Nel mio precedente intervento su questo tema ho cercato di spiegare perché ha senso porsi la domanda: “che cosa fa la poesia?” Vorrei aggiungere qui che ha senso, oltre che per il motivo intrinseco che ho già spiegato, anche per uno estrinseco, ma da non sottovalutare per le conseguenze che ne derivano. Questo secondo motivo consiste nel fatto che è praticamente impossibile rispondere a un’altra – purtroppo frequentissima – domanda: “che cosa è la poesia?”. Una domanda che viene posta a quasi tutti i poeti in quasi tutte le circostanze, dagli interventi del pubblico alla fine di una lettura alle interviste degli esperti.
È capitato anche a Franco Fortini di sentirsela porre in un’intervista Rai. E ha risposto come poteva, cioè in modo formale:
[…] si può dire che nel linguaggio umano c’è una funzione che tende a mettere in evidenza soprattutto, o almeno in modo particolare, il linguaggio stesso, ad attirare l’attenzione sulla forma della comunicazione. Ebbene questa è la funzione poetica.
Naturalmente Fortini precisa poi in che cosa consista esattamente questa funzione e introduce da par suo alcune importanti e nuove considerazioni. Ma resta – e non può non restare – sul piano formale. Perché la verità è che sarebbe assurdo chiedere a un falegname: “Scusi, che cos’è la falegnameria?”, cioè la sua specifica “arte del fare”, quando basterebbe chiedergli: “Scusi, ma lei, con la sua arte, che cosa fa?”. E poiché ποíησις è un fare, perché mai domandarsi che cosa è quel fare quando è tanto più semplice – e, come vedremo, più produttivo – domandarsi e domandare, appunto, che cosa fa.
Per rispondere a questa domanda (e non all’altra) sono risalito alle origini e ricorderete che ho cominciato a rileggere Esiodo, con quei suoi straordinari primi versi della Teogonia nei quali la leggerissima danza delle Muse ci parla con tutta evidenza della leggerezza della parola poetica. Leggiamo ora poco più di altri venti versi della Teogonia (si parla sempre delle Muse):
Andate via di là, dentro a una nebbia
densa camminavano insieme nella notte e lasciavano andare
la voce bellissima per levare inni
a Zeus splendido dell’egida e a Era, signora
argiva che va con calzari dorati,
e alla figlia di Zeus splendido dell’egida, Atena dagli occhi
luminosi d’azzurro e a Febo Apollo e ad Artemide che dardi
effonde e a Poseidone che possiede la terra e alla terra
causa sussulti e a Temi che dobbiamo onorare
e ad Afrodite dagli occhi
fulminanti e a Ebe dalla corona
d’oro e alla bella Dione
e a Leto, a Iapeto, a Crono dai mille raggiri,
a Eos, al grande Elio, a Selene lucente, a Gaia, al grande
Oceano, alla nera
Notte e alla sacra
stirpe di tutti coloro
che non hanno destino di morte e che sono in eterno.
Sono state loro che a Esiodo una volta
hanno insegnato come fare bei canti, mentre alle pendici
del divino Elicona portava
le pecore al pascolo. E a me prima di tutto
queste parole dissero
le dee, Muse dell’Olimpo, figlie di Zeus splendido dell’egida:
«Pastori, che vivete
nei campi e nell’avvilimento, nient’altro che stomaco, noi
sappiamo dire molte cose false che sono
simili a quelle vere, ma noi
sappiamo, quando lo vogliamo, cantare cose che il vero
disvelano».
Questo dissero le figlie del grande Zeus, dal parlare
compiuto e al posto del bastone mi offrirono un ramo
rigoglioso di alloro che avevano
appena raccolto, bellissimo; e mi ispirarono
il suono della parola che raccoglie
l’alito divino perché io celebrassi ciò che sarà e ciò che è stato
e mi ordinarono di levare inni alla stirpe
dei beati che sono in eterno,
ma cantare proprio loro per prime e per ultime, sempre.
In questi versi (9-34) Esiodo ci fa capire altre cose che si aggiungono – ma non tolgono nulla – a quell’immagine di leggerezza che ci ha così colpiti nei primi otto versi. E sono tutte cose che riguardano il “che cosa fa” la parola poetica.
In primo luogo, “nomina”, cioè conferisce un nome. Nel dire delle Muse, la parola poetica, senza cessare di essere leggera, ha tuttavia la forza di aggiungere un nome al nome degli dei. Questo nome che si aggiunge designa gli dei più del loro stesso nome proprio. È il modo attraverso il quale gli dei vengono, più ancora che ri-definiti, ri-creati, creati in modo che possano essere riconoscibili dagli uomini non come loro creatori, ma come loro creature. Ventisette secoli dopo anche Pascoli riconoscerà al poeta-fanciullino questa capacità di nominare: senza lui, cioè senza il fanciullino, «non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente». «Mette il nome», e dunque ri-crea con la parola, rubando il mestiere a Dio, se così è permesso dire.
In secondo luogo, la parola poetica trasforma chi la dice. Non importa chi egli sia. Nel momento in cui sostituisce al proprio bastone (il fare quotidiano, il fare che serve per vivere) l’alloro (il fare attraverso la parola, che non ha utilità immediata), l’uomo diventa poeta e il suo compito, il compito che lo identifica, diventa far sentire la sua «αὐδήν», il suono della voce, il suono della parola.
Infine – e qui entriamo nel vivo della questione che ci siamo posta – questo suono esprime per Esiodo un rapporto con l’assoluto, «raccoglie / l’alito divino» e conferisce per questo al poeta la capacità di celebrare «ciò che sarà e ciò che è stato».
Che cosa fa dunque, per Esiodo, la poesia? Fa – questo è il senso dei versi che abbiamo letto – qualcosa di molto simile a quello che fa la filosofia. Fa il “disvelamento” del vero riguardo a «ciò che sarà e ciò che è stato» cioè alle esperienze umane – e dunque necessariamente temporali – dell’essere. Ma, allora, che differenza c’è tra ποíησις, ed ἐπιστήμη, tra il fare del poeta e il fare del sapiente (ἐπιστήμων) ? Fanno la stessa cosa?
No. Il ποιητής fa il disvelamento del vero attraverso il racconto del mito, o meglio, attraverso il suo entrare nel mito, attraverso il suo confondersi con il mito; l’ἐπιστήμων, il φιλόσοφος, è colui che ama contemplare la verità nella φύσις (la natura, concepita come essere originario dell’universo, come l’insieme di ciò che è) e, per far questo, verifica l’alterità della φύσις rispetto a lui. Entrambi, come suggerisce Daniele Guastini (Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 16) citando Aristotele, partono però da un’esperienza di θαύμα (meraviglia), di reazione di fronte a qualcosa che non si sa: «Chi prova un senso di dubbio o di meraviglia avverte di non sapere (per questo colui che ama il mito è in qualche modo filosofo: infatti il mito è composto da cose che destano meraviglia)».
C’è, insomma, alle origini del pensiero greco un legame forte tra il fare poetico e la ricerca di τὰ εόντα (ciò che è): il poeta è colui che fa il disvelamento di τὰ εόντα attraverso la sua capacità di confondersi con il mito e, quindi, di dire il mito con il suono della sua parola.
Di tutto questo dovremo ricordarci quando vedremo in che modo questa idea del fare poetico è potuta arrivare fino a noi.
Naturalmente, continua …