Nei precedenti interventi (qui l’ultimo) ho affrontato questo tema a partire da Esiodo e poi ho cercato di spiegare che cosa secondo me fa la poesia. Ho anticipato che io credo che la poesia faccia tre cose e ho cominciato a parlare della prima, che si può sintetizzare così: attraverso il suono della parola, la poesia fa il disvelamento di ‘ciò che è’ nel suo dispiegarsi lungo il tempo; ho anche precisato che, di conseguenza, fa il disvelamento della contraddizione insanabile tra il tempo e ciò che è e che, anzi, il ποιητής precipita volutamente dentro questa contraddizione e lo fa confondendosi con il mito, con l’immagine (una delle possibili immagini) di «ciò che è e ciò che è stato» e, quindi, prestando al mito, dall’interno, il suono della sua parola. Ho anche appena accennato a quella che io credo sia la seconda cosa che fa la poesia: traducendo in modo provvisorio e approssimativo il verbo greco θαυμάζειν, ho scritto che la poesia fa meravigliare. E da qui riprendiamo il discorso per portarlo vicino alla conclusione (ci vorrà una quinta puntata per concluderlo, ma siate pazienti).
A scuola ci hanno insegnato a sorridere sui versi di Giambattista Marino secondo i quali
È del poeta il fin la meraviglia:
parlo dell’eccellente, non del goffo;
chi non sa far stupir vada a la striglia.
Per la verità io non rido affatto di questi versi. Intanto so che, per capirli bene, bisogna collocarli correttamente all’interno di un attacco portato dal Marino nei confronti di un collega che faceva stupire troppo. E poi mi sembra che qui non si dica in realtà niente di diverso rispetto a quanto viene percepito dal senso comune di tutti i lettori di poesia: e cioè la divergenza, appunto, del poeta dal senso comune stesso, il suo usare immagini sempre nuove (o, se immagini vecchie, comunque con sensi nuovi).
Questa cosa che il poeta fa è quella stessa che il Trattato del Sublime chiama, a proposito dell’arte oratoria, il συνενθουσιάν, cioè “l’entusiasmarsi insieme” [dell’ascoltatore e dell’oratore], il determinare una contagiosa atmosfera di meraviglia.
Di recente Harold Bloom ha ripreso a questo proposito un concetto elaborato da Owen Barfield nel 1928, quello di «strangeness of meaning» (‘stranezza di significato’), cioè «the quality of being unusual, unexpected or difficult to understand» (‘la qualità che consiste nell’essere non usuale, inaspettato o difficile da capire’). Questa “strangeness”, sottolinea Barfield, forse preoccupato di essere considerato un erede del Marino, «non ha relazione con ‘meraviglia’, perché ‘meraviglia’ è la nostra reazione a cose che noi siamo consapevoli di non comprendere pienamente o comunque di comprendere meno di quanto ci saremmo aspettati. L’elemento della stranezza nella bellezza ha l’effetto contrario. Scaturisce da un contatto con un tipo di coscienza differente da quello che ci è proprio, differente e tuttavia non così remoto che noi non possiamo in parte condividerlo, come necessariamente implica, in una tale connessione, la semplice parola “contatto”. «Strangeness», infatti, suscita meraviglia quando noi non comprendiamo. Immaginazione estetica quando comprendiamo» (Poetic Diction, 1928).
La poesia – dice dunque Barfield – fa, produce, un «avvertito, percepito cambiamento della coscienza» e questo percepito cambiamento della coscienza deriva dal tentativo di apprendere il significato del testo poetico nonostante la «strangeness of meaning». Questo «percepito cambiamento della coscienza» avviene in modo molto simile al «comune entusiasmo» che, in certi casi, come abbiamo visto, può legare, secondo Il Sublime, l’oratore e l’ascoltatore e costituisce una sorta di trasferimento del θαύμα (meraviglia) dall’esperienza del poeta in quella dell’ascoltatore. Nell’esperienza del poeta il θαύμα è la reazione a un non sapere: una reazione che produce, comunque, un disvelamento del vero. Nell’ascoltatore è la reazione a un non capire: e anche in questo caso – qui il contributo di Barfield si rivela essenziale – produce, possiamo dire, un disvelamento del vero significato del testo poetico attraverso uno shock di fronte alla sua congenita “strangeness”.
Ho introdotto questa qualifica di congenita per preparare il terreno alla terza cosa che fa la poesia. Ma questo sarà l’argomento della quinta e ultima “puntata” di questo mio intervento.