In questo mio primo intervento su «Che cosa fa la poesia?» parto dalla importanza che si deve attribuire al significato originario della parola “poesia”: ποíησις è l’atto del fare, del creare. Naturalmente, non basta affatto affermare questa importanza: il problema nasce non appena cominciamo a pensare alle conseguenze di quel significato. Si ha un bel dire che ποíησις è fare: ma, allora, che cosa fa la poesia?
Una cosa è affermare che quel nome non è un caso. Ricordo di nuovo qui, per la loro chiarezza, le parole, che ho già citato a suo tempo (qui), di Franco Loi : «Perché i greci l’han chiamata ‘fare’? Potevano chiamarla composizione o elaborato o racconto ecc. Ma, come sappiamo da Socrate, le parole antiche sono le più vicine alla sostanza e al senso delle cose. La poesia agisce».
Altra cosa, e decisamente più difficile, è cercare di capire in che modo, concretamente, essa agisca. Che cosa fa?
Per rispondere a questa domanda ci vorranno molti di questi post; ma, come dico nella colonna qui a fianco, e come sa bene chi mi conosce, io non ho fretta. E voi?
Il primo passo che vorrei compiere parte da una serie di riflessioni che ho sviluppato di recente a proposito della poesia “detta”. Sono convinto infatti che il modo giusto per affrontare correttamente la questione che ho posto sia quello di partire dal fatto che l’origine della poesia occidentale come noi la conosciamo è “orale” e che la sua storia, anche quando è stata storia di testi scritti, è sempre rimasta connaturata, non alla lettura di parole scritte con qualsiasi tecnologia su un qualsiasi supporto, ma all’ascolto – magari, in tempi recenti, solo immaginato – del suono di quelle parole. Quando parlo di ciò che la poesia fa, io mi riferisco dunque a ciò che fa con il suono delle parole. Questo sarà evidente soprattutto a conclusione delle considerazioni che qui cominciano, ma sarà anche un filo rosso che mi guiderà e che di conseguenza anche i lettori dovranno cercare di non perdere.
Cominciamo dunque dalle origini.
Propongo una mia traduzione dei primi otto versi della Teogonia di Esiodo. Nella danza delle Muse, il poeta greco (vissuto tra la seconda metà dell’VIII e i primi decenni del VII secolo a.C.) crea una straordinaria rappresentazione della leggerezza della parola.
Cominciamo a cantare delle Muse che abitano
il monte grande e divino Elicona e che all’ombra
azzurra della fonte e all’altare
del potente figlio di Crono con delicati
piedi danzano. Bagnavano
i morbidi corpi nei fiumi
Permesso e Ippocrene e nel divino
Olmeio e riempivano di danze la cima
dell’Elicona: belle e desiderabili sui piedi
velocemente ondeggiavano.
Qualche verso più avanti, però, Esiodo ci insegna che, proprio con quella parola così leggera, la poesia può fare molto. Che cosa fa, dunque, Esiodo con la parola poetica? Ne riparleremo.