L’altro ieri è stata la “Giornata mondiale della terra”: la terra, questo strano «angolo dove / fortuitamente nell’universo si scioglie / la vita» (così come ho scritto nella poesia Hai ragione, Bruno, che i libri, ne La mente irretita, Manni, 2008). Ieri i giornali erano pieni di articoli su quanto l’altro ieri era stato detto (molto) e fatto (niente). Oggi non se ne parla più, o quasi. Certe volte la mia lentezza è vantaggiosa.
Tra tutto quello che è stato scritto, un articolo di Stefano Mancuso su “Repubblica” è stato, finalmente, chiaro. Mancuso ci avverte che, con le attuali politiche, «[…] se anche tutto andasse per il verso giusto e riuscissimo a convertirci in un tempo incredibilmente breve in esseri del tutto ecologicamente transitati, non avremmo affatto diminuito la concentrazione di CO2 nell’atmosfera, bensì ne avremmo soltanto ridotto la velocità con la quale aumenta». Subito dopo Mancuso fa un esempio straordinariamente semplice e comprensibile a tutti e arriva a una constatazione terribile e, al tempo stesso, a una proposta piena di speranza. Cito qui la conclusione del suo articolo.
Stefano Mancuso
Cominciamo dagli alberi, su “Repubblica”, 23 aprile 2021
Permettetemi un esempio per chiarire questo punto. Se vogliamo ridurre il livello di acqua all’interno di una vasca, le azioni che idealmente dovremmo effettuare sono aprire lo scarico e chiudere il rubinetto. Nessuno penserebbe mai di ridurre il livello dell’acqua nella vasca, lasciando lo scarico chiuso e riducendo la portata del rubinetto. In questo caso il livello dell’acqua continuerebbe a crescere, seppure più lentamente. È esattamente questo il massimo del risultato che possiamo attenderci qualora tutto andasse per il verso giusto: che la CO2 nell’atmosfera aumenti più lentamente. È lo stesso approccio che è stato adottato da tutte le Cop succedutesi negli anni. Con quale risultato? Che la CO2 nell’atmosfera è cresciuta nell’ultimo decennio (2010-2020) ad una velocità quasi doppia di quanto non sia cresciuta nel decennio precedente (1990-2000). Forse sarebbe il caso di aprire lo scarico se davvero vogliamo ridurre la CO2. Come? Sottraendola all’atmosfera con l’unica cosa in grado di farlo: gli alberi. Non sarà molto tecnologico, ma state certi che funzionerà. È già successo nella storia del pianeta.
«Non sarà molto tecnologico», è vero, ma è la cosa che io ho fatto da tanto tempo e che continuo a fare. Ogni volta che mi sono trovato a possedere un pezzetto di terra, anche sapendo che dopo qualche anno quel pezzetto di terra non sarebbe stato più mio, ho piantato alberi, arbusti, le piante più diverse che avevano però in comune una cosa: erano in grado di sottrarre CO2 all’atmosfera. E portavano bellezza.
Ho parlato di questa mia vera e propria mania nel poemetto Piante del mio giardino (Campanotto, 2018), ma anche in molte poesie sparse in varie raccolte. Qui, proprio in omaggio a Stefano Mancuso, voglio trascrivere una poesia che già nel titolo ricorda la sua proposta. Pubblicata nel 2008, questa poesia è stata scritta nel 2002 e, dopo di allora, ho piantato alberi in molti altri posti rispetto a quelli dei quali parlo qui. Quelli che ho piantati (e che continuo a piantare tutti gli anni) «nell’isola piatta / dove il vento e il mare li hanno piegati / su pietraie di arenaria», cioè a Favignana, ora costituiscono una straordinaria macchia mediterranea, si sono alzati dalle «pietraie di arenaria» e i più grandi, sicuri di sé, sfidano il mare e il vento da altezze notevoli. Non saprei dire quanta CO2 hanno sottratto all’atmosfera, ma posso dire che sono un incanto.
Michele Tortorici
Ho fatto crescere alberi (da La mente irretita, Manni, 2008)
Ho fatto crescere alberi come sentimenti, li ho piantati
dove il terreno soffice li ha fatti attecchire alti su colline
che con pacatezza lentamente declinano
verso il Tevere e nell’isola piatta dove il vento
e il mare li hanno piegati
su pietraie di arenaria. Molti
li ho dimenticati e ora
non saprei riconoscerli. Forse si saranno
disseminati come amori di adolescenti, come febbri
che mani e mani avvertono stringendosi, come sospiri
raccolti sotto possibili cieli vicini, quasi toccati.
Ho fatto crescere alberi che d’ombre
coprono luoghi perduti, su strade
che non percorro più, che non saprei
ritrovare nel viaggio attraverso paesi ogni giorno
nuovi, ogni volta inaspettati
ammassi, magazzini
saccheggiati di memorie; paesi dove il tempo
corre all’impazzata e infiniti ritorni
segnano orme incerte. Non ho altra patria:
ho quelle radici infossate che consumano
sedimenti e così vivono. È questa la ragione per cui voglio
essere pellegrino, affrontare cammini consacrati, attraversare
santuari di roccia vivi. Non c’è strumento che riveli tracce
di questi disordinati passaggi. Il suolo è a volte una leggera
boa dove s’abbarbica la speranza come muschi
salati, uno scoglio dove semi
di acacia giungeranno con la prima alluvione.
Ora, se tiro le somme in questa – o forse in un’altra –
vita, le mani sono radici, rami che spazi celesti
trascinano. Anche la memoria che s’attarda
tra superflui gesti o sogni o tempi precipita grumi
di cielo, granelli di luce che tornano
polvere, ma accendono
tutto ciò che è vivo o che ha vissuto.
Ho fatto crescere alberi come libere macchie o piuttosto
come imprecisate storie. Ciascuno con il suo
regno penetrato nel profondo e nell’alto, come se fosse
possibile sostare in una piaga del tempo voluta
− o tollerata − dalla divina gelosia. Storie che un sacrario
potrebbe raccogliere ma che non hanno segni
di umane identità: nomi, volti, oggetti posseduti
− e i possessori −; storie, insomma, accadute, ma non si sa
a chi, o perché.
Ho fatto crescere alberi ma ho poi dimenticato
di prendere coordinate e punti
di riferimento, di marcare il terreno, di segnare
contorni, livelli, tutto ciò
che individua un luogo e la sua storia, gli uomini
che vi sono passati gli atti, i meriti, le colpe. Li ho fatti
crescere, ma senza aspettare giudizi. Alberi
soltanto.