Il ritorno a Velletri dalle vacanze non è stato lieto. A Velletri manca oggi, infatti, qualcuno: il signor Maurizio Vìdili che, per anni e anni (un quarto di secolo o mi sbaglio?), mi ha servito con professionalità il suo meraviglioso caffè e mi ha donato con generosità la sua straordinaria gentilezza. Come d’altronde faceva con tutti.
Già, la sua gentilezza. Non era soltanto una, pur importante, questione di forma. Dalle poche parole di breve intrattenimento che ogni volta volentieri scambiavamo credo di aver capito che fosse, invece, una sostanziale questione di pace. Mi spiego: ci sono persone che, dalle quotidiane inevitabili battaglie che il loro animo combatte – e sono certo che anche nell’animo del signor Maurizio se ne combattessero – riescono a uscire, anziché con ira o con disagio, con quella che chiamerei una composizione delle parti, un ristabilimento dell’armonia, insomma creando dentro di sé e intorno a sé un ambiente di pace. La gentilezza era dunque in lui l’effetto di qualcosa di più profondo, non la causa di una forma che, in ogni caso, anche di per sé, era preziosa e rallegrava i momenti passati nella sua torrefazione.
Non posso che, sia pure in ritardo, ringraziare il signor Maurizio di questo qualcosa di più profondo, di questa pace che ora è tutta e pienamente sua. Ma, poiché sono convinto che la sua generosità non sia finita con lui e penso che, nel suo ricordo, quella pace possa continuare a essere anche un po’ nostra, proprio al suo ricordo voglio dedicare due cose.
La prima è una pianta di olivo. La ragione di questa dedica è che questa pianta non soltanto rappresenta un simbolo di pace, ma è anche all’origine della seconda passione che il signor Maurizio aveva dopo il caffè e cioè l’olio: l’olivo del quale parlo l’ho messo a dimora non molti giorni fa nell’isola della quale sono originario, Favignana; è di una qualità tipicamente siciliana, la “Giarraffa” (nome che le deriva, credo, dalla forma dei rami, allungati come il collo di una giraffa). Ecco, quella pianta sarà per me e per coloro che la vedranno crescere nei prossimi anni “l’olivo del signor Maurizio”.
La seconda cosa che voglio dedicargli è una poesia che ho pubblicato nel 2012 nella raccolta Viaggio all’osteria della terra. Si intitola Le dune e i laghi salmastri e l’ho scritta a proposito di un luogo dove il signor Maurizio passava le sue vacanze: quel tratto di costa tra Foce verde e Sabaudia nel quale la terra si mischia due volte con l’acqua, da una parte con quella del mare e dall’altra con quella – come dice il titolo della poesia – dei laghi salmastri.
Addio, gentile e caro signor Maurizio.
Michele Tortorici, Le dune e i laghi salmastri (da Viaggio all’osteria della Terra, Manni, 2012)
I
Sono dune, queste, e come tutte le altre dune fermano
il mare semplicemente standosene qui, con il continuo
accumulare e accumulare sabbia. Ed è una sabbia,
poi, così leggera che non la crederesti
capace di opporsi a onde grandi, così soffice
che il corpo vi resta
disegnato se ti stendi e ogni passo vi traccia
piccoli incavi che segnano
confini alla luce e l’infinito
racchiudono così in finite ombre.
Tira il vento, qui, e come in tutte le altre spiagge, quando
è forte, solleva gli ombrelloni e strisce bianche
e rosse e di chissà
quanti altri colori colorano
la sabbia grigia con la loro fuga e sembra
un passatempo che si possa
ripetere per gioco
(viene
da maestrale il vento, viene dalla Provenza, dove ha preso
tutti gli odori che poteva prendere
dalla terra e poi dal mare, quando vi è passato, le saline
vischiosità e tutto
ha portato con sé il vento e lo ha posato
sulla sabbia per l’amore che ha
di queste dune).
Ci sono rimasugli, qui, di vita, concreti come tutti gli altri
rimasugli che il mare
si tira sempre dietro e che trascina
fino alle dune, non sai
se perché siano custoditi o perché possano
consumarsi, nella sabbia.
Il sole
secca e scolorisce insieme, durante l’inverno, quella
multiforme accozzaglia che il rastrello
della pala meccanica, all’inizio
della stagione estiva, pigia
poi a mucchi sul confine
tra la spiaggia piana e il declivio
che sale fiaccamente sulla strada.
C’è infatti una strada qui, sopra il declivio
che divide il mare
dai laghi salmastri. E segue, questa strada, il litorale
come una sofisticata amante incerta
dei piaceri possibili, sedotta
dalla selvatichezza eppure immune
da questa. E gioca, la sabbia, sulla strada il gioco
interminabile di andare
a coprire l’asfalto e poi tornarsene via al primo passaggio
di un’auto, di una moto o anche solo di un vento
diverso da quello che l’ha spinta lì.
E non si stanca mai, per tutti questi
giochi e questi venti, per tutto ciò che fanno i suoi granelli,
non si stanca, la sabbia, di resistere
alle onde, della fatica che veste
ancora un suono antico, del suo ricominciare
ogni volta daccapo. E questo è tutto.
II
Dietro – dietro le dune, intendo – i laghi
salmastri fanno specchio, lungo tutto
il contorno delle sponde al verde fitto
di arbusti aggrovigliati in una bassa, talvolta
spinosa, macchia e poi, nel centro, al cielo,
come per custodirlo dentro una più tranquilla e riparata
cornice.
Penso però che il cielo, per specchiarsi,
non la voglia questa cornice, che non voglia
questo bordo chiuso e che vorrebbe, anzi,
uscirne, non abituato
com’è a certi limiti. Ma i laghi
che riposano laggiù non se ne danno
cura perché l’infinità di quell’alcova dove il cielo
al mare, giorno
dopo giorno, si unisce
loro non la conoscono, non percepiscono
quella vicinanza, sono
indifferenti al fatto che, dall’altra parte appena delle dune
di sabbia, l’infinità di quell’alcova si apre
dove la tua mente, fino a che
vuole, si può spingere, si apre anche al di là dell’ombra
azzurrina che il Circeo
effonde e che non ti impedisce
di vedere – o immaginare – tutta la vastità che si allontana.
Sono le dune che creano
questa separatezza ed è da questa
che sono nati i laghi e l’essere racchiusi, d’altro canto
– e perciò indifferenti –, appartiene
alla loro stessa indole lacustre.
Ora, al contrario della loro indifferenza,
a noi la nostra saggezza permette, quando stiamo
qui lungo la cresta dove c’è la strada, di riconoscere
ciò che di diverso da una parte e dall’altra è separato.
Ora, al contrario della loro indifferenza,
ci fa distinguere – questa nostra saggezza –, mentre ce ne stiamo
lungo la cresta, da questa parte,
la finitezza e di là,
non l’infinito certo, perché non è umana
questa dimensione, però una sua terrena
immagine, una sua rappresentazione che sia
alla nostra portata.
Per questa saggezza, per questa possibilità
che abbiamo di guardare,
dall’una parte e dall’altra delle dune, due
così diverse
misure dell’esistenza e ravvisarle entrambe come parte
di ciò che ci appartiene, per tutto questo – credo –
non è concessa a noi l’indifferenza.