La mia poesia Porto di giorni
alle Assises de la traduction littéraire

Si svolgono da oggi a domenica ad Arles, le trentesime Assises de la traduction littéraire, il più importante appuntamento riservato a coloro che traducono da tutte le lingue del mondo in francese. Il tema di quest’anno è “Traduire la mer”, e un posto d’onore viene riservato al romanzo di Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, del quale Monique Baccelli e Antonio Werli stanno portando a compimento l’immane opera di traduzione per le Éditions Attila.

Ma il fatto che mi tocca direttamente – e che mi emoziona nel profondo per l’esplicito e autorevole riconoscimento nei confronti del mio lavoro – è che la produzione poetica italiana è rappresentata in queste Assises dalla poesia Porto di giorni, tratta dalla mia più recente raccolta di versi, Viaggio all’osteria della terra. In questa raccolta Porto di giorni dà il titolo alla intera prima sezione dedicata al mio rapporto con il mare e con l’isola di Favignana, che è centrale nella mia poesia. Mi fa perciò particolare piacere che proprio questo testo sia stato scelto nell’anno nel quale le Assises hanno come tema “Traduire la mer”.
Sarà Danièle Robert, bravissima e appassionata traduttrice insignita l’anno scorso del prestigioso Prix Nelly Sachs, a condurre il 10 novembre prossimo l’atelier sulla versione in francese, ancora inedita, di questa poesia.
Inutile aggiungere che terrò informati i venticinque lettori della uscita degli atti relativi a questo atelier.

Al pubblico francese, che ha dimostrato in questi anni uno straordinario amore per i miei versi, e a tutti i miei lettori italiani dedico la pubblicazione in questo blog di Porto di giorni.

Michele Tortorici, Porto di giorni (da Viaggio all’osteria della terra, Manni, 2012)


Tornano le barche tutti i giorni al porto; e tornano
al porto i giorni con la loro
pazienza, con la cocciutaggine
che è necessaria perché non manchino mai coi loro soli
alti e bassi e poi le loro lune
cangianti. Tornano le barche e tornano
i giorni sui moli e si diffonde
l’attesa come l’eco
fa quando risuona sulle pareti alte che riparano,
dal lato di scirocco, il porto.

Porto dove le barche antiche hanno
nomi di santi usciti certe volte
da un calendario anch’esso antico, un calendario
che altrove sarà stato
dimenticato ed è rimasto qui perché si è invischiato nei detriti
salati che si ammassano e poi seguono il vento come i ragazzini
fanno con il pallone per le strade
che di là dalla Plaia alla rinfusa
si allontanano.

Porto di giorni visti mille volte, di ritorni
pervicaci tanto che li credi immutabili, di cicli ordinati, o pensati
così, comunque
rassicuranti.

Porto di giorni che fortunosamente,
uno dopo l’altro, cadono tra questi moli dove
anche loro rimangono invischiati nei detriti
che il mare accumula e che poi si disfano
in un marciume liquido: nessuno
sa quando – e se – altre correnti
riusciranno a sospingerli via di nuovo al largo.

Porto di giorni che, anche quando la folla per mercanteggiare
il pesce, d’agosto, si assiepa fin sul bordo
della banchina, ostinatamente ritornano, ai vocii
indifferenti, indifferenti a tutti i calpestii. E allo stesso modo
che respira, al tendersi
e allentarsi delle corde,
ogni barca ormeggiata, i giorni pure, col moto delle onde,
respirano qui in un alternarsi
di slanci e tregue, premure e svogliatezze. E l’eco
risuona sulle pareti alte che riparano,
dal lato di scirocco, il porto.