Giovanni Pascoli, X Agosto
Il gesto e la parola

Finisce, senza troppe celebrazioni l’anno in cui ricorreva il centenario della morte di Giovanni Pascoli.
Con una certa testardaggine – e, non lo nego, con un pizzico di presunzione – mi propongo di celebrarlo io, questo anniversario, anche nell’ultimo giorno utile, dopo averlo già fatto in questo altro post. Lo faccio con la lettura di una poesia, X agosto, che, dopo aver goduto per parecchi decenni di una grande fortuna, viene ora ben poco menzionata nei manuali di storia letteraria e ancor meno riportata nelle antologie scolastiche, stando, almeno, ai libri di testo che ho consultati. D’altro canto, la fortuna che X agosto aveva avuto dipendeva dal fatto che questa poesia veniva “usata”, con particolare destinazione ai bambini, come commovente richiamo agli affetti familiari, alla mitologia del “nido”, al rapporto tra dolore personale e male universale. E tutto questo c’è nella poesia. Ma, se ci fosse solo questo, diciamo la verità, potremmo anche capire il suo declino, scolastico e no.
Però avremmo torto, perché non c’è solo questo. Difatti, a leggerla da adulti, X agosto ci lascia senza fiato, ci richiama a una storia tutt’altro che limitata al nostro «nido», al tempo nel quale viviamo e che cerchiamo di comprendere. E infine, magari confusamente, ci fa sentire l’importanza del problema della responsabilità rispetto al male.

Da dove viene questa emozione che prima, se l’avevamo letta da bambini, non avevamo avvertita?
Viene da alcune cose che Pascoli ci dice attraverso il suo procedimento abituale: che non è quello di rappresentare e raccontare, ma quello di suggerire per analogia . Questa nuova emozione viene cioè precisamente da quel carattere della poesia pascoliana che ha fondato la poesia italiana contemporanea e l’ha reimmessa nel flusso di quella europea; un carattere che, da Pascoli, ha contagiato i grandissimi del secolo scorso, Montale, Caproni, Zanzotto per fare qualche esempio, ma ce ne sarebbero parecchi altri.
Ora, questo procedimento di suggerire per analogia richiede l’attenzione e la concentrazione di un lettore adulto: bambini accompagnati, direbbe l’avviso prima della proiezione televisiva, se stessimo parlando di un film da vedere sul piccolo schermo. L’analogia pascoliana, che è complessa e talvolta sorprendente, per essere compresa, richiede una vita vissuta, una esperienza attraversata con la propria carne, una riflessione capace di impegnare tutto il nostro spirito.
Pensiamo, per preparare la lettura di X agosto, alla splendida analogia aratro-donna della poesia Lavandare:


Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese.


Nulla viene raccontato: tutto è affidato alla sensibilità percettiva del lettore. E il lettore deve avere vissuto abbastanza a lungo e abbastanza intensamente per fare ciò che il poeta gli suggerisce. La prima cosa che il poeta gli suggerisce consiste nel fermarsi a riflettere su quel «pare» del secondo verso: un verbo decisivo per la comprensione di tutta la poesia e non per caso il poeta dà il segnale di alt con un enjambement la cui potenza farebbe fermare un treno in corsa. La seconda cosa che il poeta suggerisce è quella di ricordarsi di quel «pare» quando, successivamente, nella cantilena delle lavandare (l’ultima quartina), arriva il desolato «come son rimasta! / come l’aratro in mezzo alla maggese». Solo il lettore adulto, il lettore al quale il tempo ha fatto provare la sua personale esperienza di abbandono, a quelle parole grida, come il poeta vuole che gridi: «No!». Perché solo questo lettore può capire – ha capito – che la cantilena, per quanto triste, sbaglia per difetto: la donna non è rimasta affatto «come l’aratro» perché l’aratro «pare / dimenticato», mentre la donna lo è davvero. Poche poesie, nella storia della letteratura mondiale, hanno la capacità di far sentire in modo così fisico, terrestre, corporeo il senso della solitudine e dell’abbandono. Poche poesie hanno la capacità di farci gridare alla fine per avvertire la protagonista – una qualsiasi delle lavandare – che il suo dolore è ancora maggiore di quello che lei stessa sta cantando. Ecco: questo è il procedimento pascoliano del suggerire per analogia del quale ho detto prima: complesso e sorprendente fino al punto da far saltare il lettore sulla sedia. Il lettore adatto, naturalmente.

Nella poesia X agosto (il cui testo trovate qui di seguito) dobbiamo seguire questo stesso procedimento così come abbiamo fatto per Lavandare, ma con l’avvertenza che qui, alla fine, ci verrà da gridare ancora di più perché le cose che Pascoli ci suggerisce investono in questo caso il senso intero della vita umana, della vita umana nella storia e della storia nell’universo. Anche qui, come nella cantilena delle lavandare, il poeta sembra che voglia distrarci con il ritmo, per sorprenderci poi alla fine: l’alternanza di decasillabi e novenari dà ai versi un andamento da ballata popolare (alcune canzoni di De Andrè, per intenderci, usano il decasillabo: vi ricordate, per esempio, «La chiamavano bocca di rosa»?). Rischiamo di farci cullare da questo ritmo fino ad assopirci e di farci svegliare soltanto dalle ultime terribili parole che definiscono la terra come un «atomo opaco del male». Eh no! Ho l’impressione che tanti critici abbiano subìto questo effetto, ma noi, se abbiamo capito l’artificio del poeta, dobbiamo invece restare ben svegli. Servono tutte le nostre capacità, perché qui l’analogia va ricomposta con cura particolare, come in un mosaico, anzi – si direbbe oggi – come in un galleria multimediale.
Il gesto e la parola. Con questi due diversi media dobbiamo comporre il nostro mosaico per arrivare, ben svegli e consapevoli, a quell’ultimo tremendo verso e capirne così tutta la portata.
Quale gesto e quale parola?
Il gesto è quello della rondine. Tutti si sono soffermati in modo particolare sul fatto che la rondine «ritornava … al tetto», sul fatto che «il suo nido» è rimasto ad attendere. Tutti, cullati dal ritmo della ballata, hanno guardato all’analogia nido-casa, che c’è, ma è come data per scontata, fa parte di un bonario cenno d’intesa tra poeta e lettore. Questo soffermarsi sul «nido» ha però fatto sottovalutare il gesto della rondine, che è «là come in croce». E questo non è scontato, tutt’altro. Il gesto della crocifissione, il gesto di chi ha subito la crocifissione non ce lo aspettavamo. Qui siamo ben fuori dal nido. Qui il lettore si ferma, se è stato attento, si piega a raccogliere pietosamente la tessera del mosaico con la rondine «come in croce» e la tiene con sé.
La parola è quella dell’uomo: «Perdono». Arrivare a questa tessera è stato abbastanza facile. La parola «Perdono» si trova all’inizio delle due quartine della poesia dedicate alla descrizione dell’assassinio dell’uomo e condiziona la lettura dei versi successivi. Ma bisogna capire che questa parola è la seconda decisiva tessera del mosaico. Quella che serve per completare il mosaico al lettore che ha gelosamente conservato la prima tessera contenente la rondine «come in croce». Non c’è più solo il gesto. Ora c’è anche la parola. Di conseguenza abbiamo la ricostruzione completa dell’evento.
Sì, la parola detta dall’uomo ci fa capire che è proprio di quell‘evento lì che sta parlando il poeta. È di quella crocifissione lì che si tratta. Ancora una volta – l’abbiamo già visto in Lavandare il «come» è superato dalla forza dell’analogia. Se mettiamo insieme il gesto e la parola, capiamo subito che la rondine non è soltanto «come in croce»; è in croce, partecipa, insieme all’uomo – come se tutto il creato fosse chiamato a farlo -, all’evento della crocifissione, un evento che si definisce e assume il suo pieno significato con la vicinanza del gesto della rondine e della parola dell’uomo. Insieme, quel gesto e quella parola collocano infatti ciò che è accaduto del tutto fuori dalla piccola attualità del nido, lo collocano nel tempo, nella storia, in una storia nella quale la crocifissione, quella di Cristo, quella lì, si è posta come spartiacque: da una parte il male irredimibile, dall’altra la possibilità della redenzione da quel male, ma non il suo superamento. Anzi, proprio dopo quell’evento, dopo quella crocifissione lì, quella che ha spaccato in due la storia, l’uomo, finalmente liberato dal peso del male passato, ha potuto – ma quindi ha anche dovuto – accogliere per intero sulle sue spalle il peso della responsabilità del male e del bene.
Quella che il poeta ci suggerisce, con la straordinaria analogia composta con le tessere di mosaico che abbiamo appena esaminate, non è solo la partecipazione universale a un dolore personale. È invece un’idea generale del mondo. Il mondo, l’«atomo opaco del male» che il «Cielo» inonda con «un pianto di stelle», richiede ogni giorno una crocifissione: questo è il peso, questo è il senso profondo della responsabilità dell’uomo nella visione del Pascoli. La crocifissione è oggi, è ogni giorno. Il ripetersi della crocifissione è il modo dell’uomo di star dentro a quell’«atomo opaco», è l’atto di dignità di chi non si sottrae al sacrificio e di chi, ogni volta, è capace di rinnovare il suo dire «Perdono», è l’atto di dignità e di coraggio di chi, ogni volta, è consapevole che quella non sarà l’ultima. Un’idea terribile di mondo? No, un’idea che prende atto del male, del male nonostante Dio (il «Cielo» è scritto ben maiuscolo), e che, proprio per questo esserci del male nonostante Dio, propone all’uomo di guardarlo in faccia e caricarselo sulle spalle (insieme a tutti gli esseri del creato, insieme anche alla rondine), senza aspettazioni salvifiche né ripari o nascondigli cercati in un ottimismo fuori luogo.
Siamo di fronte a una delle più straordinarie immagini della responsabilità dell’uomo di fronte ai suoi simili che la poesia abbia mai prodotto.

Giovanni Pascoli, X Agosto (da Myricae, 4a edizione, 1896)


San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.

Ora è là come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido
portava due bambole in dono…

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
Oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!