Prima o poi doveva arrivare. Tradurre Emily Dickinson (1830-1886), anche soltanto una piccola poesia come quella che segue, è un po’ come scalare una montagna. Non si può arrivare senza l’equipaggiamento adeguato. Hanno provato a scalare questa montagna i grandi poeti italiani del secolo scorso e posso solo sperare che nessuno di coloro che leggono questa pagina faccia paragoni.
Devo dire che io ci arrivo dopo molto esercizio, dopo aver letto e riletto la poetessa americana e, insieme, tanta altra poesia americana dell’Otto e del Novecento e degli ultimi anni. Ho cercato di costruire di volta in volta un ritmo capace, senza poter ripetere quello originale, di farne sentire tuttavia un’eco. Ho cercato di interpretare (a volte di re-interpretare) mentre traducevo. Insomma, non sono uscito da quella ambiguità fra ‘tradurre’ e ‘tradire’ che costituisce da sempre l’essenza della traduzione poetica, altrimenti impossibile. Tutto questo è stato, mi sembra, sufficiente per le traduzioni che ho fatto fin qui. E per la grande Emily?
Anche in questi pochi versi ho cercato di fare tutto quello che ho appena scritto e con un impegno ancora più intenso. E propongo a tutti i miei lettori i frutti di questo lavoro, di questo mio amore per le parole: per le parole che scrivo e per quelle che scrivono o hanno scritto altri poeti nel corso del tempo, del lungo tempo della poesia. Non ho forse cominciato con Esiodo (qui e qui) il mio impegno di traduttore?
Questi versi di Emily Dickinson ci riportano a un modo bello di ricordare coloro che non ci sono più, anzi di rivedere coloro che non ci sono più, di rivederli vestiti come per una festa e, quasi, di chiamarli a festeggiare ancora. È un modo bello che tende a essere messo da parte per la dimenticanza della morte voluta dalla società dell’apparire o per una idea della morte legata alla sofferenza che sembra essere addirittura vantata da certo mondo cattolico. E invece, guardiamoli con la loro veste color carminio, guardiamoli com’erano nel loro splendore, e facciamo festa con loro. Un bel libro di Dacia Maraini, che ricorda i suoi cari scomparsi, si intitola, appunto, La grande festa. E contiene riflessioni straordinarie su questo passaggio della vita al tempo stesso così naturale e così difficile.
È evidente – ce lo dice la poetessa americana, ce lo aveva detto ancor prima Ugo Foscolo e lo stesso Foscolo lo aveva ripreso da Catullo – che non dobbiamo aspettarci la voce di chi non c’è più, la chiamata, la parola. Il giaciglio è «muto» in Emily Dickinson, il «cenere» è «muto» in Catullo e Foscolo. La parola dobbiamo mettercela noi: la conversazione con i morti, la «celeste […] / corrispondenza d’amorosi sensi» per la quale «si vive con l’amico estinto / e l’estinto con noi» (U. Foscolo, I Sepolcri) richiede che siamo noi prendere l’iniziativa. Ebbene prendiamola. And see!
Emily Dickinson, 15 (1858)
(numerazione dell’edizione a c. di R. W. Franklin, The Poems of Emily Dickinson, 3 voll., Cambridge, The Belknap Press of Harvard University Press, 1998)
She slept beneath a tree –
Remembered but by me.
I touched her Cradle mute –
She recognized the foot –
Put on her carmine suit
And see!
Traduzione di Michele Tortorici
Lei dormiva sotto un albero –
Non c’ero che io a ricordarla.
Ho toccato il suo giaciglio muto –
Lei ha riconosciuto il passo –
Indossava la veste carminio
Ed eccola!