La cultura del privilegio (e dell’ossequio) …

… e l’insegnamento di mio padre

C’è una cosa che accomuna i fatti, apparentemente diversi, dei quali si è parlato – o ri-parlato – nei giorni scorsi a proposito della “casta”: un appartamento in buona parte pagato da generosi donatori “all’insaputa” del compratore; un altro, a pochi passi dal primo, acquistato sottocosto per la sentenza di un organo amministrativo forse influenzato da uno dei compratori che di quello stesso organo faceva parte; una vacanza regalata da altri generosi donatori, e sempre “all’insaputa” del destinatario; una contiguità “culturale” con la camorra (indipendente dall’eventuale concorso in associazione di stampo camorristico, che solo un processo penale potrà accertare) per un deputato lasciato in libertà dal voto “di coscienza” della maggioranza dei suoi colleghi.
La cosa che accomuna questi fatti è quella che io chiamo la cultura del privilegio: l’idea che far parte di un gruppo consenta di sfruttare le prerogative pubbliche o private, il potere legittimo o criminale di quel gruppo per fini personali, di solito raggiungibili anche in altro modo. Un magistrato non può forse accendere un mutuo più oneroso, o un alto dirigente dello Stato non può pagarsi una vacanza di lusso? Un deputato di lungo corso non può forse comprare una casa anche molto costosa con i suoi soldi? Un altro non può acquisire prestigio differenziandosi (magari con qualche rischio) piuttosto che partecipando ai valori di una cultura di stampo camorristico? Certamente sì, ma i mille esempi che abbiamo davanti, dei quali quelli oggetto di clamore sono una piccolissima parte, ci dicono che viene preferita una via diversa. E ciò a causa di una cultura lungamente coltivata nel nostro paese per la quale il privilegio è tale solo se visibilmente eccede la misura della normalità. A che pro avere una posizione di privilegio, se poi, per comprare una casa, devo fare come gli altri?

Naturalmente, c’è un rovescio della medaglia. Il mettere concretamente in atto questa cultura comporta un piccolo pedaggio da pagare: quello dell’obbedienza a poteri più forti, a privilegi ancora più radicati. Un regalo, tanto più quando è accolto da un destinatario che, se scoperto, dovrà dichiararsene inconsapevole (e dunque affermare la propria imbecillità), richiama a un doveroso ricambio del favore, che potrebbe anche non essere richiesto, ma che comunque resta lì nell’aria. Se dovesse essere reclamato, chi potrebbe negare quel ricambio?

* * *

Ero andato a trovare mio padre, che non vedevo da tempo perché era stato impegnato a lungo come presidente di una commissione d’esame di corsi abilitanti per docenti. Eravamo a metà degli anni Settanta, se non ricordo male, e accadde un episodio che mi è tornato alla mente proprio in questi giorni.
Bussarono alla porta e andai ad aprire io. Era un fattorino che consegnò un pacchetto, mi fece firmare qualcosa e se ne andò. Quando mio padre aprì il pacco lo vidi diventare improvvisamente serio. Afferrò malamente l’elegante scatola che vi era contenuta, la posò sul grande tavolo ingombro di libri del suo studio, prese l’elenco telefonico, lo consultò con una certa frenesia e infine compose un numero. Io nel frattempo avevo guardato il contenuto della “elegante scatola”: una bellissima stilografica d’oro e un biglietto con molte firme.
La telefonata fu breve, secca. Accertatosi di chi fosse l’interlocutore, mio padre gli ordinò perentoriamente di venire o di mandare qualcuno a riprendersi subito il pacchetto. Punto e basta. Nessuna discussione era possibile.
Naturalmente, quando vidi che posava il telefono, finalmente tranquillo, gli chiesi di che si trattava. Era un regalo dei partecipanti al corso abilitante i cui esami si erano appena conclusi. Devo ricordare, per i più giovani, che quegli esami si erano svolti all’insegna di una violenta polemica dei sindacati: la richiesta era che non fosse bocciato nessun corsista. Al di là delle prese di posizione ufficiali, per quieto vivere, molte commissioni avevano, di fatto, promosso tutti. Quella della quale era presidente mio padre, no. Ma il regalo era stato inviato dai promossi e dai bocciati, tutti riconoscenti – questo era il senso del biglietto e delle firme – per l’equo rigore che aveva accompagnato un esame svolto con correttezza e serenità.
Perché allora il rifiuto? mi venne spontaneo chiedere a mio padre.
«Perché – mi rispose – questa non sarà l’ultima mia commissione di esame. Nessuno deve pensare che io, come presidente, accetti regali d’oro. Né prima né dopo gli esami. Si tratta di un’ombra che ti accompagna. Se fosse stato un libro sarebbe stato diverso, ma oro no. Mai».

Poco più tardi bussò qualcuno che, senza una parola, si riprese il pacchetto.

Molti anni dopo, quando mio padre morì, trovai sul suo comodino un De Officiis di Cicerone (qui sopra il frontespizio del manoscritto Vat. Pal. Lat. 1534) con un segno su una pagina del terzo libro. La frase segnata era questa:


C’è forse qualcosa di così grande valore, o un vantaggio così desiderabile da indurti a perdere la splendida reputazione di “vir bonus”? E davvero che cosa di tanto grande può procurarci questo privilegio, ammesso che sia tale, che eguagli ciò che può portarci via una volta che ci abbia strappato la reputazione di “vir bonus” e ci abbia tolto ogni sentimento di lealtà e di giustizia?


Non è necessario che io aggiunga altro, né per ricordare l’insegnamento lasciato da mio padre, né per manifestare tutto il mio disprezzo per la cultura del privilegio, che è al tempo stesso – non dimentichiamolo mai – dell’ossequio.