Nella provincia culturale d’Italia che riempie le pagine dei giornali con i dibattiti sui lucchetti e che sembra non riuscire più ad alzare lo sguardo, la morte di George Whitman, avvenuta il 14 dicembre scorso, ha rappresentato soltanto l’occasione per più o meno idealizzati necrologi, quasi sempre rielaborati a partire da quello pubblicato nel sito della sua mitica libreria parigina “Shakespeare and Company”. Con un colonnino “di colore” nelle pagine della cultura i maggiori quotidiani nazionali (con alcune illustri eccezioni: per esempio “Repubblica”, che l’ha dimenticato del tutto) hanno ritenuto di adempiere al loro obbligo professionale. Coscienza a posto per una ventina di righe. E poi subito a occuparsi ancora di lucchetti.
Il fatto è che Whitman, con quella libreria al 37 di Rue de la Bûcherie, non ha fatto soltanto una lunghissima opera di diffusione del libro e della lettura, non ha soltanto portato avanti una rivoluzione del costume mettendo letti per scrittori e lettori in viaggio vicino agli scaffali e omettendo di denunciare i ladri di libri del suo negozio: George Whitman ha costituito una eco decisiva per l’Europa di ciò che accadeva, soprattutto negli anni Sessanta, nella cultura e nella poesia americana.
Chi di noi avrebbe conosciuto i Ginsberg, i Corso, i Burroughs, i Ferlinghetti, se non ci fosse stata questa eco europea di quello che loro scrivevano e facevano? È vero che la altezzosissima Europa (con l’arretratissima Italia, naturalmente, al primo posto) ha poi pensato di poter fare a meno delle straordinarie suggestioni che da questi poeti giungevano. Ma intanto chi voleva ha potuto conoscerli, si è poi affidato alla grande opera di traduzione e interpretazione di Fernanda Pivano, ha seguito le loro storie che si sono via via spostate da Parigi a New York a San Francisco, ha imparato un linguaggio nuovo che, almeno a qualcuno (e io sono tra questi), ha liberato la testa da tanto ermetismo d’accatto vigente in Italia in quegli stessi anni e ancora oggi non sradicato, ha permesso di trovare nuovi ritmi e di affacciarsi su nuovi orizzonti: questi ultimi collocati sul versante opposto rispetto a quello che la neoavanguardia italiana, magari con scopi analoghi, percorreva contemporaneamente.
Da lì, da quella libreria anglo-americana di Parigi (davanti alla quale, come si può vedere qui a fianco, sono stato anche io), abbiamo avuto l’eco di un’epoca nuova della cultura occidentale. Nuova e al tempo stesso antichissima: non è forse vero che, sulla porta della “Shakespeare and Company”, la poesia è tornata a essere suono, a essere detta ed eseguita, come ai tempi di Omero e di Esiodo, dopo secoli di poesia soltanto scritta? Naturalmente, bisognava stare a sentire. Anche allora, come oggi, bisognava leggere notiziole più di costume e “di colore” che di cultura, affidarsi a trafiletti di poche righe, poi leggere i versi della Beat generation e aspettare che germogliasse qualcosa nella propria anima.
Nel frattempo è successo anche il contrario. È successo che, preso esempio da Whitman, Lawrence Ferlinghetti ha creato la sua libreria “City Lights” a San Francisco, dove ha fatto conoscere e amare i poeti europei (tra gli italiani, più di ogni altro, Pasolini). In quella libreria di San Francisco è nata la grande stagione dei readings, delle letture (rimaste nella storia quelle di Ginsberg) che anche in America, soprattutto in America, hanno riportato la poesia alla essenza sonora delle sue origini.
Non sarebbe il caso di discutere di tutto questo? Non sarebbe il caso di farlo in questo paese dove i readings li abbiamo scoperti decenni dopo per farne una piccola moda un po’ snob da esibire nei festival di poesia? Non sarebbe il caso di farlo in questo paese dove si discute di librerie solo quando chiudono?
Evidentemente non è il caso. O così pensano i nostri intellettuali.
Lasciamoli parlare di lucchetti!
P.S.
Trascrivo qui sotto la traduzione del necrologio apparso sul sito della libreria “Shakespeare and Company”.
Mercoledì 14 Dicembre 2011 George Whitman è morto serenamente nella sua casa, un appartamento sopra la sua libreria, “Shakespeare and Company”, a Parigi. George aveva avuto un ictus due mesi fa, ma ha mostrato incredibile forza e determinazione fino alla fine, continuando a leggere ogni giorno in compagnia di sua figlia, Sylvia, dei suoi amici, del suo gatto e del cane. È morto due giorni dopo il suo novantottesimo compleanno.
Nato il 12 Dicembre 1913, a East Orange, nel New Jersey, George si trasferì a Parigi nel 1948 e vi aprì nel 1951 la libreria “Le Mistral”, in seguito ribattezzata “Shakespeare and Company”. Il negozio, stipato da parete a parete da libri e da letti destinati agli scrittori in viaggio, è cresciuto rapidamente fino a essere un paradiso per gli amanti dei libri e per gli autori, mentre George diventava un’istituzione originalissima della Parigi letteraria. Nel 2006 fu premiato con l’Officier des Art et Lettres dal ministro della Cultura francese per il contributo da lui dato alle arti durante tutta la sua vita.
Dopo una vita interamente dedicata ai libri, agli autori e ai lettori, George mancherà molto a tutti i suoi cari e ai bibliofili di tutto il mondo che hanno letto, scritto e e sono stati nella sua libreria per oltre 60 anni. Soprannominato il Don Chisciotte del Quartiere Latino, George sarà ricordato per il suo spirito libero, la sua eccentricità e la sua generosità, tutti e tre riassunti nei versi di Yeats scritti sui muri della sua libreria sempre aperta e frequentatissima: «Non essere inospitale con gli sconosciuti / potrebbero essere angeli sotto mentite spoglie “.
George sarà sepolto al cimitero di Père Lachaise a Parigi, in compagnia di altri uomini e donne di lettere, come Guillaume Apollinaire, Colette, Oscar Wilde e Balzac. La sua libreria continua, gestita dalla figlia.