La cavalla storna di Giovanni Pascoli è una poesia di grande interesse e, se non altro per la fama indiscussa della quale ha goduto per molti decenni, merita un posto d’onore nella storia critica di questo poeta.
Il motivo della fortuna che La cavalla storna ha avuto per più di mezzo secolo risiede probabilmente nel fatto che questa poesia possiede un ritmo di cantilena facilmente memorizzabile e quindi ben si adattava a un insegnamento nel quale la “poesia a memoria” costituiva – forse non a torto: ma su questo bisognerebbe scrivere un altro post – uno degli elementi fondanti del programma di italiano di tutti i gradi di scuola. Il ritmo di cantilena, per altro, è dato, più che dagli endecasillabi (una misura di verso per lo più estranea a questo tipo di uso), dalla rima baciata che li lega a due a due dall’inizio alla fine.
Il motivo della sua dimenticanza è forse lo stesso, dato che nel secondo Novecento si è manifestata da parte della critica una maggiore predilezione per le poesie pascoliane di più rilevante impegno sperimentale proprio sul piano del ritmo e del metro.
Eppure, anche in questo testo, mi sembra, il metro è usato in maniera tutt’altro che tradizionale e credo che un criterio meno pregiudiziale di lettura avrebbe indotto anche i critici più amanti della sperimentazione ad analisi più attente e avrebbe evitato condanne sommarie. La cavalla storna, infatti, nonostante la sosta obbligata alla fine di ogni coppia di versi, si rivela, per quanto riguarda il ritmo, una sorta di ripido tragitto in discesa che conduce il lettore dalla “Torre” del primo verso, in una corsa quasi a perdifiato, fino alla vera e propria “rivelazione” dell’ultimo verso: la conferma, attraverso il nitrito della cavalla, di un nome, quello dell’assassino del padre del poeta.
Quest’ultimo, Ruggero Pascoli, era stato ucciso nel 1867 proprio a causa di interessi legati all’amministrazione della tenuta della Torre, di quella “Torre”: lo sapevano tutti e probabilmente tutti sapevano – ma, per omertà, non dicevano – chi era il mandante dell’omicidio che aveva incaricato uno o due sicari e che poi, comunque, era prudentemente emigrato in America. Giustizia, perciò, non era mai stata fatta.
Questa poesia, uscita nell’edizione del Canti di Castelvecchio del 1903, quindi quasi quarant’anni dopo quel tragico evento, costituisce a suo modo, e proprio per il ritmo che la lega tutta in un unico respiro, un atto d’accusa reso con assoluta precisione nell’immagine del penultimo verso: «Mia madre alzò nel gran silenzio un dito». Essa trasforma l’evento privato in un canto epico: tanto è vero che Giuseppe Nava ha evidenziato nel testo indubitabili richiami virgiliani e omerici.
Insomma, La cavalla storna è una poesia che vale la pena di rileggere e, magari – lo consiglio di tutto cuore -, di rileggere a voce alta. In ogni caso è bene vederne anche lo straordinario manoscritto che non esito a definire “multimediale” e che pubblico qui sotto.
Giovanni Pascoli, La cavalla storna (da: Canti di Castelvecchio, 1903)
Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.
Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;
che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.
Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,
tu dài retta alla sua piccola mano.
Tu ch’hai nel cuore la marina brulla,
tu dài retta alla sua voce fanciulla”.
La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte.
O nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:
adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l’agonia…”
La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.
Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:
lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole”.
Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbracciò su la criniera
“O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!
a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona… Ma parlar non sai!
Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come”.
Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.
La paglia non battean con l’unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.
Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome… Sonò alto un nitrito.