Scusate, non sarò breve.
Il canto di Ulisse, il XXVI dell’Inferno, è uno dei più conosciuti della Commedia. Di questo canto il verso «fatti non foste a viver come bruti» è, a sua volta, il più conosciuto e – secondo una recente indagine – il più citato tra tutti i versi del poema dantesco.
Tante volte si trova buttato là nel contesto leggero di una citazione su Facebook o su Twitter dove, comunque, viene letto di corsa. Qualche volta capita invece che questo verso venga citato nel contesto di straordinarie riflessioni sull’uomo. È il caso di un capitolo del romanzo Se questo è un uomo di Primo Levi. Il capitolo è intitolato proprio Il canto di Ulisse e l’autore vi racconta il suo tentativo di insegnare l’italiano a un giovane francese. In questo brano, il prigioniero Primo Levi ricava dai versi di Dante l’idea della conoscenza come strumento di salvezza, come ciò che può salvare l’uomo, anche l’uomo che si trovi nella sua condizione di internato, proprio perché la conoscenza è una dote propriamente umana contrapposta alla vita da «bruti» alla quale gli aguzzini del campo di concentramento vorrebbero ridurre lui e tutti gli altri prigionieri.
È una qualità propria dei capolavori quella di suggerire interpretazioni in ambiti anche assai lontani, nel tempo e nello spazio, da quello nel quale sono stati concepiti.
Ma torniamo all’origine: al XXVI canto della Commedia e alla situazione che vi è descritta. Dante e Virgilio si trovano nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio dell’inferno. Qui coloro che in vita furono consiglieri fraudolenti scontano la loro pena eterna, che consiste nell’essere racchiusi dentro una fiamma.
In una fiamma con due punte sono puniti insieme, così come insieme hanno peccato, Ulisse e Diomede. Quando Dante viene a saperlo, chiede a Virgilio di poter parlare con una delle due anime. Virgilio, che ha capito che cosa Dante vuol sapere e da chi, si rivolge a Ulisse e gli chiede «dove per lui perduto a morir gissi», cioè dove egli sia andato a morire una volta perduto; oppure, dove sia andato a morire e al tempo stesso si sia dannato, se quel «perduto», va letto in senso morale, come è probabile a causa dell’accento assai forte con il quale questa parola è sottolineata nel verso.

Ulisse non si fa pregare. Il «maggior corno» di quella duplice fiamma comincia a scuotersi e poi, oscillando da una parte e dall’altra «come fosse la lingua che parlasse, / gittò voce di fuori e disse: “Quando / […]». Questo «Quando», posto in fine di verso, è dotato, attraverso la pausa che lo segue, di una forza eccezionale: una forza accentuata dal fatto che è l’ultima delle tre rime concatenate e che si trova nell’ultimo verso della seconda terzina che contiene quelle tre rime. Con la forza eccezionale di questa parola comincia il racconto di un viaggio. Quale viaggio? Quello compiuto da Ulisse dopo aver lasciato Circe? No, quello che Dante, al quale – come vedremo meglio tra poco – i poemi di Omero sono del tutto sconosciuti, immagina sia stato compiuto da Ulisse. Nella prima parte del racconto l’eroe greco afferma di avere scelto, una volta allontanatosi da Circe, di non tornare in patria. A spingerlo a questa scelta era stato “l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore», un «ardore» che aveva prevalso sugli affetti familiari. Ecco dunque Ulisse e i suoi compagni attraversare luoghi più e meno noti del Mediterraneo. Infine, una volta arrivati alle “Colonne d’Ercole” (oggi lo stretto di Gibilterra), cioè al punto dove «dov’ Ercule segnò li suoi riguardi / acció che l’uom più oltre non si metta», ecco un nuovo desiderio, un nuovo «ardore», spingere Ulisse a oltrepassare quei limiti. Per farlo, deve convincere i suoi compagni.
Dante Alighieri, Inferno, vv. 112-142
“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli [1] siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia [2]
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza [3]:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino [4],
che a pena poscia li avrei ritenuti [5];
e volta nostra poppa nel mattino [6],
de’ remi facemmo ali al folle volo [7],
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ‘l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo [8].
Cinque volte racceso e tante casso [9]
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo [10] nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.
Prima di cominciare a esporre alcune mie riflessioni su questi versi, è necessario che io rivolga al lettore alcune avvertenze.
La prima riguarda il fatto che su questo canto c’è una sterminata letteratura critica. Sarebbe inutile in questa sede cercare di riferirne, anche solo in parte. Però è possibile indicare un luogo dal quale partire per orientarsi nell’enorme intrico di strade che questa letteratura critica ha percorso. Si tratta del commento alla conclusione di questo canto a cura di Nicola Fosca [11]: commento che, per gentile – e preziosa – concessione dell’autore e dell’editore, si trova anche all’interno del Dartmouth Dante Project ed è quindi leggibile on line (a partire da questa pagina).

Naturalmente, la parte del XXVI canto che precede quella trascritta qui sopra contiene elementi essenziali per la comprensione anche dei versi dei quali mi occupo. In particolare si può notare che, in quella prima parte del canto, le notizie su Circe e sulla permanenza di Ulisse presso di lei sono proprio – e soltanto – quelle che Dante poteva ricavare da Virgilio (VII libro dell’Eneide) e da Ovidio (libri XIII e XIV delle Metamorfosi). Questo dipende dal fatto che Dante non aveva letto quasi niente di Omero e dei suoi poemi. Non aveva la minima cognizione della lingua greca, neanche traslitterata [12]. Conosceva, sì, il nome di Omero, lo venerava, e poco più. Non sapeva nemmeno in che epoca esattamente collocarlo se non in un indefinito e lontano inizio della poesia tramandata prima del quale c’era solo la mitica figura di Orfeo. Nelle opere di Aristotele che Dante poteva leggere (tradotte in latino, ovviamente) non vengono mai affrontate questioni di contenuto dei poemi omerici. Da Orazio, da Cicerone e da altri Dante poteva aver tratto le notizie sulla eccellenza di Omero che trapelano nel quarto canto dell’Inferno. Dalla traduzione latina dell’Etica di Aristotele eseguita nel 1260 da Guglielmo di Moerbecke, aveva certamente ricavato altre notizie che usa nella Vita nuova.
Il fatto che Dante ignorasse del tutto la struttura e il contenuto preciso dei poemi omerici pone una serie problemi non secondari sul racconto che egli fa della fine di Ulisse. Una delle più interessanti ricerche su questo tema è contenuta nel volume Dante e Omero. Il volto di Medusa, di Giovanni Cerri
[13]. Si tratta di una ricerca che dimostra almeno due cose. La prima è che ai tempi di Dante alcune traduzioni latine di brevi brani dei poemi omerici, sia pure completamente scollegati tra loro, circolavano almeno negli ambienti dei giuristi (e in quelle che possiamo chiamare con termine moderno “aule giudiziarie”), anche se non si trovavano nelle biblioteche: Dante, potrebbe averne avuto notizia, ma certo da uno di quei brani non sarebbe mai potuto risalire al contenuto completo dell’Iliade o dell’Odissea. La seconda è che, almeno in un caso, quello di Inferno, IX, 52-54, c’è una corrispondenza innegabile tra il senso dei versi danteschi e quello di alcuni versi omerici (Odissea, XI, 633-635). Essa riguarda la possibilità che l’effetto pietrificante del volto di Medusa possa impedire lo svolgimento del viaggio nell’oltretomba: per Dante si tratta del proprio stesso viaggio; per Omero si tratta di quello di Ulisse. Una corrispondenza così stringente farebbe pensare a un rapporto diretto tra i due testi. Tutti avranno notato che io ho usato qui il condizionale. L’autore della ricerca non sarebbe d’accordo, ma altri studi su Dante e Omero, condotti da un altro studioso, Lino Pertile, portano ad avere molta cautela. «In effetti – afferma Pertile –, qualsiasi variante dell’Odissea che contempli la morte di Ulisse prima che ritorni a Itaca mina la struttura stessa del poema omerico; non è quindi una mera variante, compatibile con il poema, ma piuttosto una riscrittura o versione ‘altra’, di cui non rimane traccia nella storia della letteratura greco-romana semplicemente perché non esiste e non è mai esistita. La soluzione più economica del dilemma è che Dante conosca di seconda mano e in forma riassuntiva alcune delle avventure di Ulisse (le Sirene, Circe, Polifemo, qualcosa sul viaggio agli inferi), ma che le conosca come avventure individuali, non collegate tra loro nella sequenza dell’Odissea»[14].
Per quanto mi riguarda, posso aggiungere alle riflessioni dei due studiosi un’altra straordinaria coincidenza che essi non hanno notato – e che non mi pare che sia mai stata sottolineata da altri – ma che invece mi ha sempre colpito e affascinato e che credo debba essere rimarcata. Essa riguarda un verso del XXVI canto appena poco meno famoso di quello al quale è intitolato questo intervento: «de’ remi facemmo ali al folle volo». Nella nota 7 avevo accennato che ne avremmo riparlato.
Ecco di che si tratta.
La relazione tra una imbarcazione e l’immagine delle ali presente nel verso «de’ remi facemmo ali al folle volo» non è nuova: Dante non è il primo a usarla, anzi essa si può considerare uno di quei fili che annodano tra loro poesie di tempi e luoghi diversi: fili che gli amanti della cultura digitale chiamano, nel loro insieme “ipertesto” e che una volta si chiamava semplicemente “collegamento fra testi”.
Dante aveva letto di sicuro almeno il passo del III libro dell’Eneide in cui Enea, nel raccontare a Didone la sua fuga da Troia dice: «velorum pandimus alas» (v. 520) cioè ‘aprimmo le ali delle vele’. Non ci vuole molto a notare, però, che in questo verso virgiliano, quasi sempre citato nei commenti danteschi, la metafora è meno ardita: il fatto che le vele possano somigliare ad ali è un’esperienza comune. Anche il «remigium alarum», cioè il “remigare delle ali” che Virgilio riferisce a Dedalo (Eneide, VI, 19) è un’immagine molto diversa da quella dantesca, anzi, si potrebbe dire che è un’immagine opposta.
Più vicino al testo della Commedia è un verso di Properzio, poeta dell’età augustea contemporaneo e amico di Virgilio. In una delle cosiddette Elegie romane, cioè di quelle dedicate all’antica e recente storia di Roma, l’Elegia IV, 6, parlando della battaglia di Azio, Properzio fa dire da Febo ad Augusto di non aver paura di una flotta che «centenis remiget alis» (v. 47), cioè che “remi con centinaia di ali”. Properzio, però era assai poco noto nel medioevo [15] e non è mai citato da Dante. Insomma, anche se qui il legame con i versi danteschi sembrerebbe diretto, non c’è nessuna prova che Dante avesse letto quel verso di Properzio e difatti sono pochissimi i commentatori che lo citano (tra questi, il Tommaseo).
Virgilio, no. Properzio, no. C’è però un verso di Omero che fa proprio al caso nostro: è quello che finora, come accennavo, mi sembra che non sia stato notato e che ci fa tornare a quella che ho chiamato qui sopra «una straordinaria coincidenza». Non si tratta, infatti, di un verso qualsiasi: siamo nell’XI libro dell’Odissea, quello nel quale Ulisse, su indicazione di Circe, effettua il suo viaggio nel regno dei morti. Qui, lo spirito dell’indovino Tiresia spiega a Ulisse il destino che lo attende dopo essere tornato a Itaca e gli profetizza che, dopo il ritorno in patria, dopo aver riconquistato il potere e superato la violenza dei Proci, dovrà compiere un altro viaggio, un ultimo viaggio, finché – leggo nella traduzione di Aurelio Privitera – … «finché arrivi da uomini che non mangiano cibi conditi col sale, / che non conoscono navi dalle gote purpuree / né i maneggevoli remi che sono per le navi ali». Dopo avere offerto sacrifici a Poseidone, aggiunge Tiresia, «torna a casa e sacrifica sacre ecatombi / agli dei immortali che hanno il vato cielo, a tutti con ordine. Per te la morte verrà / fuori dal mare, […]»[16].
Qui le cose si complicano: rispetto ai pochi e improbabili fili che collegano ad altri versi il verso di Dante «dei remi facemmo ali al folle volo», beh, rispetto a quei pochi fili, questo sembra, senza paragone, il più diretto dal punto di vista del rapporto tra remi e ali. Ma c’è di più. Molto di più. Questo filo collega l’immagine dantesca, non a un verso qualsiasi di Omero, ma proprio a un verso che riguarda Ulisse, che riguarda la discesa agli inferi di Ulisse, che riguarda la profezia sull’ultimo viaggio dell’eroe greco. Non ho torto, se parlo di una «coincidenza straordinaria». Già: coincidenza! Non risulta in nessun modo, infatti, che quel verso potesse essere noto a Dante. Come risolvere l’enigma? Le spiegazioni possibili sono due, molto diverse tra loro.
La prima è che Dante avesse letto quel verso o quei versi in una citazione che li conteneva o in qualche breve brano dell’Odissea tradotto in latino (magari proprio uno di quelli dei quali parla Giovanni Cerri), ma poi perduto e del tutto sconosciuto a noi. Se questo fosse vero, da quella citazione o da quel brano (l’una o l’altro interrotti prima della profezia del ritorno definitivo «a casa»), oltre al rapporto tra remi e ali, sarebbe venuta a Dante l’idea dell’ultimo viaggio. Non esiste, non dico nessuna prova, ma neanche il minimo indizio che ciò possa essere accaduto.
La seconda ipotesi è che, a proposito dello stesso personaggio, Ulisse, a proposito del suo ultimo viaggio (che comunque per Omero non era verso la morte), a Omero e a Dante, a poco più di duemila anni di distanza e senza che il secondo sapesse niente del primo, sia venuta in mente la stessa immagine.
Beh, credo proprio che certe volte, di fronte agli enigmi che la poesia ci presenta, ci si debba fermare. E io mi fermo.
Mi fermo, sì, ma per tornare all’insieme dei versi che ho trascritto qui sopra e, in particolare, a quei due versi «fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza» il primo dei quali sembra essere il più citato del poema dantesco. Vero e proprio fondamento ideale di questo episodio della Commedia, le parole di questi due versi sono state spesso considerate un inno alla virtù e alla conoscenza, o meglio un inno alla virtù della conoscenza.
È vero. Queste parole, tolte dalla bocca di Ulisse e dal contesto nel quale vengono pronunciate (non soltanto il contesto narrativo, cioè l’Inferno, ma anche quello determinato dalle parole che precedono, «considerate la vostra semenza»), queste parole, prese così, chi può dire che non siano un inno alla virtù della conoscenza?
Tuttavia, consideriamo il contesto.
Siamo nell’inferno; più precisamente, quasi nel fondo dell’inferno. Colui che parla è un dannato che si trova lì in quanto è stato un consigliere fraudolento, cioè: è uno abituato a ingannare, a ingannare con le parole. Nei versi precedenti, questo dannato aveva raccontato a Dante de «l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore» e gli aveva spiegato che proprio per quell’«ardore», non era ritornato a casa, dal vecchio padre, dal giovane figlio e dalla moglie Penelope, ma «misi me per l’alto mare aperto / sol con un legno e con quella compagna / picciola da la qual non fui diserto».
Invece (attenzione, “invece”, non “di conseguenza”), dopo essersi aggirato per il Mediterraneo in posti e tra popoli non poi così sconosciuti, soprattutto dai Fenici, già all’epoca della guerra di Troia (ma Dante non lo sapeva), Ulisse racconta di aver deciso di andare a visitare il «mondo sanza gente» dove certamente non poteva accrescere la sua conoscenza «de li vizi umani e del valore». Aggiunge che con una «orazion picciola» è riuscito a convincere i compagni, anzi addirittura a far desiderare loro questa avventura, che va in direzione opposta a quanto progettato in precedenza.
In effetti, questa orazione, benché «picciola», è un capolavoro dell’arte della persuasione. Ulisse si rivolge ai compagni chiamandoli «frati», fratelli, quindi senza più nessuna differenza di grado; ricorda i pericoli attraversati insieme – e superati –; usa la formula delle due negazioni, «non vogliate negar», che è più attenuata non solo di un consiglio, ma persino di una preghiera cortese; e infine li esorta con un appello a considerare la «semenza» dalla quale provengono, cioè il loro stesso appartenere al genere umano, ben diverso da quello animale, da quello dei «bruti», i quali ultimi sì, avrebbero tutto il diritto di tornarsene a casa senza seguire «virtute e canoscenza». Insomma, questa «orazion picciola» avrebbe meritato gli applausi dei più grandi oratori della storia, da Demostene a Cicerone.
Tuttavia, questo dannato che sta nell’inferno per espiare il peccato di aver dato consigli fraudolenti, con le parole che ha rivolto ai suoi compagni, ha compiuto la sua ennesima frode. L’ennesima, ma anche l’ultima. Questa tesi, pur non gradita alla maggioranza dei commentatori, è stata però autorevolmente sostenuta, soprattutto nel corso del Novecento [17]. E io credo che sia l’unica spiegazione di questi versi coerente con il mondo della Commedia, con il mondo interno alla Commedia. Pensiamo alla frase che precede l’esaltazione della conoscenza, quella in cui Ulisse ricorda ai compagni la loro appartenenza al genere umano. Ve ne ho parlato a proposito del contesto. Davvero l’appartenere al genere umano spinge coloro che hanno questa «semenza» ad allontanarsi gli uni dagli altri per seguire virtute e canoscenza? Oppure è vero il contrario? Non è forse vero, infatti, che sia la morale pagana, con Aristotele che proclama l’uomo “animale sociale”, sia la morale cristiana che pone al suo centro la communitas, l’ecclesia, escludono questa idea dell’individuo solitario alla ricerca del sapere? E allora, anche questo appello a considerare la «semenza» non si rivela forse un espediente retorico, il colpo di teatro finale, indirizzato soltanto a convincere compagni vecchi, stanchi e incerti?
Ma entriamo nel merito di quella che Ulisse definisce «canoscenza». Nell’Etica Nicomachea, un’opera che Dante, nella traduzione latina di Guglielmo di Moerbecke, conosceva praticamente a memoria, Aristotele esalta la sapienza come la più alta delle virtù del pensiero. Ma la sapienza della quale parla Aristotele è ben altro. Essa si fonda sulla saggezza, cioè sulla capacità di operare scelte finalizzate alla vita virtuosa. Senza il perseguimento di quel fine, non c’è sapienza. L’Ethica Nicomachea comincia con una affermazione che non lascia dubbi: «Ogni arte e ogni ricerca scientifica e similmente ogni azione ed ogni scelta deliberata tende a un bene; perciò a giusta ragione si è dichiarato che il bene è ciò a cui tutte le cose tendono».
È necessario ricordare qui che l’Ethica Nicomachea è l’opera pagana alla quale i padri della Chiesa, fino a san Tommaso, hanno fatto riferimento per dare una sistemazione teorica alla stessa morale cristiana. Ma c’è di più: quell’opera, è posta da Dante alla base dell’ordinamento dell’inferno ed è esplicitamente citata da Virgilio quando questi spiega a Dante, nell’XI canto, i criteri di quell’ordinamento. Quell’opera che Dante (d’accordo con la Chiesa) considerava la più alta della filosofia morale pagana, quell’opera che a Dante aveva ispirato il modo stesso con il quale i dannati sono puniti e distribuiti nei vari cerchi infernali, ebbene anche quell’opera, ancor prima della venuta di Cristo, negava che la scelta deliberata di Ulisse fosse vera sapienza, vero frutto di una, sia pur estrema e rischiosa, ricerca scientifica. Già per la morale pagana, già per il mondo morale al quale, nella visione dantesca, Ulisse apparteneva, quella scelta deliberata non è dettata dall’amore per la «canoscenza»: questo amore è soltanto l’ultimo argomento retorico addotto per convincere i suoi compagni con una orazione tanto «picciola» quanto, diciamo pure la parola, fraudolenta.
Ecco allora che la scelta di Ulisse si rivela dettata, invece che da desiderio di conoscenza, da una personale volontà di superamento del limite umano: chi è mai andato al di là dei confini posti da Ercole al mondo abitato? Nessun essere umano. Dante stesso raggiungerà sì, guidato da Virgilio, le coste della montagna del purgatorio e ciò avverrà proprio poco dopo quell’incontro nell’inferno con Ulisse. Ma i due non ci arriveranno per mare, bensì seguendo il raggio della terra lungo una «natural burella», un cunicolo, che li conduce lì non senza far sentire a Dante tutte le difficoltà e il peso e i limiti del suo corpo umano. Dante arriva lì in questo modo, che è umano e limitato, nonostante la guida di Virgilio e nonostante il fatto che per quel suo viaggio la Vergine stessa abbia invocato il “frangersi”, il venir meno, delle eterne leggi di Dio [18]. Bene, nonostante tutto questo, Dante arriva sulla costa della montagna del purgatorio, letteralmente, con i suoi mezzi, con i suoi mezzi umani e limitati. E, proprio da lì, guardando il mare che circonda quella montagna, nel I canto del Purgatorio, Dante ricorda che quel lito diserto, è lo stesso «che mai non vide navicar sue acque / omo, che di tornar sia poscia esperto». Ma Ulisse, quello che voleva essere «del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore» (l’uso dantesco nei due diversi passi della stessa parola, «esperto», non può essere casuale) e che poi invece decide di andare dove non ci sono esseri umani, nel «mondo sanza gente», beh, Ulisse era convinto di essere al di sopra di chiunque altro. E, per soddisfare la sua volontà di superamento di un limite che nessun altro aveva superato, inganna i suoi compagni fino a non poterli nemmeno più trattenere.
Se, nel corso della sua vita, Ulisse era stato fraudolento per ragioni storiche, che non lo giustificavano, ma che potevano comunque spiegarne il comportamento, in questo caso è fraudolento per ragioni che possiamo ben chiamare metastoriche: al di sopra e al di là della storia. Quali sono, infatti, queste ragioni? Al di sopra e al di là della storia c’è lui, Ulisse. E basta. Non ci sono altre ragioni.
Per questo, l’anima che Dante incontra là, quasi nel fondo dell’inferno, non è quella di un eroe della conoscenza, ma, vista anche attraverso un metro morale pagano, è quella di un traditore che, a causa della sua superbia, non si ferma davanti a niente.
Vale la pena di ricordare che un altro come lui si trova, lì nell’inferno, poco più sotto: è Lucifero. Anche lui, come è noto a tutti, superbo e orditore di frodi, guarda caso, proprio a proposito della conoscenza.
Note
[1] per cento milia perigli: ‘dopo avere attraversato tantissimi pericoli’.
[2] questa tanto picciola vigilia … rimanente: ‘questa piccola parte di vita che ci rimane’.
[3] la vostra semenza: ‘la vostra origine’, ‘la vostra comune appartenenza al genere umano’.
[4] aguti … cammino: ‘fortemente desiderosi di continuare il viaggio’.
[5] ritenuti: ‘trattenuti’.
[6] volta … nel mattino: ‘rivolta la poppa a oriente’; quindi, con la prua verso occidente.
[7] dei remi … volo: ‘navigammo a tutta forza verso l’ignoto, verso dove era folle navigare’ Su questo verso ritornerò di seguito nel testo.
[8] Tutte le stelle … suolo: ‘la notte’, soggetto astratto al posto di “noi durante la notte”, ‘vedeva già le stelle della calotta celeste dell’emisfero australe; a sua volta, l’altra calotta appariva molto vicina alla linea dell’orizzonte’.
[9] casso: ‘spento’; il lume della luna acceso e spento cinque volte misura cinque mesi lunari, circa centoquaranta giorni.
[10] turbo: ‘turbine’.
[11] Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, a c. di Nicola Fosca, Aracne, Canterano, 2018.
[12] In Occidente, qualche parola di greco comincerà a conoscerla (e male) il Boccaccio, qualcuna in più (e un po’ meglio) il Petrarca, ma la lingua greca e gli autori greci saranno conosciuti solo nel XV secolo dagli umanisti.
[13] Giovanni Cerri, Dante e Omero. Il volto di Medusa, Argo Editrice, Lecce, 2006.
[14] Vd. Lino Pertile, Dante, la morte di Ulisse e la rovina dell’Odissea, in: “Letteratura Italiana Antica”, 20 (2019), pp. 171-189. L’altro studio di questo autore al quale faccio riferimento, Dante, Ulisse e l’altro viaggio (Inf. I 91), in: “DANTE, Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri”, IV (2007), si può leggere qui.
[15] «All’epoca di San Girolamo [Properzio] cominciava a non essere più conosciuto. Nel sec. XIII la Francia già lo conosceva, come conosceva Tibullo; e in Francia lo conobbe il Petrarca»Ettore Paratore, Storia della letteratura latina, Sansoni, Firenze, 1962, p. 485.
[16] Virgilio, Eneide, trad. di Aurelio Privitera, Fondazione Lorenzo Valla, Milano, 1981.
[17] Si veda il commento di Nicola Fosca che ho citato più sopra.
[18] Beatrice dichiara a Virgilio nel II canto dell’Inferno: «Donna è gentil nel ciel che si compiange / di questo ‘mpedimento ov’io ti mando, / sì che duro giudicio là sù frange» (il corsivo è, ovviamente, mio).