Quarant’anni fa dal giornale radio delle sette del mattino del 12 settembre – se non ricordo male – ebbi le prime notizie del golpe militare in Cile. Notizie, almeno le prime, frammentarie e incerte: di sicuro c’era soltanto la presa del palazzo presidenziale e la morte di Salvador Allende. Subito fissai dentro di me quelle notizie con l’immagine della notte. Naturalmente non sapevo quello che sarebbe successo nei giorni, nelle settimane e negli anni successivi. Non potevo prevedere la ferocia di un regime dittatoriale disumano che sarebbe passato alla storia per la pratica sistematica della tortura, per gli oltre tremila assassini accertati degli oppositori (ma il numero”reale” degli assassinati è probabilmente più di dieci volte superiore) e per i milleduecento desaparecidos. Ma, per una di quelle intuizioni che a volte fanno capire i fatti meglio di tante analisi, vidi la storia che entrava in una notte e mi resi conto di non riuscire a vedere il giorno che sarebbe seguito.
È vero che il Cile era dall’altra parte del mondo. Ma mi era vicino – come era vicino a tanti ragazzi italiani della sinistra di quegli anni – per la sua poesia, quella di Pablo Neruda, per la sua musica, quella degli Inti-Illimani o di Victor Jara, per la bellezza – sì: la bellezza – del percorso di democrazia e giustizia sociale, quello intrapreso da Salvador Allende, che negli ultimi tre anni avevamo seguito passo passo con ammirazione e trepidazione.
Da quel momento di quarant’anni fa, ogni volta che ho avuto la percezione del venir meno di una lucida prospettiva di speranza in qualsiasi parte del mondo, compresa quella dove mi trovo a vivere, ho avvertito in quella percezione la stessa immagine della notte. E, ogni volta, non ho potuto non ripensare a quel golpe come a qualcosa, oltre che di storicamente accaduto purtroppo, anche di simbolico, di tragicamente evocativo
È per questo che, quando circa quattro anni fa ho scritto le tre poesie della piccola raccolta Versi inutili e altre inutilità, versi sul mio modo di vedere la storia dei nostri ultimi venti anni, mi sono quasi sentito trascinare da quel simbolo e non ho potuto fare a meno di evocare, a proposito della notte che l’Italia sta attraversando, anche quell’altra notte tanto più tragica e profonda.
E dunque, il mio modo di ricordare che sono trascorsi quaranta anni dal golpe cileno consiste nell’offrire alla vostra lettura la prima delle tre poesie della raccolta, quella nella quale, appunto, ricordo quel golpe attraverso la figura di Victor Jara (nella foto). Per i più giovani ricordo che Victor Jara (1932-1973), cantautore cileno, membro del Partito comunista, fu arrestato l’11 settembre, subito dopo il colpo di stato di Pinochet, e rinchiuso nell’Estadio Chile trasformato, come è noto, in campo di concentramento. Per evitare che potesse suonare o scrivere, gli furono spezzate le mani. Ma lui riuscì lo stesso a comporre i versi della canzone Estadio Chile, forse dicendoli e facendoli imparare ai compagni di prigionia. Questi versi uscirono poi da quello stadio e oggi sono una delle poche cose che restano di quei giorni immediatamente successivi al golpe, di quella notte della democrazia e dell’umanità. Oggi l’Estadio Chile, dove il cantautore fu assassinato – forse – il 16 di settembre, si chiama Estadio “Victor Jara”.
Ho dedicato questa poesia a Giovanni Perrino, poeta e amico che ha scritto, tra gli altri, il bel libro Ellis Island (Interlinea, 2007). Una delle poesie di questo libro comincia con il verso «Bisogna pure ricominciare, per sciatteria o viltà». Anche se io ho plagiato le sue parole, anche se ne ho in parte tradito il senso e se ho persino chiamato «stramaledetto» (ma solo perché ce l’avevo continuamente in testa) il suo verso, Giovanni non mi ha tolto l’amicizia.
Michele Tortorici, Versi inutili (da Versi inutili e altre inutilità, Edicit, 2010)
A Giovanni
Bisogna pure ricominciare per sciatteria o viltà, bisogna
– ti dico io – ricominciare ogni giorno che capita e sapere
che andare avanti può dipendere dalle quotidiane
pigrizie (o eccitazioni, fa lo stesso)
che ci spingono, comunque sia, a vivere.
Ricominciare
ogni giorno che capita. È un modo di dire. Dalla notte
dove siamo
non ce la facciamo a uscire e il buio
che s’intorbida dilata
le nostre pupille e noi aspettiamo la luce, ma quando
sarà tornata potremmo
non vedere ancora. Sarebbe bella! Uno scherzo
della nostra natura: le pupille
sono fatte così. Ma tutta
questa storia di sciatteria e viltà, questo stramaledetto verso
che mi è rimasto in testa ed è cocciuto
come un moscone ammaliato
dal non-senso del vetro dove sbatte, l’una
e l’altro non sono uno scherzo – è evidente.
Ricominciare
ogni giorno (e sia pure per modo di dire) che capita: quello che posso
fare è scrivere – non aspettarti chissà che cosa – versi
come sempre, come è
nella loro essenza,
inutili, anzi, date le circostanze, lo capisci, i più inutili
che mi vengono in mente. Non so scrivere inni d’altro canto
(sacri o profani), ammesso che gli inni (in una
qualsiasi delle due specie) siano utili, e neanche
so a che cosa inneggiare: mi viene in mente la luce perché vorrei proprio
ora vederci più chiaro.
Ma in questa notte dilata il buio che s’intorbida le nostre
pupille tanto che non sappiamo se quando
sarà tornata la luce vedremo davvero di più o se saremo
ciechi ancora.
E poi c’è un’altra cosa: non so neppure gridare, non saprei
nemmeno
per strada strillare i miei versi per farli
ascoltare, anche solo per caso, a chi è lì che cammina.
Mi chiedo come faranno
i suonatori ambulanti a fare sentire
le loro canzoni sui tram, a farle sentire persino
nelle carrozze della metro.
E poi c’è un’altra cosa
ancora ed è
più importante: non so come sia potuto accadere che i versi
di una canzone siano stati
detti uno dopo l’altro in uno stadio
di prigionieri (non si poteva
scrivere lì) e insomma siano stati creati e fermati
in una memoria
comune così come echi continuamente
ripetuti e tutto questo sia stato fatto da chi
sapeva che nessuno
di quei versi gli sarebbe servito a niente per vivere, però
di quei versi ciascuno poteva
essergli compagno per morire. Ricordi Victor Jara, Estadio Chile? Non so
come sia potuto accadere, ma dev’essere
stato lì tutto un mischiarsi di versi e di sangue e di mani
spezzate e di morte e so per certo che i versi
detti e ridetti tra tutto
quello che accadeva erano la cosa più inutile, però è anche vero che sono
l’unica cosa che ora
ci è rimasta di quella notte – Estadio
Chile, Santiago dall’undici
al sedici di settembre.
Ed era una notte – lo so – diversa da questa. Ma ciò
non toglie che adesso
il buio dilata, torbido
com’è, le nostre pupille e non sappiamo se quando
sarà tornata la luce vedremo davvero di più o se saremo
ciechi ancora.
Io penso che, se qualcuno riuscisse
non a gridarle, piuttosto
a spargerle nell’aria le parole
di questi versi sarebbe
come se la loro inutilità non fosse un’astrazione, ma
un aerosol da spruzzare; ci sarebbe comunque l’effetto di non soffocare,
almeno io che le ho scritte, queste parole, tu
che le leggi, gli altri, se ci saranno, che le raccoglieranno
con il loro respiro per la strada.
E se questa notte è malata
e marcisce il suo buio, sarà meglio non irrorarsi
della frescura nemmeno, in ogni caso sarà meglio non credere
che la luce del giorno
arrivi per conto suo. Se la vogliamo, la luce,
toccherà a noi di trovarla, e sia pure con tutte le nostre
quotidiane pigrizie (o eccitazioni, fa lo stesso),
o forse proprio per quelle,
per quella incompiutezza che accompagna
la nostra umanità dentro a questa storia di sciatteria e viltà che ci è
venuta addosso e non è uno scherzo – è evidente.
Versi inutili. Però è anche vero che se
– meglio di niente – la loro inutilità non fosse un’astrazione, ma
un aerosol da spruzzare e riuscissimo a spargerli
davvero in un modo o in un altro nell’aria, potremmo non soffocare
di questo marcire del buio e fare catena di mani con chi c’è (almeno
io che li ho scritti, questi versi, tu
che li leggi, gli altri, se ci saranno, che li avranno raccolti
con il loro respiro per la strada) e riusciremmo a trovarla
noi la luce del giorno. Dopo
si tratterà di vederci di nuovo, se l’avremo trovata, la luce, e sia pure
con tutte le nostre
quotidiane pigrizie (o eccitazioni, fa lo stesso),
o forse proprio per quelle,
per quella incompiutezza che accompagna
la nostra umanità dentro a questa storia di sciatteria e viltà che ci è
venuta addosso e non è uno scherzo – è evidente.
Novembre 2009
Il volume Versi inutili e altre inutilità è stato pubblicato nel 2010 dall’editore Edicit di Foligno.