Due anni e mezzo fa, in occasione di una strage di migranti in mezzo al Mediterraneo, ho scritto su questo blog:
«Vecchio Nereo custode di visioni / e di memorie che disvela un divino / capriccio all’improvviso per non so quale / inattesa cedevolezza» ho scritto di me stesso parecchi anni fa in una poesia, La vita dell’isola, pubblicata poi ne La mente irretita (2008).
In questa figura mitologica generata, secondo Esiodo, da Ponto (il Mare) unitosi a Gaia (la Terra), mi sono sempre riconosciuto a causa della doppia natura, terrestre e acquatica, propria di chi, come me, è originario di un’isola. Oggi, 3 ottobre 2013, giorno della strage di miei fratelli e sorelle, di miei figli e figlie migranti, morti in quello stesso mare Mediterraneo nel quale io cerco e vedo la vita ogni volta che me ne faccio avvolgere, oggi questo mio sentirmi Nereo mi porta accanto a tutti loro. Percepisco chiaramente su di me, per il semplice fatto di essermi immerso in quello stesso mare, il peso della loro morte. E, mentre maledico tutti coloro che in queste ore usano i corpi di questi miei fratelli e sorelle, figli e figlie, come strumenti di polemica politica, prego, da laico, che il mare possa offrire quell’abbraccio confortevole che il mondo e gli uomini hanno loro negato.
Potrei non aggiungere altro. Però, proprio in quell’ottobre del 2013 e proprio con le parole che avevo usato nel mio post, ho cominciato a scrivere una poesia che ho finito in questi giorni, nei giorni di una nuova strage di disperati, nei giorni durante i quali in tanti hanno alzato un muro con il rumore delle loro parole e io, invece, sono stato in silenzio. Se ho taciuto, tuttavia, non è perché non avessi anch’io parole da dire, ma perché, per antica abitudine di isolano, rispetto il silenzio del mare e, in particolare, quello della morte in mare. Oggi, a tutti coloro che non hanno contribuito ad alzare quell’insopportabile muro di rumore – un muro fragile, destinato a cadere nei prossimi giorni e a restare giù fino a una nuova strage – presento questa mia poesia inedita, Il silenzio del mare, dedicata ancora a coloro che attraversano il Mediterraneo per vivere, e invece trovano la morte. Chi vuole rileggere quel mio vecchio post, lo trova qui, insieme al testo de La vita dell’isola richiamato all’inizio della nuova poesia.
Michele Tortorici, Il silenzio del mare (aprile 2015)
«Vecchio Nereo custode di visioni
e di memorie» ho scritto tempo addietro di me stesso per la vita
che mi piace condividere,
quando nuoto ore e ore, con il mare, a causa della mia doppia natura,
terrestre e acquatica. Oggi,
per la morte di tanti
fratelli e sorelle, figli e figlie che il Mediterraneo
l’attraversano con addosso
nient’altro che il dolore di vivere – e tutto
per loro finisce lì – questo mio
essermi detto Nereo, figlio della terra e del mare, abitatore
degli abissi, mi tormenta
come se dalle parole che ho scritte vedessi
tornare indietro l’immagine di una inettitudine riflessa
nell’irresolutezza di uno specchio rotto.
Il silenzio del mare che accoglie,
più benevolo e più immemore di una fossa comune, i miei tanti
fratelli e sorelle, figli e figlie
riesco a sentirlo anche dopo che si è alzato
il muro di rumore, di parole urlate, di buonsenso e di odio: a percepire
il silenzio non sono i sensi, è la mente. Ed è in questo silenzio che piango
i miei tanti
fratelli e sorelle, figli e figlie, vicino
a loro come ogni estate mi capita
di essere vicino ai miei cari, quasi un abbraccio, quando sull’isola vado
a posare fiori e parole – anch’esse
mute: è solo la mia mente
a percepirle mentre le pensa – nel piccolo cimitero che si sporge
sul mare e il silenzio
lo avvolge e per questo
un anno dopo l’altro, davanti
a una tomba la vita
mi si appiccica addosso, stretta
nel mio gomitolo di mare dove, anche se invecchio, riesco a sentirlo
il silenzio.