Ho scritto la poesia Fermate di città poco più di venticinque anni fa. Non considero mai importante il contesto biografico nel quale nasce un testo poetico, ma posso aggiungere, per soddisfare la curiosità di qualcuno dei circa venticinque lettori di questo blog, che allora facevo il pendolare tra Velletri e Roma e che la quantità di tempo che passavo sui mezzi pubblici costituiva una parte consistente della mia vita. È trascorso, dunque, poco più di un quarto di secolo, non faccio più il pendolare, ma le cose che ho scritto allora in questa poesia a proposito del tempo passato sui mezzi pubblici di Roma mi rappresentano ancora perfettamente.
Fermate di città è stata pubblicata nella raccolta La mente irretita, pubblicata da Manni nel 2008 e il suo titolo è diventato anche il titolo di una sezione di quel libro nel quale erano riunite le poesie dedicate ad alcune città che avevo attraversato per un tempo più o meno lungo. Ecco, ora mi è venuto in mente di pubblicare su questo blog, dopo un lungo silenzio, alcune delle poesie che, in quella raccolta e in altre, ho dedicato alle città. Inutile dire che non potevo avviare questo nuovo percorso del blog se non con quei versi scritti poco più di un quarto di secolo fa. Eccoli, qui sotto.
Michele Tortorici
Fermate di città (da La mente irretita, Manni, 2008)
È un grano della mia quotidiana
stanchezza questo salire sull’autobus e aspettare
in piedi senza occhi, stretto
dalla calca, fermate di città e sentire scorrere
il selciato come pensieri logorati dal continuo
ritornare e poi da una memoria che li lega e così
li trattiene al di qua della possibile
dissipazione. Un poco sarà la quotidiana
routine di attraversare
posti sconosciuti, riconoscibili
però dai segni sempre uguali che ritrovo, sarà
il richiamo del sempre uguale tempo che separa
luoghi e luoghi e cieli visti
attraverso pareti di palazzi con le loro spie
di intonaco malato e di ringhiere
arrugginite, ma queste fermate di città
perseveranti, ogni giorno
ripetute, sono i confini
che conosco, i contorni della mappa che mi sono
costruita e che percorro
come – ricordo – le caselle
numerate della campana con i segni
di gesso tracciati sul marciapiedi e le ragazzine
che li saltavano. Sono – queste fermate – le pareti
che ritrovo anche al buio, la mia casa che si slarga
fino a qui, fino – ogni volta –
a un riconoscimento di me,
piuttosto che per chi o per come, per dove
mi trovo. Mi trovo
lungo piccole strade, binari
stretti da strisce gialle e mi attraversano
piccoli eventi che non saprei neppure
dire quando sono accaduti e chi c’era e chi
era passato prima ed era già altrove perché tutti
coloro che ho visto non ho mai saputo
chi erano. Sarà proprio per questo che ogni giorno
alle fermate riconosco
ciò che ritorna e ciò che passa e ombre e luci
e la città diventa mia.
Come al solito, e come è chiaramente detto nel saluto ai lettori di questo blog, non sarò un fulmine, ma, vi assicuro, tornerò presto con altri versi su altre città.