Qualche mese fa ho completato la serie dei miei interventi su La speranza fallace: da Cavalcanti a Petrarca (qui l’ultimo) con l’accenno a una possibile “breve appendice” sul modo in cui Leopardi ha successivamente utilizzato il lessico petrarchesco per descrivere la propria idea della speranza. Lo spunto era costituito dal fatto che, nella mia lettura di Petrarca, avevo citato spesso il commento leopardiano al Canzoniere. Su questo commento ho scritto parecchio tempo fa un piccolo saggio, Errori, inganni e un tradimento. Leopardi dal commento al Canzoniere petrarchesco ai Grandi Idilli, in “Civiltà dei Licei”, Anno V (1998), 7. Quando scrivevo di una “breve appendice” pensavo di poter ricavare da quel saggio qualche suggestione e di sintetizzarla in questo blog.
Ma non è possibile. La questione è complessa, richiede ragionamenti – e porta a riferimenti – non facili. Inutile pensare di affrontarla in poche battute. Ecco allora che ho deciso di riprendere qui per intero, in qualche puntata, i contenuti di quel saggio (ormai, per altro, introvabile) e di approfittare dell’occasione per riformulare e aggiornare i temi che lì avevo trattato.

Vorrei qui partire dalla opinione diffusa e – a ragione – consolidata secondo la quale c’è un filo ben forte che lega la poesia di Leopardi, o almeno il lessico leopardiano, al Canzoniere petrarchesco. Questa opinione è confortata, oltre che da molti minori riferimenti, dal noto grandissimo plagio leopardiano di un grandissimo verso del Petrarca, plagio che risale al 1829 e appartiene alle Ricordanze (v. 92: «che di cotanta speme oggi m’avanza»); ma sembrerebbe contraddetta da una lettera all’editore Stella di tre anni prima nella quale il Leopardi dichiara a proposito del Petrarca, apparentemente senza possibilità di equivoco: «[…] io non trovo in lui se non pochissime, ma veramente pochissime bellezze poetiche».
Facciamo il punto della situazione. E cominciamo dal novembre del 1824. In quel periodo, con la stesura del Cantico del gallo silvestre, Giacomo Leopardi conclude la composizione di quelle che saranno poi chiamate le “Operette del ‘24” (in realtà pubblicate, proprio dall’editore Stella, nel 1827) per distinguerle da quelle composte negli anni seguenti e inserite per la prima volta nell’edizione del 1834. Nell’aprile del 1825 Antonio Fortunato Stella invita il poeta a stabilirsi a Milano per dirigere l’edizione di tutte le opere di Cicerone (bisogna ricordare che, subito dopo il suo viaggio a Roma del 1822-1823, si era diffusa in Italia e in Europa la fama di Leopardi come filologo classico). Lo stesso editore gli propone nel frattempo di lavorare anche a un commento al Petrarca e a una crestomazia della prosa e della poesia italiane. Nel luglio dello stesso anno, accettando queste proposte, Leopardi si reca momentaneamente a Milano, ma si stabilisce poi a Bologna dove resta fino al novembre del 1826. Ritorna quindi a Recanati, e vi resta fino al giugno del 1827, quando si trasferisce a Firenze per poi spostarsi, dal settembre di quello stesso anno, a Pisa. Qui si ferma per dieci mesi, durante i quali scrive Il risorgimento (7-13 aprile 1828) e A Silvia (19-20 aprile 1828). Dal giugno al novembre del 1828 ritorna a Firenze da dove è infine costretto a rientrare a Recanati.
Come si vede, il 1825 è l’anno decisivo per il distacco di Leopardi dalla famiglia e dal paese natio; e l’inizio del commento al Petrarca, che è il suo primo lavoro retribuito, coincide con il suo trasferimento a Bologna e con il parziale raggiungimento di una certa autonomia economica. Il lavoro viene condotto con lo scopo preciso di rendere chiaro a tutti il senso dei versi del Canzoniere e non con quello di darne una illustrazione critica. Il poeta preferisce infatti chiamare le proprie note, piuttosto che “commento”, «interpretazione». Per un verso, quel lavoro dovette quindi essere – o essere vissuto come – assai arido e, per un altro, dovette rivelarsi massacrante. In effetti, tra un trasferimento e l’altro, mentre curava l’edizione di Cicerone, sistemava le Operette del ‘24 per la pubblicazione sull’«Antologia» e poi per la consegna all’editore (per non dire di altri meno importanti ma comunque numerosi lavori portati avanti in quel periodo), in poco più di duecentocinquanta giorni, Leopardi aveva dato la parafrasi dei 366 componimenti del Canzoniere e di tutti i Trionfi. Proprio in questo infatti, come ho appena ricordato, e cioè nella «traduzione dei versi o delle parole […] in una prosa semplice e chiara», era consistito prevalentemente il suo lavoro. Non devono quindi stupire più di tanto le espressioni di “rigetto” del Petrarca che, dopo quei mesi di impegno gravoso e intensissimo, egli scrisse all’editore. Proprio queste, d’altro canto, sono le espressioni in genere utilizzate come prova di un profondo distacco del Leopardi dal Petrarca, anzi di un vero e proprio divorzio consumatosi dopo dieci mesi di forse troppo appassionato matrimonio. Ma qui vorrei dimostrare il contrario.
Queste espressioni di “rigetto” sono contenute in una famosa lettera del 13 settembre 1826 ad Antonio Fortunato Stella (quella che ho in parte già citata all’inizio di questo intervento). Leopardi risponde all’editore che gli aveva chiesto, in aggiunta al commento, un saggio sul Petrarca e scrive:
Io le confesso che, specialmente dopo maneggiato il Petrarca con tutta quell’attenzione ch’è stata necessaria per interpretarlo, io non trovo in lui se non pochissime, ma veramente pochissime bellezze poetiche, e sono totalmente divenuto partecipe dell’opinione del Sismondi, il quale nel tempo stesso che riconosce Dante degnissimo della sua fama, ed anche di maggior fama se fosse possibile, confessa che nelle poesie del Petrarca non gli è riuscito di trovar la ragione della loro celebrità.
In queste parole, per la verità, c’è ben di più di un “rigetto” da stress. Ma su questo “di più” tornerò in un prossimo intervento