La “veccia” del topo di Orazio arriva al Novecento
«Tante storie, va bene! Ma forse troppe per un topo!» potrebbe dire qualcuno dei miei venticinque lettori ironizzando sul titolo di questo intervento e sul fatto che esso è la terza tappa (la prima si trova qui, la seconda qui) di un lungo e tortuoso viaggio letterario. È vero, le mie letture, dopo aver preso le mosse da quella che poteva sembrare una favoletta senza troppa importanza, hanno fatto parecchia strada. È stato sufficiente che, di quella favoletta, io traducessi la parola ervum con ‘veccia’, per mettere in moto una serie di relazioni tra testi letterari che nei miei interventi precedenti ho paragonato, a causa del loro andamento a zig-zag, ai movimenti della pallina di un flipper.
Finora ho seguito quei movimenti dalla Satira II, vi di Orazio e dalla traduzione che ai primi dell’Ottocento ne ha dato Antonio Pagnini, fino ai Promessi sposi del Manzoni, non senza passare da un sonetto del Burchiello e da una satira dell’Ariosto. Ora il traguardo è vicino. Ma, prima di raggiungerlo, devo passare (o meglio: mi piace passare) attraverso la lettura de Le avventure di Pinocchio: ciò che, del resto, avevo già preannunciato nel precedente intervento, quando avevo parlato delle tracce importanti lasciate dalla parola ‘veccia’ nella storia letteraria del XIX secolo. Non c’è dubbio, infatti, che Le avventure di Pinocchio siano un testo importante di quella storia.
Carlo Collodi (1826-1890; pseudonimo di Carlo Lorenzini) pubblicò questo libro nel 1883, rimaneggiando e riadattando la storia del burattino di legno che aveva già pubblicato a puntate nel 1881 sul «Giornale per i bambini». Riproduco i brani qui sotto dalle pagine della prima edizione del libro (Firenze, Paggi, 1883). Essi si riferiscono al momento in cui Pinocchio è alla ricerca di Geppetto il quale, a sua volta, si era messo in mare per cercare lui. Come giungere al mare? Pinocchio trova un aiuto insperato in un colombo che, niente meno, se lo carica sul dorso.
Cap. XXIII
Volarono tutto il giorno. Sul far della sera, il Colombo disse:– Ho una gran sete!– E io una gran fame! – soggiunse Pinocchio. – Fermiamoci a questa colombaia pochi minuti; e dopo ci rimetteremo in viaggio, per essere domattina all’alba sulla spiaggia del mare. Entrarono in una colombaia deserta, dove c’era soltanto una catinella piena d’acqua e un cestino ricolmo di veccie. Il burattino, in tempo di vita sua, non aveva mai potuto patire le veccie: a sentir lui, gli facevano nausea, gli rivoltavano lo stomaco: ma quella sera ne mangiò a strippapelle, e quando l’ebbe quasi finite, si voltò al Colombo e gli disse:– Non avrei mai creduto che le veccie fossero così buone! – Bisogna persuadersi, ragazzo mio, – replicò il Colombo, – che quando la fame dice davvero e non c’è altro da mangiare, anche le veccie diventano squisite! La fame non ha capricci né ghiottonerie!
Poco dopo, dopo una notte passata a nuotare, sempre alla ricerca di Geppetto, approdato miracolosamente su un’isola e, qui, arrivato nel “Paese delle api industriose”, Pinocchio è ancora una volta morso dalla fame:
Cap. XXIV
Intanto la fame lo tormentava; perché erano oramai passate ventiquattr’ore che non aveva mangiato più nulla: nemmeno una pietanza di veccie.
Le avventure di Pinocchio sono un testo tanto importante quanto popolare: è da escludere che il suo autore abbia voluto usare una parola rara. Al contrario, qui la parola ‘veccia’ compare proprio perché popolare. Il Collodi ha forse un vago ricordo della traduzione che il Pagnini aveva fatto della Satira II, vi di Orazio? È probabile. Le ‘vecce’ hanno per Pinocchio la stessa funzione che hanno per il topo di quella satira: placare la fame senza «capricci né ghiottonerie»; sono proprio il cibo povero del quale il topo di campagna si accontenta pur di vivere tranquillo. Come tanti altri intellettuali suoi contemporanei, anche il Collodi può aver letto Orazio nella traduzione del Pagnini; anzi, magari lo avrà studiato a scuola dato che aveva frequentato cinque anni di seminario a Colle Val d’Elsa e aveva completato il suo percorso di istruzione alle Scuole pie S. Giovannino di Firenze: istituti nei quali i testi del padre carmelitano Pagnini dovevano essere tra quelli più accreditati per la formazione linguistica (in latino e in italiano) e morale dei giovani. Il Collodi aveva certamente letto i Promessi sposi. E tuttavia, sia che avesse letto entrambe le opere sia che ne avesse letto una soltanto, c’è, a mio parere, un indizio che ci avverte di come l’autore di Pinocchio abbia voluto segnare una differenza rispetto a esse: l’uso della forma «veccie». Avete visto qui sopra che io ho sempre usato ‘vecce’ come forma plurale di ‘veccia’; e così pure hanno fatto, a suo tempo, il Pagnini e il Manzoni (trovate qui le rispettive citazioni). La forma ‘vecce’ è coerente con l’uso ortografico che si è venuto affermando tra Otto e Novecento e che è stato infine fissato come norma nel 1949[1]. Ma Carlo Collodi, nella prima edizione del suo Pinocchio[2], scrisse «veccie». Nessuno ha pensato finora che l’uso di questa forma fosse il frutto di una scelta stilistica. Ma, domando: se non fosse stata una scelta stilistica, perché il Collodi avrebbe scritto in quel modo? Perché era ignorante? Niente affatto. Anche per effetto della solida formazione della quale ho detto qui sopra, era un dotto cultore della lingua italiana ed era ben conosciuto come tale. Nel 1868, infatti, il ministro dell’Istruzione pubblica Emilio Broglio, quando formò una commissione di studiosi con l’incarico «di preparare tutti i provvedimenti e i modi coi quali si possa aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua», inserì il Lorenzini come «membro straordinario della giunta che avrebbe avuto il compito di compilare il vocabolario dell’uso fiorentino» [3]. Il Collodi sapeva perfettamente qual era l’uso considerato regolare per l’ortografia di quel plurale. Tanto è vero che, in quella stessa prima edizione de Le avventure di Pinocchio, rispettò quell’uso scrivendo «bucce» (parecchie volte, pp. 32 e 33), «figuracce» (p. 63), «risatacce» (p. 136). Allora, una sola conseguenza si può trarre, anche se finora non mi risulta che nessuno ci abbia pensato: che egli abbia scritto «veccie», con singolare e consapevole perseveranza, per distinguere le sue ‘veccie’ veramente popolari dalle ‘vecce’ che aveva trovato nella traduzione oraziana del “letteratissimo” sacerdote Pagnini, che pur parlava soltanto dell’alimento di un topo, e da quelle che aveva trovato nel romanzo del non meno “letterato” Manzoni, che pure aveva attribuito i discorsi in cui esse compaiono a personaggi appartenenti al popolo. Guardate dove ci porta il nostro viaggio in compagnia del topo di Orazio!
A queste considerazioni bisogna aggiungere il fatto che Carlo Collodi non fu il solo, in quel periodo, a usare la forma plurale «veccie». Niente affatto. Una ventina di anni dopo la pubblicazione de Le avventure di Pinocchio, a usare quella stessa forma fu, niente meno, un professore: professore al liceo dal 1882 e all’Università dal 1896: parlo di Giovanni Pascoli.
Siamo alla fine del 1903. Proprio all’inizio di quell’anno, il Pascoli, già molto noto per la sua raccolta Myricae (1891; arrivata nel 1996 alla terza edizione), aveva pubblicato i Canti di Castelvecchio. La sua fama non era certo inferiore a quella del suo maestro Carducci. Nel 1897 aveva pubblicato una raccolta, Poemetti, che raccontava (con molte divagazioni), in terzine dantesche, le vicende di una famiglia di contadini, padre, madre e quattro figli, due maschi, Nando e Dore, e due femmine, Rosa e Viola: una famiglia come tante altre nelle campagne tra la Toscana e la Romagna. Dopo avere già incrementato quella raccolta in una seconda edizione nel 1900, il poeta aveva deciso di ampliarla in modo consistente tra la fine del 1903 e l’inizio del 1904, modificandone anche il titolo in Primi poemetti perché aveva già in mente di aggiungere a essa una successiva raccolta di Nuovi poemetti (che sarebbe uscita nel 1909), sempre imperniata sulle vicende di quella immaginaria – ma realistica – famiglia. Una delle aggiunte ai Nuovi poemetti fu la sezione Le armi, dedicata, non agli ordigni bellici, ma agli strumenti del lavoro contadino[4]. In questa sezione si fa sentire con particolare insistenza l’intenzione del poeta di riprodurre i linguaggio popolare, intenzione già chiara nelle precedenti sezioni nelle quali, per esempio, il padre di quella famiglia colonica viene spesso chiamato «il capoccio». La sezione Le armi comincia con un verso che è già esemplare in questo senso: «”Nando!” al su’ omo disse il babbo “Nando! / […]”», dove il «su’ omo» è ‘il suo figlio maggiore’. Ma, ecco, nei versi dedicati alla «frullana», termine doppiamente popolare, se così si potesse dire[5], il riferimento a coloro che, già «prima dell’aurora» tagliano tutte le erbe del prato, di qualunque tipo esse siano:
[…]
È gente
che falcia; taglia tutto, paleino,
loglio, trifoglio, veccie, timi, mente.
In questo caso l’intenzione popolareggiante del Pascoli è evidente in tutto il brano e la forma ‘veccie’ traduce quella intenzione certamente meglio di ‘vecce’, forma ortografica della quale il professor Pascoli era certamente ben informato: tanto è vero che in altri versi della stessa raccolta scrive «brecce» e «frecce» (e così fa anche altrove). È bene aggiungere almeno tre informazioni. La prima: il Pascoli era uno che, quando si trattava di poesia latina, non aveva bisogno di traduzioni; ma non si può escludere che nei suoi studi filologici avesse letto la traduzione che delle Satire oraziane aveva fatto il Pagnini. La seconda: tanti indizi inducono a pensare che avesse letto Le avventure di Pinocchio, anche se era già trentenne quando era uscito il libro di Collodi. La terza: certamente aveva letto i Promessi sposi. Queste «veccie» derivano da qualcuna delle sue letture oppure dalla diretta conoscenza che il Pascoli aveva di tante piante, una conoscenza forse meno “professionale”, ma certo non meno approfondita di quella che, nel precedente intervento, abbiamo riscontrato nel Manzoni “fattore” della tenuta di Brusuglio? Purtroppo a questa domanda è quasi impossibile rispondere, ma il dubbio che le letture abbiano, per così dire, rinforzato la conoscenza diretta delle piante è, almeno, legittimo. Così come è legittimo pensare che anche il Pascoli, come il Collodi, abbia voluto segnare una differenza rispetto a quei precedenti e che lo abbia fatto con l’uso di una forma ortografica antiquata, sì, ma proprio per questo “popolare”.
Tutto questo sembrerebbe confermato dal fatto che il Pascoli insiste. Di «veccie» ci parla anche in un’altra opera, i Poemi conviviali, pubblicati in quello stesso 1904. In questa raccolta egli reinterpreta o rivisita, in endecasillabi sciolti, alcuni grandi miti. In particolare, nei Poemi di Psyche racconta la prima delle prove alle quali la fanciulla Psiche fu sottoposta, secondo il racconto di Apuleio (125 ca – 180 ca)[6], dopo la sua forzata separazione da Amore. Il compito al quale attende è quello di separare gli uni dagli altri vari semi mischiati in un unico grande mucchio (vd. la nota 6):
E tu devi, d’un mucchio alto di semi,
far tanti mucchi, e sceverare i grani
d’orzo, i chicchi di miglio, le rotonde
veccie, i bislunghi pippoli di rena.
E come fine polvere di ferro
sparsa per tutto il mucchio è la semenza
dei papaveri. E tu, Psyche, tu gemi
[…].
E piangi, ed ecco vengono le figlie
dell’alma Terra, frugole e succinte,
dalla pineta dove a Pan selvaggio
frangean tra gli aghi dei pinastri il suolo.
Non so chi disse alle operaie nere
di Pan la cosa. Ma si fa d’un tratto
un brulichìo per l’odorata selva;
e sgorgano esse a frotte dai minuti
lor collicelli, mentre Pan nell’ombra
s’addorme al canto delle sue cicale.
E salgono alla casa, onda su onda,
fila incessante di formiche, ed opre[7]
vengono a te; ma prima i grani d’orzo,
pesi, e i bislunghi pippoli di vena
portano, due di loro uno di quelli;
fanno le veccie di tra il biondo miglio,
poi fanno il miglio minimo, poi vanno.
E resta a te la polvere di semi,
di cui ciascuno dal suo nulla esprima
un lungo stelo e il molle fior del sonno.
Anche qui, in un’opera nella quale, in generale, non indulge al linguaggio popolare, tuttavia il Pascoli, quando parla di erbe, lui che, come ho già ricordato, le conosceva bene e le amava, tende a indicarle con quelli che chiamerei affettuosi richiami ai modi di dire popolari: non si può considerare altrimenti una espressione come «i bislunghi pippoli di vena» che sostituisce, addirittura con un vocabolo “infantile”, «gli allungati chicchi di avena». Per questa ragione, anche nei Poemi conviviali, come nei Primi poemetti (opere, d’altronde, pubblicate quasi contemporaneamente) le «veccie» appaiono nella loro forma plurale ortograficamente non aggiornata, ma, come ho già detto, più corrispondente a un modo “popolare” di pensarla scritta.
Che viaggio abbiamo compiuto! Ma non siamo ancora arrivati al traguardo. Dobbiamo seguire un ultimo zig-zag di questa parola povera e umile come il legume che indica, eppure capace di attraversare senza stancarsi secoli di letteratura. L’ultimo zig-zag ci porta – l’avevate capito sin dall’inizio? – a Eugenio Montale.
Montale usa la parola «veccia» in una delle sue poesie più belle e famose, Meriggiare pallido e assorto, pubblicata nella prima edizione degli Ossi di Seppia (Torino, Gobetti, 1925), ma uscita in realtà già nel 1924 (nella rivista «Il Convegno»). Dato che il poeta usa «veccia» al singolare, qui non si tratta più di stabilire se il poeta abbia voluto farci vedere la forma popolare di una parola che indica un’erba: tra l’altro, l’insieme del componimento indica piuttosto chiaramente la sua volontà di usare parole rare; il contrario della scelta stilistica del Collodi e del Pascoli. Quello che importa, rispetto all’uso montaliano di questa parola, è stabilire se per caso il poeta, mentre la scriveva, non abbia avuto presente uno dei tanti testi che ho citato fin qui nei miei tre interventi sul topo di Orazio.
Partiamo da una data: il 1916. Il poeta stesso ha affermato [8] di aver composto Meriggiare pallido e assorto nel 1916. Siamo appena dodici anni dopo l’uscita dei Primi poemetti e dei Poemi conviviali del Pascoli. Proprio in quel 1916 Montale, subito dopo il suo diploma di ragioniere (1915), aveva cominciato a frequentare le biblioteche di Genova insieme a (e, forse, con la guida di) sua sorella Marianna, che stava per iscriversi alla facoltà di Lettere e Filosofia. Inutile dire che, a parte Gozzano[9], i due poeti più famosi alla cui lettura il ventenne Montale poteva pensare di dedicarsi in quelle biblioteche erano D’Annunzio e Pascoli: entrambi amanti, è bene ricordare (soprattutto il primo), del nome “meriggio” e del verbo “meriggiare”. Ma, prima di continuare, leggiamo Meriggiare pallido e assorto.
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Non mi soffermo qui sull’intera poesia (potete ascoltare in questo video un mio intervento in proposito). Quello che importa, arrivati al traguardo del mio lungo viaggio a zig-zag, è verificare se la «veccia» che compare in questi versi deriva soltanto dalla osservazione che Montale fa del paesaggio e dalla sua conoscenza delle piante (che, per quanto ne sappiamo, non era minimamente paragonabile a quella del Manzoni o del Pascoli) o se invece non risenta in qualche modo di un rimbalzo proveniente da uno dei testi che abbiamo seguito fin qui.
In questo caso è il poeta stesso, il ventenne Montale imbevuto di recenti letture, a darci un indizio decisivo. La sua «veccia» ha qualcosa in comune con le «veccie» del Poema di Psyche: «le file di rosse formiche». Formiche che, nei versi pascoliani erano nere, va bene, ma che, proprio come in quei versi, sono colte nell’atto di uscire tutte insieme (Pascoli scrive: «a frotte»; Montale sottolinea le «file») da quei piccolissimi monticelli di terra che segnano il punto di accesso di un formicaio. Quei piccolissimi monticelli il Pascoli li chiama, con parola “popolare” «collicelli» e il Montale, con termine desueto e coltissimo, «biche». Ma la scena è la stessa.
Si possono avere dubbi? In questo caso non direi. Montale, forse, ha davvero visto la veccia in qualche prato incolto, ma la «veccia» che compare nei suoi versi gli viene da Pascoli, e le formiche, rosse o nere che siano, camminano, «a frotte» o in «file», niente meno, da L’asino d’oro di Apuleio. Se e così – e credo proprio che sia così – la poesia di Montale Meriggiare pallido e assorto la possiamo considerare l’ultimo bersaglio colpito da quella pallina di flipper partita quasi duemila anni prima dai versi di Orazio.
L’ultimo bersaglio? Ma no. Quella pallina sbatterà ancora chissà dove, chissà quando, chissà quante altre volte. Che bellezza!
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