Alcuni amici si sono meravigliati del fatto che i miei Versi inutili, a leggerli, non corrispondono all’idea che se ne erano fatta, prima ancora di leggerli, in base al titolo. Pensavano a testi di ripiegamento e di rinuncia, a una sorta di mio ritiro sull’«Aventino» in attesa di tempi migliori.
E invece mi scrivono di aver trovato un testo «impegnato» contro certi perversi meccanismi economici e di potere del mondo contemporaneo. Spero di aver ben sintetizzato quello che pensano. E comunque li ringrazio. Non credo, comunque, di aver sbagliato titolo.
Né credo che la parola «impegnato» corrisponda all’intenzione di questo libro. Non perché sia una cattiva parola (onore a chi pratica l’impegno in letteratura), ma perché io non sono affatto dispiaciuto che la (mia) poesia sia inutile. Ho già scritto in questo blog che l’inutilità è per me una prospettiva “forte” dalla quale guardare il mondo e dunque non la concepisco davvero come una collinetta (sia pure amena come l’Aventino romano) nella quale starmene tranquillo ad aspettare che qualcun altro abbia a cuore un mondo migliore e si batta per realizzarlo. Sia chiaro: non sono affatto tranquillo.
Già nel 1975 Montale, quando individuava nell’inutilità il carattere proprio della poesia, ne cancellava al tempo stesso quel senso di inadeguatezza, di insufficienza e di inettitudine che a suo tempo aveva contrassegnato l’autoflagellazione dei crepuscolari e lo presentava come un «titolo di nobiltà». E, in questi anni, sempre più il valore dell’inutilità è stato ipso facto, cioè per il fatto stesso di essere tale, una contraddizione tanto nobile quanto insanabile rispetto alla presuntivamente utile e produttiva “normalità” quotidiana; una contraddizione guardata con così grande sospetto dagli interessati custodi di questa “normalità” da spingerli a tener fuori la poesia dall’orizzonte stesso dei generi della scrittura contemporanea e a relegarla in una sorta di controllata nicchia da poche centinaia di copie di tiratura. Un esilio, e neanche dorato: questo è certo. Un esilio che non tocca, tutti lo vedono, la letteratura o la saggistica «impegnate».
Il fatto è che il valore dell’inutilità contraddice in particolare, per la sua natura stessa e in modo totale, le cosiddette “regole del mercato” e più ancora tutti quei poteri economici e politici che di esse si fanno scudo per trasformare gli stati in rappresentanti di tornaconti particolari anziché dell’interesse generale, garanti dei dividendi anziché di “regole” diverse. A guardar bene, si scopre una cosa che, se non fosse tragica, sarebbe divertente: la rinuncia non è quella di chi scrive «versi / come sempre, come è / nella loro essenza, / inutili»; è quella degli stati, o meglio, per non essere qualunquisti, di quei governi che hanno messo gli stati sull’Aventino dell’economia e ne hanno fatto impotenti vedette di quello che succede, salvo naturalmente a farli scendere di corsa da quello stesso Aventino quando tornaconti e dividendi soffrono qualche malanno.
In Italia c’è qualcosa di più. La notte che stiamo attraversando è determinata qui dal fatto che questa sostanziale rinuncia dello stato si mischia a una ridente ostentazione sia dei tornaconti privati sia degli stessi privati costumi (i latini dicevano mores). Ridente, ma certi ghigni di cartapesta dimostrano che quel riso è forzato. Questi costumi, che si pretenderebbero riservati, vengono invece appositamente fatti vedere – e non solo dal buco della serratura – per essere presentati come desiderabili ai più e non goduti solo da chi non può permetterseli perché ahilui, fuori dal mercato e dal potere: il massimo della sfiga. E il guaio è che tanti di coloro che non possono permettersi questi costumi si sentono davvero sfigati.
Perciò viviamo in una notte e non in un qualsiasi travagliato e difficile giorno. E perciò l’inutilità della poesia assume, qui e ora, nel «buio che s’intorbida» ogni minuto di più, un carattere di contraddizione ancora più radicale di quello che ha sempre avuto anche in altri tempi e in altri luoghi.
La poesia è la contraddizione.
Chi vuole uscire da questa notte provi a far tornare la poesia dall’esilio.
Amici, fatelo voi.