ‘veccia’.

La prima, piuttosto semplice, riguarda il fatto che, come forse pochi sanno, il Manzoni era un espertissimo “fattore” che aveva studiato, approfondito e applicato, in particolare nella sua tenuta di Brusuglio, i metodi di coltivazione di moltissime piante, da quelle da giardino a quelle da frutta alla vite. In particolare, per quanto riguarda cereali e foraggi e l’alternanza di queste colture, collaborava con la famiglia di mons. Luigi Tosi (la sua guida spirituale a Milano dopo la conversione) ai lavori per la bonifica di terreni aridi nella zona di Malpensa. Quindi, quando parlava di ‘veccia’ sapeva benissimo di che erba si trattava [17]. Si può ben dire, letteralmente, che il Manzoni conoscesse la botanica dalla a alla zeta, poiché aveva studiato la nomenclatura di Carlo Linneo e lavorò per gran parte della sua vita al progetto di un Saggio di una nomenclatura botanica [18] che aveva addirittura l’ambizione di superare la classificazione linneana.

La seconda osservazione riguarda proprio il testo dei due passi dove compare la ‘veccia’ (nella forma singolare o plurale).
Nel cap. XII si parla di gran signori che meriterebbero di «viver di veccia e di loglio», proprio come loro avrebbero voluto far vivere i poveracci. A nessuno può sfuggire come l’associazione della veccia e del loglio richiami da vicino i versi ariosteschi che prima ho citato. Il Manzoni, che certamente li conosceva, li aveva in mente quando ha messo quelle parole in bocca a un popolano? È probabile: il riferimento sociale determinato dal contrasto ricchi-poveri, è assai simile. È difficile non pensare che la pallina, dalla II Satira dell’Ariosto sia schizzata al cap. XII dei Promessi sposi.
Nel cap. XXIV si parla proprio di pane. Come il Manzoni ci racconta nelle righe precedenti a quelle che ho trascritto qui sopra, la donna che aiuta Lucia e che sta per offrirle «un buon cappone» ricusa, «con un certa rustichezza cordiale, i ringraziamenti e le scuse» che la stessa Lucia rinnova ogni tanto. Il ragionamento della buona donna è, in sostanza, questo: altri hanno problemi; io e la mia famiglia no; quindi Lucia non stia a preoccuparsi. Chi ha dei problemi? Beh, ma quelli che stentano persino ad avere «pan di vecce e polenta di saggina». Qui, anche se nel testo manzoniano si intromette il riferimento alla polenta, la vicinanza delle vecce e della saggina – voce schiettamente toscana per una graminacea che in italiano si chiama sorgo e in Lombardia è detta melega – fa subito pensare al Burchiello. Un Burchiello che doveva essere noto al Manzoni già prima del suo cosiddetto “risciacquamento dei panni in Arno”, dato che, sia pure con ‘veccia’ al singolare, la frase compare nell’ed. del 1827. Questa volta la presenza della ‘saggina’ basterebbe da sola a togliere ogni dubbio. Ma c’è un particolare decisivo: se andiamo a dare un’occhiata ai libri posseduti dal Manzoni – sorpresa! O forse no? – troviamo l’edizione del 1757 dei Sonetti del Burchiello, del Bellincioni e d’altri poeti fiorentini alla burchiellesca[19]. Quell’edizione, indipendentemente dalla sua correttezza filologica, aveva fatto rimbalzare proprio bene la pallina di quel flipper del quale ho detto, per metafora, all’inizio di questo intervento questo intervento.

Ho parlato di tracce importanti del termine ‘veccia’ nella letteratura italiana dai primi dell’Ottocento in poi. E, dopo quelle che abbiamo trovato nei Promessi sposi, non vi sembrano forse importanti anche quelle che troviamo in Pinocchio? Importantissime, direi, dato l’immediato e straordinario successo di pubblico che ha avuto quel libro. Tanto importanti che, con il ritrovamento di queste tracce, avvierò il mio terzo intervento su quello che ormai chiamo familiarmente il topo di Orazio.

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Il topo di campagna e il topo di città
Una favola, tante storie – I

Orazio: quei topi così umani!

Quinto Orazio Flacco, del quale molti hanno sentito il nome e che qualcuno ha studiato a scuola, è un poeta vissuto tra il 65 e l’8 a.C. La VI Satira del II Libro, della quale vi propongo qui sotto alcuni versi, è del 30.
Otto anni prima Orazio era stato presentato a Mecenate, il potente consigliere di Augusto. Indovinate da chi? da Virgilio e dal suo amico Vario Rufo: un bel gruppetto, non c’è che dire. Comunque, subito dopo essere stati presentati, i due erano diventati grandi amici. Certo, amici con una bella differenza di potere e di ricchezza, ma amici. Orazio nel 37 aveva accompagnato Mecenate in una missione non facile anche se poi andata a vuoto; Mecenate, intorno al 33, gli aveva regalato una villa in Sabina.
Questo regalo, ricchissimo e graditissimo, provocò tuttavia un problema: il piacere di abitare in campagna finì per superare nel poeta quello di stare in città. Come racconta nella prima parte della Satira (il testo completo si trova qui), non si trattava soltanto di un generico malcontento per la vita frenetica che si conduceva a Roma. Dell’amicizia di Orazio e Mecenate ormai tutti erano al corrente: da qui invidie, richieste di raccomandazione, di favori per interposta persona. Insomma il povero poeta non ne poteva più. O almeno, nella prima parte della sua Satira, dice così. Nella seconda parte ecco un altro mondo: quello delle conversazioni tra vicini in campagna. Sono tranquille, non riguardano gli affari della città, ma i valori della vita. Uno dei vicini, Cervio, racconta le favolette della nonna e, quando qualcuno esalta le ricchezze di un noto possidente, questo Cervio racconta la favola che potete leggere (con un piccolo taglio) qui sotto con la mia traduzione.

Quinto Orazio Flacco, VI Satira del II Libro (vv. 79-95 e 111-117)
Traduzione di Michele Tortorici


Ospitò – si racconta – una volta un topo di campagna
nel suo povero buco un topo di città, un vecchio amico che l’aveva
a sua volta ospitato. Attento
al suo faticato gruzzoletto, il primo
sapeva aprire però il suo meschino animo
all’ospitalità. A farla breve, i ceci
che aveva messi da parte non li risparmiò e neppure
i lunghi chicchi d’avena, anzi
portò con la sua stessa bocca all’altro
acini d’uva secca e bocconcini
di lardo già in parte mangiati perché voleva con tanti e così vari
alimenti vincere
il disgusto di quello che toccava sì e no i singoli cibi con il suo
gusto difficile. Intanto lui, il padrone di casa, disteso
sulla paglia fresca, lasciava
il meglio del pranzetto e mangiava, di suo, la spelta e il loglio.
A lui, infine, si rivolse il topo di città: «Ma ti piace, amico,
sopportare questa vita su un pizzo boscoso di montagna?
Perché non preferisci, piuttosto che i boschi,
le città e la compagnia degli uomini?
Vieni via, fidati, ai terrestri
in sorte son capitate anime mortali: nessuno
grande o piccolo, può sfuggire alla morte.

[Insomma, con un invito a godere apparentemente oraziano (poi vedremo perché non davvero oraziano) il topo di città convince il suo amico campagnolo a seguirlo. Si mettono in viaggio, passano di notte le mura della città, e arrivano a una casa lussuosa: drappi rossi, divani d’avorio, avanzi di cibo abbondanti. Il topo di città fa gli onori di casa, e quello di campagna si gode questa inversione di ruoli. Però … riprendiamo la lettura del testo oraziano]

[…] Ed ecco, all’improvviso
un picchiare di porte li sbatte tutti e due giù dai divani
e, via, correre spaventati per tutta la sala, più ancora
senza fiato inorridire quando la casa prende a risuonare di latrati
di cani molossi. Subito allora il topo di campagna: «Questa vita
– disse – non fa per me. Stammi bene: compenserò
con la vita nel bosco e con il mio buchetto, sì,
ma al sicuro dai pericoli la poca sostanza della veccia.


La statua di Orazio a Venosa, sua città natale: è opera di Achille D’Orsi (1898),

Nella mia traduzione in versi liberi ho cercato di rendere al massimo la scorrevolezza narrativa degli esametri delle Satire oraziane e di questa in particolare. Orazio scrisse anche altre poesie satiriche, che chiamò Giambi, dal metro che aveva prevalentemente usato: un metro più dinamico e aggressivo. Ma questi componimenti che noi chiamiamo Satire (e a causa dei quali Dante stesso, quando parla di Orazio, dice «Orazio satiro»), in realtà lui li aveva chiamati Sermones, cioè “Conversazioni”.
Vediamo di capire meglio, perché è importante. Un letterato vissuto tra il II e il I secolo a.C., Marco Terenzio Varrone, nel suo trattato Sulla lingua latina (composto tra il 47 e il 44 a.C.: quindi proprio nel periodo del quale stiamo parlando) scrive: «Sermo, opinor, est a serie, unde serta; etiam in vestimento sartum, quod comprehensum: sermo enim non potest in uno homine esse solo, sed ubi oratio cum altero coniuncta» [Sermone ritengo che abbia la stessa origine di serie, da cui anche i serti; e sartum si dice nei vestiti ciò che è cucito. Infatti il sermone non può riguardare un uomo solo, ma si ha quando un discorso coinvolge anche un altro]. Dunque, quelle che noi chiamiamo Satire, in realtà per il loro autore, non erano altro che “conversazioni”: i sermones, come ci dice Varrone, non si fanno mai da soli.
Nei versi che avete letto qui sopra è un amico che, come abbiamo visto, racconta agli altri amici ciò che lui stesso ha sentito dalla nonna. I versi con i quali comincia e finisce la favola hanno lo stesso tipo di piedi, cioè di unità ritmiche, e perciò suonano allo stesso modo. Il poeta ci introduce e ci fa uscire dal suo sermo con lo stesso suono, fa un cenno d’intesa al lettore, come se gli dicesse: «Ecco, lo senti? Ormai ci conosciamo bene».
Naturalmente, va chiarito subito che la favola non è affatto della nonna di Cervio. È di Esopo, un autore che, dal VI secolo a.C. (epoca nella quale visse) fino a oggi, ha ispirato l’intero genere favolistico dell’Occidente.
Visto che stiamo parlando di satire, vale la pena di aprire qui un breve inciso per ricordare che Ludovico Ariosto, nella sua I Satira, riprende anche lui una Favola di Esopo, quella su La volpe con la pancia piena (Fav. 30 ed. Chambry): favola che, a sua volta, proprio Orazio aveva ripreso in una sua Lettera a Mecenate (Ep., I, 7). Si tratta della favola sull’animale affamato che adocchia il cibo in un posto stretto e, dopo aver mangiato, non riesce più a uscire perché ha, appunto, «la pancia piena». La volpe di Esopo diventa una donnola in Orazio e un asino nell’Ariosto. E qui ci troviamo in uno di quegli intrecci di testi che costituiscono uno degli assi portanti della letteratura e, in particolare, della poesia. La storia della quale non è una sequenza di testi, ma una interazione tra testi: è fatta di testi che si rispondono come echi, di testi che rimandano l’uno all’altro come la pallina di un flipper.
Bene, chiuso l’inciso, ritorniamo alla VI Satira del II Libro di Orazio e diciamo che si tratta di un esempio strepitoso di queste interazioni. La Favola di Esopo alla quale essa si ispira, in prosa, è molto stringata, non scende nei particolari né della povertà del topo di campagna né della ricchezza del topo di città. Orazio la riprende e, al tempo stesso, la ricrea. Offre così al mondo un nuovo, straordinario modello: si ispireranno a questa favola, oltre a La Fontaine (1621-1695), per dire solo dei casi più noti in Italia, Carlo Porta in un testo rimasto inedito e lacunoso ma dove comunque c’è un gatto al posto dei molossi, e Trilussa, che ne fa un apologo sulle punizioni riservate ai poveri e non ai ricchi: ciascuno riprende la favola con la sua piccola o grande novità e ciascuno, trattandosi del Porta e di Trilussa, con il suo dialetto.
In un prossimo intervento riprenderò il tema dei rimandi ad altri testi: la pallina del flipper, secondo la metafora – volutamente anacronistica – che ho usato. Ora invece mi fermo a spiegare perché ho parlato prima di un invito solo «apparentemente oraziano» quando mi sono riferito ai versi:


Vieni via, fidati, ai terrestri
in sorte son capitate anime mortali: nessuno
grande o piccolo, può sfuggire alla morte.


Nelle parole del topo di città c’è, è vero, un invito a godere la vita, che è breve. Orazio riecheggerà anni dopo, nelle Odi, questi suoi versi: il topo di città dice infatti a quello di campagna: «Cārpĕ vĭam», cioè, ho tradotto, «Vieni via», più letteralmente, “mettiti per strada”. Ma il suono è lo stesso del famosissimo «Cārpĕ dĭem»: si tratta di un dattilo (costituito una sillaba lunga e due sillabe brevi con l’accento – arsi – sulla prima lunga) seguito dall’arsi del verso successivo. È probabile che Orazio nell’Ode I, 11, quella dedicata a Leuconoe e che contiene quella espressione ormai diventata proverbiale, volesse far sentire ai suoi lettori un’eco della favola che aveva raccontato in questa VI Satira. Tuttavia, c’è da osservare che nella satira, e nella favola che la conclude, Orazio critica le ricchezze; però, qui è proprio il topo ricco a dire al povero «Carpe viam». Invece, nell’Ode alle ricchezze non si accenna neppure e l’unico tema che conta è quello della brevità della vita: questo, sì, è un atteggiamento propriamente oraziano.

Ed eccoci di nuovo, come avevo promesso, alla pallina del flipper: al rapporto tra testi letterari fatto di parole che schizzano di qua e di là. C’è una parola di questa VI Satira, l’ultima, la cui storia di bing-bong merita di essere raccontata. Nella conclusione di questo intervento ne racconto solo la prima parte; in un prossimo intervento, che già prima ho annunciato, vedremo quali percorsi riuscirà a compiere la parola in questione nel corso dei secoli, fino al XX.

La veccia

La parola alla quale mi riferisco è ervo, da ervum: io ho tradotto “veccia”, così come ha tradotto nel 1814 Antonio Pagnini [10]. In effetti l’ervo è una famiglia di leguminose che comprende, per esempio, la lenticchia, ma anche la veccia, un legume selvatico.
Per Orazio è un legume dalla «poca sostanza», come avete letto: e questo esclude di poter tradurre qui ervum con ‘lenticchia’. Ma la veccia ha davvero così «poca sostanza»? Non preoccupatevi, non voglio affrontare una discussione biologico-nutrizionista. Voglio solo richiamare il fatto che il contemporaneo e (come abbiamo visto prima), amico di Orazio, Virgilio, quando parla dello stesso legume, nella Bucolica III, fa dire invece a un pastore a proposito del suo toro: «Heu, heu! quam pingui macer est mihi taurus in ervo! [Ma guarda! quanto è magro il mio toro, benché stia in mezzo alla grassa veccia!]. La differenza non è di poco conto: i due aggettivi riferiti dai due poeti all’ervum hanno significati diametralmente opposti. L’ervum (riporto tutto al caso nominativo) di Virgilio è pingue, cioè grasso e nutriente; quello di Orazio è tenue, cioè povero e poco sostanzioso.
La questione – è evidente – non riguarda la sostanza della veccia, poca o molta, ma il contesto poetico. Nei versi di Virgilio, chi descrive la veccia come grassa è un contadino: sia pure un contadino idealizzato impegnato in una gara arcadico-poetica con un suo compagno di lavoro. Orazio conosceva benissimo le Egloghe di Virgilio (pubblicate nel 38, proprio quando i due poeti avevano stretto in modo indissolubile la loro amicizia) e quindi conosceva certamente anche queste parole: non dimentichiamo mai che a quei tempi (e poi ancora per molto) i testi poetici venivano trasmessi oralmente e le loro trascrizioni servivano agli studiosi. Ma, nonostante il ricordo virgiliano, nei suoi versi Orazio fa sì che il topo di campagna guardi alla veccia, non con la sensibilità dei suoi simili (animali piccoli e grandi), ma con una sensibilità squisitamente umana. Questo è, d’altro canto, il carattere proprio delle Favole di Esopo alle quali Orazio si ispira: i personaggi di quelle Favole hanno, sì, apparenza di animali, ma sono, a tutti gli effetti, uomini. Insomma, i topi di Orazio, benché animali, pensano come uomini e per loro l’ervum è decisamente tenue. Il contadino di Virgilio, benché impegnato in una gara poetica, ha ben presente invece con quale soddisfazione gli animali gustavano il pingue ervum: lui sa bene che il suo toro è magro per l’eccessiva attività amorosa e non certo perché l’ervum non sia sostanzioso.

Nel caso che abbiamo appena visto, la pallina del flipper è tornata un po’ indietro: dal 30 a.C., data di composizione della Satira di Orazio, al 38, data di pubblicazione delle Egloghe virgiliane. Nel prossimo intervento la vedremo schizzare parecchio in avanti, fin quasi ai nostri giorni. A presto.

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Una traduzione da Walt Whitman

Vi faccio gli auguri per questo anno appena cominciato con dei versi di Walt Whitman che credo non siano mai stati visti come versi capaci di esprimere un augurio e che il poeta stesso non ha certo pensato come tali.

Difatti, quella che vi propongo non è una poesia festaiola, ma quale augurio più bello posso farvi rispetto a quelle parole che il poeta americano ha riferite a se stesso, anche se le ha messe, come per troppa modestia, tra parentesi: «Sono ampio, contengo moltitudini»?

“Contenere” moltitudini è molto più che “accoglierle”.
È unirsi all’universo animato: fino a unirsi proprio a quelle “foglie d’erba” che danno il titolo al grande libro di Whitman e dalle quali il poeta dichiara di voler rinascere nel componimento immediatamente successivo a quello che vi allego, il n. 52: il componimento che conclude il Canto di me stesso. Vi auguro di “essere ampi”, di saper “contenere moltitudini”.

Walt Whitman, Canto di me stesso, 51 (versione del 1892), in Foglie d’erba, vv. 1043-1148


The past and present wilt—I have fill’d them, emptied them,
And proceed to fill my next fold of the future.

Listener up there! what have you to confide to me?
Look in my face while I snuff the sidle of evening,
(Talk honestly, no one else hears you, and I stay only a minute longer.)

Do I contradict myself?
Very well then I contradict myself,
(I am large, I contain multitudes.)

I concentrate toward them that are nigh, I wait on the door-slab.

Who has done his day’s work? who will soonest be through with his supper?
Who wishes to walk with me?


Traduzione di Michele Tortorici


Il passato e il presente sfioriscono – li ho riempiti, li ho svuotati.
E insisto: riempirò la mia prossima piega del futuro.

Ascoltatore lassù! Che cosa devi confidarmi?
Guardami in faccia mentre annuso la sera che viene di soppiatto,
(Parla con franchezza, nessun altro ti ascolta e io resto non più di un minuto.)

Mi contraddico?
Benissimo, mi contraddico.
(Sono largo, contengo moltitudini.)

Mi concentro verso quelli che sono vicini, aspetto sulla porta.

Chi ha finito la sua giornata di lavoro? Chi farà prima con la sua cena? A chi piace camminare con me? Parlerai prima che me ne vada? O ci proverai quando sarà già troppo tardi?


Vi auguro di essere pronti sempre a dire la vostra prima che sia troppo tardi. E spero in un 2019 di serenità e di soddisfazioni per tutti voi.

 

Come finiscono i Baccanali

Nel mio recente poemetto Piante del mio giardino, in alcuni versi rivolti alle piante ma chiaramente dedicati ai miei simili, spiego che i baccanali, le feste del superamento del limite (nel caso specifico parlo dell’allegra incoscienza con la quale l’umanità procede verso un insostenibile riscaldamento del pianeta), hanno sempre una fine nefasta. Per farlo ricordo in quei versi che, «come ci ha spiegato tanto tempo fa / Euripide», i baccanali sono feste che accompagnano «la decapitazione / del futuro, […] / la madre che uccide il figlio e che ne porta / la testa mozzata sulla picca». Queste parole terribili, che le mie piante non hanno preso affatto bene e che i miei simili hanno forse lette (quei pochi che le hanno lette) distrattamente, sono una sintesi di ciò che effettivamente accade in una delle ultime tragedie scritte da Euripide, le Baccanti, rappresentata soltanto nel 403 a.C., dopo la morte del suo autore avvenuta nel 406.
Giorni fa, mentre leggevo sui giornali la notizia di una festa notturna di deputati e senatori inneggianti all’aumento del debito pubblico italiano, mi è tornata in mente quella tragedia. Successivamente, la lettura su Twitter di un commento a quell’episodio, «E gli sventurati festeggiarono», mi ha confermato quel ricordo e, insieme a esso, ha potenziato dentro di me il senso di quella tragedia, che va ben al di là di certi eventi, in sé tanto modesti. Già: «Gli sventurati».

Di solito, proprio con questo aggettivo, «sventurato», si traduce in italiano il termine greco ‘τλήμων’ (tlèmon), la cui radice proto-indo-europea, *telə– o *tla-, si può trovare sia nel verbo greco τλὰω (tlào), sia nei verbi latini tolero e tollo, nonché nelle forme irregolari del perfetto e del supino di fero, tŭli e latum, quest’ultima da *tlatum. Insomma, ‘τλήμων’ è colui che porta, che sopporta ciò che di terribile egli stesso fa, e perciò ‘τλήμων’ può prendere a volte il senso di ‘scellerato’, o ciò che di terribile altri fanno. Ora, Euripide usa ‘τλήμων’ per definire, nella parte conclusiva delle Baccanti, due personaggi, Agave e Penteo, entrambi vittime della follia indotta da Dioniso, ma ciascuno di essi in maniera molto diversa.

Il ballo delle Menadi.
Copia romana di un originale greco del V secolo a.C.
Madrid. Museo del Prado.

Vediamo di che si tratta. In questa tragedia Euripide mette in scena un episodio relativo al mito della fondazione di Tebe.
Cadmo, fondatore della città, aveva avuto solo figlie femmine: Agave, Ino, Autonoe e Semele. Aveva quindi nominato come successore al trono suo nipote Penteo, figlio di Agave. Un’altra delle figlie di Cadmo, Semele, amata da Zeus – violentata? Forse sì, forse no –, una volta rimasta incinta, era stata convinta da Era, sorella e moglie gelosissima di Zeus, a chiedere di poter vedere il suo amante in tutto il suo splendore divino. Era rimasta, naturalmente, incenerita. Ma Zeus era riuscito a salvare il feto dal suo grembo e a farlo sviluppare, al sicuro dalle vendette di Era, cucendolo nella sua coscia. Nacque così Dioniso.
Il nuovo dio fu il benemerito scopritore del vino, del sidro e della birra. Oltre a ciò, pretese di essere anche il meno benemerito promotore di ogni stato di coscienza eccitata (o addirittura di in-coscienza) che spingesse gli uomini e soprattutto le donne (considerate all’epoca esseri un po’ inferiori e perciò più facilmente eccitabili) a superare il proprio limite umano per diventare pienamente possesso del dio. Dioniso era anche un po’ vendicativo e odiava, in particolare Tebe. Qui in molti erano convinti che Semele avesse finto di essere stata sedotta da Zeus per nascondere un peccato molto più banale e totalmente umano. In primo luogo, ne erano convinte le sue sorelle: anche allora, parenti serpenti. Non tutti, inoltre, erano propensi a dare il benvenuto a questa nuova divinità che pure si diceva fosse stata concepita a casa loro. Tra i più testardi a negare che il feto di Semele si fosse sviluppato nella coscia di Zeus e fosse ormai un nuovo dio c’era Penteo.
Qui comincia la tragedia. Dioniso, con la sua voglia di vendetta, arriva a Tebe nelle vesti di uno straniero bellissimo e capace di compiere miracoli, si beffa dei tentativi di Penteo di arrestarlo e, infine, conquista addirittura la sua fiducia fino a far sì che sia lo stesso re di Tebe a chiedergli aiuto per andare a vedere i riti delle menadi: le ‘μαινάδες’ (mainàdes), sinonimo di baccanti, dalla stessa radice del verbo μαίνομαι (màinomai) che significa sia “delirare” sia “far delirare”; infatti le menadi delirano perché Dioniso le fa delirare. Penteo, consigliato dal finto straniero, si veste da donna, si mette una benda in testa che nasconda il taglio maschile dei capelli e, accompagnato dallo stesso finto straniero e da un servo si reca in una valle al di là del monte Citerone dove le donne tebane sembrano intente a lavori leggiadri e a innocui canti. Penteo vuol vedere meglio che cosa fanno le menadi. Ed ecco che cosa succede, nel racconto che fa il servo, appena tornato, sconvolto, da quella valle. Nelle sue parole ben tre volte compare ‘τλήμων’ che, nella traduzione, sottolineo in grassetto. La traduzione stessa (che trascrivo con qualche taglio), in versi liberi, è mia.

Euripide, Baccanti, vv. 1043-1148
Traduzione di Michele Tortorici


Penteo, sventurato, che non vedeva quella moltitudine
di donne, disse all’altro: «Straniero, da dove
siamo non raggiungo con gli occhi le malvagie
menadi; se salgo
su un colle o su un abete alto, allora sì potrò
posare il mio sguardo sulle turpitudini
delle menadi».
Ed ecco vedo compiere dallo straniero un’impresa
meravigliosa; preso
il più alto ramo di un abete che arrivava
al cielo, lo tendeva
giù, lo tendeva, lo tendeva fino al suolo nero; […].
Messo a sedere Penteo sul ramo dell’abete, attento
che lui non fosse sbalzato via, lasciò
che piano piano si rialzasse l’albero tra le sue mani, e l’abete
ritornò saldo e alto nell’alto
cielo mentre aveva, seduto sulla sua cima, il mio padrone.
Fu visto, piuttosto che vedere lui le menadi; difatti
si distingueva proprio bene, lui, messo
a sedere lassù, mentre da parte sua non vedeva,
benché fosse lì presente, lo straniero. E a un cero punto
dall’etere una voce,
che doveva essere quella di Dioniso, gridò: «Fanciulle,
ecco, vi porto quello
che di voi, di me, delle orge si permette
di ridere; fate che la paghi».
Mentre diceva così, davanti al cielo e davanti
alla terra brillò il fuoco di una luce sacra. L’aria
divenne muta, mute
restarono le foglie
della valle boscosa e neppure
si sentivano strida di animali selvatici.
[…]; non appena
riconobbero con chiarezza l’incitamento di Bacco, le figlie
di Cadmo, si slanciarono: avevano
i piedi veloci non meno
di colombe quando si protesero nella corsa: la madre
Agave e quelle che avevano il suo stesso sangue e tutte
le baccanti, attraversato
il corso d’acqua sul fondo valle, balzavano
sui dirupi rese furenti dall’influsso del dio.
Quando videro
il mio padrone seduto sull’albero, prima,
appostate davanti a lui su uno sperone
di roccia, lo colpirono
con pietre tirate a tutta forza, e gli scagliarono
addosso come lance i rami degli abeti,
altre scaraventavano per aria i tirsi contro Penteo,
miserevole bersaglio, ma non lo colpivano. Quello sventurato,
difatti, annientato
dallo sconforto, si trovava
al di là di dove poteva raggiungerlo la loro furia. Poi,
a forza di sconquassarle con rami di quercia
scalzavano le radici con quelle leve prive di ferro. Tuttavia
poiché tutte quelle fatiche non davano
nessun risultato, disse Agave. «Forza,
mettetevi tutt’intorno,
menadi, afferratevi
al tronco e così quell’animale
lassù in alto riusciremo a stanarlo,
perché non riveli
i canti segreti del dio. E quelle
con mille mani abbrancarono
l’abete e lo sradicarono dal suolo.
Tanto stava in alto, tanto dall’alto cadde e rovinò
bocconi a terra Penteo con lamenti infiniti; capiva
difatti quanto
l’estremo male gli fosse vicino.
Fu per prima la madre, ministra del dio, a dare inizio
all’assassinio
e lo aggredì; lui gettò via la benda che gli copriva
il capo perché Agave, sventurata, potesse
riconoscerlo e non lo uccidesse, la carezzò
su una guancia e le disse: «Credimi,
madre, sono io, tuo figlio, sono
Penteo, che tu hai messo al mondo nelle case di Echìone;
abbi pietà, madre e, seppure ho commesso
dei peccati, non uccidere tuo figlio».
Lei sputava bava schiumosa, distorceva
le pupille stravolte perché non era in sé,
priva di senno, era posseduta
da Bacco: Penteo
non riusciva a convincerla.
Lei gli afferra il braccio sinistro con le mani,
fa forza contro i fianchi di quel disgraziato,
gli strappa l’omero: non
con la sua forza; fu il dio
che aggiunse tanta destrezza alle sue mani. Ino
compiva sfracelli dall’altro lato
strappando le carni, Autonoe
gli si scagliava addosso con il resto
delle baccanti. Era tutto un insieme
di grida: l’uno
gemeva con quel poco
di vita che gli restava, le altre
ululavano. Una di loro
portava un braccio, un’altra
un piede, ancora con i calzari, le costole
erano messe a nudo dagli strazi; tutte,
con le mani insanguinate giocavano a palla con le carni
di Penteo. Giaceva
a pezzi il suo corpo, un pezzo
sotto le rocce aspre, un altro pezzo
in mezzo al fogliame della profonda selva, difficile
da trovare; il misero capo fu la madre
a prenderlo tra le mani, a conficcarlo
sulla punta di un tirso e, come fosse quello
di un leone montano, a portarselo
attraverso il Citerone
mentre le sorelle danzavano ancora con le altre menadi.
Lei, compiaciuta di quella caccia infausta, si dirige
qui dentro le mura e dichiara che suo compagno,
colui che l’ha aiutata nella caccia, è stato Bacco, glorioso
vincitore, davvero
trionfatore, sì, ma di lacrime.
Quanto a me, mi allontano dalla sciagura, prima
che Agave raggiunga queste case.


Quelle che, all’inizio dell’episodio, sembrano nient’altro che donne intente a lavori leggiadri (d’altro canto, la menade raffigurata nel bassorilievo del Prado appare come una aggraziata danzatrice), invasate dal dio e ricevuta da lui una forza che di per sé non potrebbero avere, si trasformano in furie. Penteo, raffigurazione concreta, vivente, del futuro di Tebe, viene fatto a pezzi. La madre dilania il corpo del figlio, il suo futuro personale, e ne conficca la testa sulla punta di un tirso. Così finiscono i baccanali: con lo strazio del futuro. «Come ci ha spiegato tanto tempo fa / Euripide».

Come comincia la tragedia di Romeo e Giulietta

Come tutti sanno, per la tragedia di Romeo e Giulietta (1594-1595), William Shakespeare si è ispirato alla novella di Luigi Da Porto (1485-1529) Historia novellamente ritrovata dei due nobili amanti, con la loro pietosa morte intervenuta già nella città di Verona nel tempo del signor Bartolomeo della Scala.

In questa novella, scritta intorno al 1524, un’aria fosca regna sin dalle prime righe. Essa comincia infatti con la descrizione della «crudelissima nimistà [inimicizia]» che regnava tra le due famiglie dei Capelletti e dei Monticoli (poi sempre chiamati Montecchi). Nella tragedia di Shakespeare è tutto diverso. Dopo il Prologo che dà notizia dei tristi eventi che seguiranno, l’azione scenica vera e propria comincia con un dialogo tra due servitori attraverso il quale solo indirettamente veniamo informati dei contrasti tra Capuleti e Montecchi. Non si tratta affatto di un dialogo dal tono cupo e angosciato come l’argomento sembrerebbe richiedere.
Tutt’altro. Quello con il quale Shakespeare dà avvio a una delle più dolorose tragedie che egli abbia scritto è un dialogo comico, infarcito di battutacce, doppi sensi (che hanno da sempre messo in difficoltà i traduttori), volgarità: una buffonata che certamente, nel pubblico dell’epoca, in grado di capire al volo battute che oggi mettono in difficoltà persino gli anglofoni, doveva suscitare un’ilarità generalizzata. Per capire meglio e per ricordare questo dialogo a chi da un po’ di tempo non avesse letto o non avesse visto a teatro lo trascrivo qui sotto. L’originale si può leggere qui, in una pagina del bellissimo sito che contiene tutte le opere del drammaturgo inglese accuratamente commentate. La traduzione è mia.

William Shakespeare, Romeo e Giulietta, Atto I, Scena I
Traduzione di Michele Tortorici


Sansone – Ah, Gregorio, puoi star certo che a dire zozzerie non ci frega nessuno.
Gregorio – No, tant’è vero che inzozzare è il nostro mestiere.
Sansone – E se ci fanno zozzate, allora tiro fuori questa (indica la spada).
Gregorio – Fin che vivi, il naso zozzo te lo pulisci con le mani degli altri.
Sansone – Sì, ma se mi fanno incazzare, scatto io veloce con le mie mani.
Gregorio – Però non sei così veloce a farti provocare.
Sansone – Un cane della casa dei Montecchi, quello mi fa scattare.
Gregorio – Già, se ti provocano, scatti, ma chi ha coraggio sta fermo. Tra scattare e scappare la differenza è poca.
Sansone – Un cane di quella casa mi fa scattare a star fermo: uomo o donna dei Montecchi, se ne incontro uno, dalla parte del muro non mi sposto.
Gregorio – Oh, come si vede che sei delicato! Dalla parte del muro passa sempre il più delicato.
Sansone – Vero. Per questo le donne, che sono il massimo della delicatezza, vanno sempre spinte contro il muro. E per questo io caccio dal muro i servi dei Montecchi e ci ripasso le serve.
Gregorio – Qua i padroni se la vedono coi padroni e i servi coi servi.
Sansone – Per me è lo stesso. Mi comporterò comunque da prepotente. Combatterò con i loro uomini e sarò crudele con le loro donne: fino a levargli le teste.
Gregorio – Le teste? alle donne?
Sansone – Le teste alle donne. Ma certo: gli levo la veste. Non è questo che volevi sentirmi dire?
Gregorio – Sono loro che devono sentirlo per bene quando lo prendono.
Sansone – Oh, finché sono capace di stare in piedi, glielo faccio sentire. Lo sanno che sono un bel pezzo di carne.
Gregorio – Davvero? Una carpa? Ma no: se fossi un pesce tu saresti un baccalà. Dai, se hai un’arma, tirala fuori: arrivano due di casa Montecchi.
Sansone – Ho già sguainato la spada. Attacca tu che io ti vengo dietro.
Gregorio – Come? Ti giri indietro e scappi?
Sansone – Non aver paura per me.
Gregorio – Orca madosca, ho paura di te.
Sansone – Restiamo dalla parte della legge: lascia che comincino loro.
Gregorio – Quando gli passo davanti gli do un’occhiataccia e facciano quello che gli piace.
Sansone – Facciano quello di cui sono capaci, piuttosto. Mi mordo il pollice: è un modo di provocarli. Vediamo come la prendono.


Shakespeare, un genio nell’analisi dell’animo umano e delle azioni umane, sapeva benissimo che, sia negli accadimenti più banali sia in quelli di maggiore importanza, può capitare che una tragedia cominci con una pagliacciata.

 


Una traduzione da Lawrence Ferlinghetti

Lawrence Ferlinghetti non ha bisogno di presentazioni. Di lui ho parlato tempo fa in questo stesso blog per il sessantesimo anniversario della sua casa editrice City Lights (qui). Ma, oltre che per le sue eccezionali capacità di organizzatore culturale, Ferlinghetti merita di essere citato per la sua produzione poetica, che spesso è stata considerata una sua “seconda” attività, ma che si è via via rivelata, nel corso della sua lunga vita, una delle più ricche e interessanti degli ultimi sessant’anni.
Dei poeti della Beat Generation, Ferlinghetti può essere considerato il più “europeo”: se tutti quei poeti furono influenzati in particolare dalla letteratura francese dell’Otto e del Novecento (che conobbero direttamente perché quasi tutti vissero a lungo a Parigi), lui più degli altri, che è cresciuto parlando francese prima con la madre, poi con una parente che l’ha allevato, ha avuto una conoscenza ampia della letteratura di tutto il Vecchio Continente e, in virtù di una perfetta padronanza anche della nostra lingua, ha potuto avere un contatto diretto con i grandi classici italiani da Dante a Pasolini, di entrambi i quali ha tradotto non poche pagine.

Non stupirà, dunque che nella poesia della quale do qui sotto la traduzione, Woodstock Confection, l’idea del fluire del ricordo si esprima con grande naturalezza nella metafora della «Madeleine» proustiana. Ma quello che conta, in questa poesia, è lo straordinario ritmo che, mentre l’autore viaggia «dritto per Woodstock», fa viaggiare anche il lettore, prima ancora che questi possa rendersene conto, verso la parola «poem», “poesia”, quella che conclude il testo.
Il viaggio di Ferlinghetti è  rapido: è in macchina, in una di quelle strade degli Stati Uniti nelle quali la direzione è indicata con un punto cardinale: north. E l’autore ci prende un po’ in giro: nel nord del New Jersey c’è New York. La fabbrica abbandonata dell’Eskimo Pie è tra Bridge Street e York Street, a Brooklyn. E, per andare a Woodstock, si va dritti a nord, si costeggia Manhattan, si passa proprio da Parkway road, a Bronxville, fino a trovarsi a fianco della stazione ferroviaria di Harlem. È strano che finora nessuno l’abbia notato. Ma io il percorso da Brooklyn alla stazione di Harlem l’ho fatto quando sono stato a New York. È una malizia di Ferlinghetti, forse adombrata nel titolo della poesia, dato che «confection» significa sì dolciume, ma anche invenzione, fandonia: per questo motivo io ho tradotto «confection» con “pasticcino” che contiene in sé anche un po’ del significato traslato di “pasticcio”, cioè “garbuglio”, “imbroglio”. Capire questa malizia non ci porta a precisare un dettaglio topografico: ci porta a capire fino in fondo che questi versi di viaggio – un viaggio verso la parola «poem», non dimentichiamolo – mischiano memoria e strada. Il poeta passa da quelle strade mentre le ricorda; è lì in macchina, oltre a esserci stato ai tempi delle «roventi estati», quando ha dato il suo primo morso a un eskimo pie. È uno straordinario doppio viaggiare, chiamiamolo così.
Il difficile della traduzione è consistito per me proprio nel tentativo di restituire in italiano un ritmo il cui rapido fluire corrispondesse alla fluidità, ma anche alla “doppiezza” dell’originale. Un tentativo, appunto, compiuto da un traduttore dilettante e, per questo, niente affatto in competizione con la traduzione che Massimo Bacigalupo fa di questa stessa poesia nel volume che cito qui sotto.
Nel viaggio che farà fianco a fianco con Ferlinghetti lungo i versi di Woodstock Confection, il lettore italiano troverà una sorpresa: il “cremino”, il gelato alla crema di vaniglia ricoperto di cioccolato e infilato su uno stecco, che noi pensavamo appartenere alla nostra tradizione dolciaria, è stato invece inventato da un danese, Christian Kent Nelson, negli Stati Uniti, ha preso il nome di “Eskimo Pie” e la sua fabbrica (da tempo chiusa – «boarded up» scrive Ferlinghetti nella poesia –, perché la produzione dell’Eskimo Pie è passata a una multinazionale dell’alimentazione) è stata in vendita fino a non molti anni fa: ora chissà che fine ha fatto. Comunque, immaginiamo che sia ancora lì, passiamo anche noi davanti a questa fabbrica «boarded up» e cerchiamo di ricordare, insieme a Lawrence Ferlinghetti, i “cremini” della nostra infanzia. Buona lettura.

Lawrence FerlinghettiWoodstock Confection
(da Il lume non spento, a c. di Massimo Bacigalupo, Novara, Interlinea, 2006)[1].


Cruising north in northern New Jersey
Headed for Woodstock
I pass the Eskimo Pie factory
Boarded up
But it’s a Madeleine for me
dipped in my memory
The remembrances come floding back
Frozen all those years!
An iceberg of Eskimo Pies
Now melting in my reverie
And those hot New York summers
Parkway Road Bronxville
Down by the railroad tracks
And the first bit of Eskimo Pie
On my lips at home
About to turn
Into a poem!


Traduzione di Michele Tortorici
Pasticcino Woodstock


In viaggio verso nord nel nord del New Jersey
Dritto per Woodstock
supero la fabbrica dell’Eskimo Pie
È sbarrata
Ma è una Madeleine per me
Inzuppata nella mia memoria
I ricordi tornano a torrenti
Ghiacciati per tanti di quegli anni!
Un iceberg di Eskimo Pie
Che si fonde ora nella mia visione
E quelle roventi estati a New York
Parkway Road, Bronxville
Lungo il tracciato dei binari
E il primo boccone di Eskimo Pie
Sulle mie labbra a casa
Pronto a mutarsi
In una poesia.


 


[1] Il volume curato da Massimo Bacigalupo, è una antologia di poesie scritte da Lawrence Ferlinghetti tra il 2000 e il 2005 realizzata dalle edizioni Interlinea in occasione della consegna al poeta americano del premio LericiPea 2006 per l’opera poetica. Per questo il titolo originale è in italiano.

Mezzo secolo di Lunch Poems

Mezzo secolo fa, nel mese di giugno del 1964, la casa editrice City Lights – quella di Lawrence Ferlinghetti (della quale parlo qui) –, pubblicava come numero diciannove dei Pocket Poets la raccolta di poesie di Frank O’ Hara Lunch Poems (si può tradurre Poesie per il pranzo, Poesie da consumare a pranzo, probabilmente con il senso di un’espressione come ‘lunch meat’, la ‘carne pronta per il pranzo’ o anche la ‘carne in scatola’). In Italia tre sue poesie sarebbero uscite poco dopo, nel novembre di quello stesso anno, nella raccolta curata da Fernanda Pivano Poesia degli ultimi americani, con la traduzione di Giulio Saponaro. Ma nessuno ci fece caso e confesso che anche io, ragazzo di diciott’anni, dopo aver divorato il volume della Pivano, non ricordavo certo, tra i nomi dei poeti che più mi avevano colpito, quello di O’ Hara. Ma quando, più di trent’anni dopo, nel 1998, sono usciti in Italia i suoi Lunch Poems (a cura e con la traduzione di Paolo Fabrizio Iacuzzi, Mondadori, Oscar Poesia del Novecento), allora sì questo poeta mi ha colpito con la sua straordinaria capacità di seguire con i suoi versi una percezione al tempo stesso leggera e profondissima della realtà.

La realtà è quella delle vie di Manhattan che percorre in su e in giù, dei dipinti dei grandi pittori informali di quegli anni che vede lì, al Moma dove lavora, dei libri che legge e che, anzi, sono il suo cuore, un cuore che può facilmente portare «in tasca» e, infine della musica che ascolta nei locali tra quelle stesse vie di Manhattan e Brooklyn. Già, la musica. Quella realtà, così come nelle voci dei cantanti o negli strumenti dei jazzisti a lui cari, prende anche nei suoi versi forma di musica: una musica che dà l’impressione di essere quella dei pianisti blues che accompagnavano, quando Frank era bambino, i film muti; musica, al tempo stesso, d’atmosfera e d’improvvisazione, basata su un soggetto e liberissima di interpretarlo (o anche di andarsene per conto suo).
La realtà non è dunque “rappresentata” da Frank O’ Hara, ma – come ho scritto prima – “seguita”, con una disponibilità totale alla sorpresa come al disincanto. Frank lavora come un investigatore abituato ai pedinamenti che sa di potersi aspettare di tutto. La realtà, di per sé, lo rassicura: è lì; si tratta solo di andarle dietro, di seguire il suo ritmo.
Nella poesia che segue, Yesterday Down at The Canal, Frank O’ Hara va dietro ai pensieri che gli ha suscitato l’osservazione, in sé banale, di qualcuno che stava con lui al «giù al canale». Ne nasce quasi un monologo interiore, un “flusso di coscienza” (d’altro canto, dov’è il canale? dove c’è acqua se non nello scorrere delle parole di questa poesia?). Ma niente paura: non comincia un “gran romanzo” né russo né irlandese; la leggerezza è sempre lì, nella penna di O’ Hara e ci conduce fino al punto nel quale il poeta manda al diavolo tante «stronzate» su come si vive e su come si può morire.
Una nota sulla traduzione. Dal punto di vista della corrispondenza tra ritmo e realtà, la traduzione che di Lunch Poems ha fatto Paolo Fabrizio Iacuzzi è eccellente. Se ho deciso, in questo mio blog, di dare una nuova traduzione di tre poesie, A Step Away from Them (qui), The Day Lady Died (qui) e quella che segue, non è dunque perché io pensi di poter fare una versione migliore, ma perché sono convinto che la traduzione poetica sia un modo, il più bello, per conoscere davvero un poeta che ha scritto in un’altra lingua e anche, quando si può (quando cioè si conosce quella lingua), per dimostrargli il proprio amore attraverso un suono che corrisponda al suo suono. Anche quando quel poeta non c’è più, anzi proprio allora. Anche cinquant’anni dopo che una poesia è stata composta, anzi proprio allora.
Il tempo invidia i poeti.

Frank O’ Hara, Yesterday down at The Canal (da Lunch Poems, 1964)


You say that everything is very simple and interesting
it makes me feel very wistful, like reading a great Russian novel does
I am terribly bored
sometimes it is like seeing a bad movie
other days, more often, it’s like having an acute disease of the kidney
god knows it has nothing to do with the heart
nothing to do with people more interesting than myself
yak yak
that’s an amusing thought
how can anyone be more amusing than oneself
how can anyone fail to be
can i borrow your forty-five
I only need one bullet preferably silver
if you can’t be interesting at least you can be a legend
(but I hate all that crap)
1961


Traduzione di Michele Tortorici, Ieri giù al canale


Tutto è molto semplice e interessante, dici
questo mi fa venire malinconia, come quando leggo uno di quei gran romanzi russi
mi annoio da morire
certe volte volte è come vedere un cattivo film
altri giorni, più spesso, è come avere un rene che ti fa male forte
dio sa che non ha nulla a che fare con il cuore
nulla a che fare con quelli che sono più interessanti di me
ha ha
questo pensiero è divertente
come si può essere più divertenti di se stessi
come si può non riuscirci
posso prendere in prestito la tua quarantacinque
mi serve solo un proiettile, meglio se d’argento
se non puoi essere interessante almeno puoi essere una leggenda
(ma io odio tutte quelle stronzate)
1961


Una traduzione da Mary Jo Salter

Mary Jo Salter (n. 1954), originaria del Michigan ma cresciuta a Detroit e Baltimora, ha la straordinaria capacità di passare facilmente dai temi legati alla sua conoscenza diretta di molti paesi, in particolare europei, ad argomenti che appartengono alla più schietta, e talvolta confidenziale, quotidianità domestica.

La poesia della quale propongo la traduzione, Video Blues (qui il testo originale), rientra con tutta evidenza tra questi argomenti. In essa il linguaggio generalmente leggero che caratterizza lo stile di Mary Jo Salter trova equilibrio e misura proprio nell’avvicinarsi a un campo di esperienza solo apparentemente ristretto, ma che in realtà si rivela un mondo complesso e vivace, osservato sempre con consapevolezza e umana comprensione. Da qui una felicità di tono che avvicina questi versi ai migliori esempi della poesia americana dell’ultimo mezzo secolo.

In particolare, Video Blues, come suggerisce il titolo (che lascio senza traduzione perché è abbastanza perspicuo di per sé), valorizza questa felicità di tono con il ritmo e le rime propri di una ballata. La poetessa crea così un’atmosfera nella quale, da una parte, viene voglia di cantare i suoi versi con il sorriso sulle labbra mentre, dall’altra, si capisce bene che la storia raccontata è quella di una ricorrente frustrazione: il rapporto tra l’autore e il lettore si arricchisce in questo modo di un ammiccamento, diventa intesa, arriva alla complicità.

Nella traduzione italiana ho cercato di mantenere la leggerezza e la scioltezza del linguaggio. Per farlo mi sono preso alcune – piccole, per il vero – libertà. Per esempio, nella seconda strofa, ho eliminato nel secondo verso “da ripetere” (nella traduzione di too long to repeat), anche tenuto conto del fatto che in italiano è superfluo; invece che “Ragazzo”, al v. 13, ho tradotto “Dai” che in italiano scorre di più in fine di verso e che ha, in sostanza, lo stesso senso. Poiché tuttavia non volevo stravolgere il testo originale, ho omesso l’uso delle rime. Ho tuttavia mantenuto sempre in fine di verso, puntando sull’effetto di parole-rima, sia “Myrna Loy” sia l’espressione “mandar giù” con la quale traduco il non facile (in questo caso) “enjoy” dell’originale.

Mary Jo Salter, Video Blues
Traduzione di Michele Tortorici


Mio marito ha una cotta per Myrna Loy
e gli piace affittare i suoi film per spassarsela.
Certe sere è proprio dura da mandar giù.

L’elenco delle attrici che potrebbero
averlo al loro servizio è troppo lungo.
(Mio marito ha una cotta per Myrna Loy

Carole Lombard, Pulette Goddard, la timida
Jean Arthur con quella voce secca come grano …)
Certe sere è proprio dura da mandar giù.

Lui svela tutto questo solo per dar fastidio
a una moglie fedele? So che non posso competere.
Mio marito ha una cotta per Myrna Loy.

E una donna non può avere il suo uomo dei sogni? Dai,
io non voglio dire che mi manchi qualcosa nella vita
ma qualche sera potrei davvero godermi

due ore con Cary Grant come con un gioco tutto mio.
Suppongo, tuttavia, che siamo desinati a non incontrarci.
Mio marito ha una cotta per Myrna Loy,
che certe sere è proprio dura da mandar giù.


Una traduzione da Ron Koertge

Ron Koertge (n. 1940) è uno scrittore dell’Illinois la cui fama è dovuta in particolare ai suoi libri per ragazzi, ma scrive anche romanzi di altro genere e poesie nelle quali la sua sensibilità – quella che gli fa avere con i ragazzi un intenso rapporto di condivisione e partecipazione – determina una straordinaria vicinanza alle cose e, tramite le cose, alle parole.

A descriverne il carattere basta questa citazione tratta dal suo sito:
Sometimes I walk into a classroom for a school visit and the students look at each other with a Who’s-the-old-guy? expression on their faces. I don’t blame them. It seems odd to me, too. If my readers are around fifteen, I’m about five times as old as they are.
[Qualche volta entro in una classe per un incontro scolastico e gli studenti si guardano l’un l’altro con un’espressione sulle loro facce che vuol dire: chi è quel vecchio individuo? Non li biasimo. Anche a me sembra strano. Se i miei lettori hanno all’incirca quindici anni, io ho un’età che è quasi cinque volte la loro.]

La poesia Burning the Book (recentissima, 2012: qui il testo originale) coglie cose e parole – verrebbe da dire – allo stato puro, come elementi incorrotti, anzi, come elementi che, per il loro stesso essere incorrotti, incontaminati, sono destinati a sublimare. È così con il libro la cui delicatezza lo fa spaginare e le cui pagine diventano fumo; ed è così per le parole, per i nomi di sentimenti che, con una straordinaria invenzione, egli legge sulle lingue dei ragazzi che guardano la neve a bocca aperta. Ron Koertge si accosta alla realtà del mondo in punta dei piedi, sì, ma nondimeno porta con sé tutti gli attrezzi che servono per scavarci dentro. E di questo scavo ci mostra, quasi con timidezza, i reperti preziosi.

Ron Koertge, Burning the Book
Traduzione di Michele Tortorici, Il libro bruciato


L’antologia di poesie d’amore che ho comprato
per pochi centesimi è, chissà perché, fragile
e si rovina quando la leggo.

Una per volta, butto le pagine sul fuoco
e guardo il fumo che sale
e se ne va.

Sono quasi all’indice quando sento
un brusio nella strada. I miei vicini
stanno a guardare la neve.

Mi metto il giaccone blu e li raggiungo.
I bambini sono in piedi con le bocche
aperte.

Posso vedere nomi – desiderio, estasi, beatitudine –
atterrare sulle loro lingue, poi sparire.