Nella seconda parte di questa Appendice leopardiana ai miei interventi su la «speranza fallace» in Cavalcanti e Petrarca sono entrato nel cuore del commento che Giacomo Leopardi ha fatto del Canzoniere petrarchesco. Leopardi ha usato quelle note a piè di pagina per spiegare prima di tutto a se stesso il rapporto tra illusioni e speranze. Che importa se, per far questo, ha volutamente forzato il senso di pochi versi in qualche poesia del Petrarca? Quello che importa è piuttosto capire che ruolo hanno quelle forzature nello sviluppo del suo pensiero.
Cominciamo da un dato di fatto cronologico: trovandosi di fronte a quelli che per lui sono punti cruciali del testo petrarchesco, attraverso l’«interpretazione» che ne dà, Leopardi percorre, nel 1826 un tratto della strada già cominciata con le Operette del ‘24 e che avrà una tappa ulteriore, tra il 1828 e il 1830 nella composizione dei Grandi idilli. Quale è dunque la prospettiva nella quale dobbiamo collocarci per capire la ragione di quelle forzature? È la prospettiva dalla quale è possibile vedere in quel commento un passo – organico agli altri che il Leopardi andava compiendo in quegli anni – verso l’uscita dal silenzio poetico, verso quel «risorgimento» del 1828 che precede la composizione dei Grandi idilli.
Compiuto quel passo, uno dei concetti chiave che, attraverso lo sviluppo della teoria del piacere, porta Leopardi a un rovesciamento delle posizioni che egli stesso aveva in precedenza sulla Natura è quello di «inganno». L’uomo si inganna (questa è in sintesi, per esempio, la posizione espressa nella Quiete dopo la tempesta) considerando il piacere come ente a sé stante. Il piacere è la sospensione dell’essere, anzi il non essere tout court, tanto che, in ultima analisi, finisce per coincidere con la morte. L’uomo si inganna; o piuttosto è ingannato dalla Natura. Il fatto che l’uomo pensi la Natura come foriera di illusioni positive non può quindi essere considerato un errore di cui egli stesso possa essere ritenuto responsabile. Leopardi avvertiva questa responsabilità prima di ogni altro, poiché – almeno fino al 1820 – aveva profondamente creduto nella capacità della Natura di produrre piacere attraverso le illusioni. Il poeta e l’umanità non hanno dunque commesso alcun errore, ma sono stati vittime di un inganno.
Cerchiamo di non lasciarci sfuggire che, spiegando il sonetto Ite, caldi sospiri, al freddo core (l’ultimo che ho citato nella seconda parte di questa Appendice), Leopardi mette insieme, in una dittologia paradossalmente sinonimica che per noi assume un senso profetico, speranza e inganno: il verso «sarem fuor di speranza et fuor d’errore» lo spiega infatti con «[…] usciremo di speranza e d’inganno». Veniamo così al cuore della questione. Questa frase potrebbe essere il motto adottato per sintetizzare il senso di alcuni tra i più famosi dei Grandi idilli. Riflettiamo un attimo. “Uscire di speranza e d’inganno” non potrebbe essere il sottotitolo di A Silvia, o del Sabato del villaggio, o delle Ricordanze? Per cercare di confermare questa nostra impressione ci serviremo di alcune «spie» che rivelano qualcosa di ben più consistente che semplici indizi e portano anzi prove incontrovertibili di questo fatto singolarissimo e probabilmente ancora non studiato a sufficienza: il fatto di un Leopardi che usa le parole di Petrarca per spiegare sé a se stesso, per portare alla luce qualcosa che aveva nella parte più profonda dell’animo.
Una prima spia ci viene dal Risorgimento, la poesia che, ai primi di aprile del 1828, è appunto l’annuncio della rinascita del poeta. Il poeta finalmente ritrova la parola e il verso. E afferma: «Pur sento in me rivivere / Gl’inganni aperti e noti», cioè quelli che ormai ho capito e scoperto essere inganni. Il risorgimento poetico è dunque l’esito di un processo che rivela gli «inganni». Ma quali inganni e in merito a che cosa? Qui ci aiuta un’altra spia che troviamo questa volta nelle Ricordanze:
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d’affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l’onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vòti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m’avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
Ecco dove porta il commento a quel sonetto del Petrarca: la dittologia speranze-inganni, inventata per forzare un’interpretazione altrimenti fin troppo facile, diventa il cardine intorno al quale ruota la grandissima lirica delle Ricordanze. Ma nei versi citati qui sopra c’è ancora di più: c’è anche quello che, nella prima parte di questa Appendice ho chiamato il grandissimo plagio di un verso grandissimo: c’è davvero l’incontro, in un verso, di due dei più grandi spiriti che l’Occidente abbia conosciuto. «Che di cotanta speme oggi m’avanza», come è noto, è ripreso dalla terza stanza della canzone petrarchesca Che debb’io far, che mi consigli Amore? . Non si tratta di una canzone qualsiasi: essa è infatti uno di quei componimenti del 1348 (due canzoni e tre sonetti) che Petrarca colloca all’inizio della seconda parte del Canzoniere, quella in morte di Laura:
Caduta è la tua gloria, et tu nol vedi,
né degno eri, mentr’ella
visse qua giù, d’aver sua conoscenza,
né d’esser tocco da’ suoi sancti piedi,
perché cosa sì bella
devea ‘l ciel adornar di sua presenza.
Ma io, lasso, che senza
lei né vita mortal né me stesso amo,
piangendo la richiamo:
questo m’avanza di cotanta spene,
et questo solo anchor qui mi mantene.
Qui il plagio è diretto e, come ha magistralmente dimostrato Gianfranco Contini[1], non è mediato dal foscoliano «Questo di tanta speme oggi mi resta!» del sonetto In morte del fratello Giovanni. Semmai c’è da ricordare che un primo iniziale plagio leopardiano di quel verso petrarchesco era già in A Silvia:
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? perché di tanto
Inganni i figli tuoi?
Ancora una volta non è difficile vedere la corrispondenza delle due parti di questa stanza alla dittologia che prima abbiamo chiamato “paradossalmente sinonimica”: quella costituita dalle due parole speranze-inganni.
I legami intertestuali che abbiamo messo in evidenza dimostrano che negli anni tra il 1825 e il 1829 Leopardi stringe il proprio legame con Petrarca per mezzo di un nodo non soltanto indissolubile, ma anche clamorosamente evidente: un nodo che il poeta vuole sia identificato a prima lettura. Che senso ha, dunque, il rifiuto di Petrarca della lettera ad Antonio Fortunato Stella e l’appunto dello Zibaldone che è dell’aprile del 1829 e che dunque segue di un anno la composizione di A Silvia e precede di pochi mesi quella delle Ricordanze, scritte tra l’agosto e il settembre di quello stesso anno?
Il fatto è che Leopardi rifiuta il Petrarca dei critici attardati a spiegarne il platonismo e degli imitatori di bassa lega. E si riappropria, invece, del Petrarca grande, del Petrarca che scopre le incertezze e i drammi della coscienza moderna e trova le parole per disvelarli. Se ne riappropria, eppure in quel momento stesso avverte che nel grande poeta del Trecento non vi era ancora stata la scoperta del nulla. È proprio questa scoperta, faticosa e terribile, quella che Leopardi compie in quegli anni: la rivelazione a lungo cercata e infine acquisita di un rapporto con l’Assoluto trasformato nella constatata identità del piacere col non essere e, quindi, del fine della vita (non tanto e non soltanto “la fine”, ma “il fine” della vita) con la morte.
Quanto doveva essere difficile penetrare questo mistero che solo a poco a poco si andava facendo verità! Ecco allora una disperata richiesta di soccorso rivolta da Leopardi a “parole” il cui valore andava ben al di là del loro significato e stava nell’immenso spessore che esse avevano assunto nel tempo, nel peso di una storia lunghissima che altri aveva cercato di banalizzare e che questo piccolo uomo, entrato da poco di prepotenza nei grandi circuiti della comunicazione intellettuale, sente invece di dover prendere su di sé, caricandolo sul proprio dolore, nella convinzione che sia il dolore dell’intera umanità. Le parole di Petrarca, queste parole così spesse e così pesanti, diventano allora lo strumento unico capace di manifestare e – più ancora – di annunciare un pensiero nuovo e terribile, un pensiero che i contemporanei di Leopardi non amavano sentir proclamare e che aveva la forza al tempo stesso di affascinarli e di respingerli.
Vediamo di fare il punto conclusivo di questa Appendice e ricominciamo da Guido Cavalcanti. È Cavalcanti a suggerire per primo al sentire dell’uomo occidentale la diffidenza verso la capacità ingannatrice della speranza, anzi, addirittura, a proporre – questo mi sembra di intravedere nei suoi versi – il sospetto, tremendo e blasfemo, che la stessa Speranza (quella con la “S” maiuscola) possa essere “fallace”. Nella sua straordinaria capacità di cogliere ogni piega dell’animo umano, Petrarca è l’unico poeta (anzi, l’unico intellettuale) del Trecento e del mezzo millennio successivo che riprende questa idea di una speranza ingannevole. Può farlo proprio perché, da credente (e sia pure un credente con molte umane debolezze), si libera del possibile sospetto, insito in essa, relativo alla Speranza con la “S” maiuscola: così fa della “speranza fallace” uno dei punti portanti della propria concezione del destino umano. Dopo quel mezzo millennio, è Leopardi a recuperare questo aspetto del pensiero di Petrarca. Ma lo fa a modo suo. Il Petrarca di Leopardi non è Petrarca. O meglio, il Petrarca interpretato in una delle parole chiave attraverso le quali Leopardi lo ha legato a sé, non è Petrarca. Quelle poche righe di parafrasi relative agli “errori” sono uno dei più grandi tradimenti che un poeta abbia mai perpetrato ai danni di un altro poeta. Errori, inganni e un tradimento. Leggere, leggere tanto in profondità da far nostri gli autori e le loro parole è sempre un po’ tradire. Attraverso Leopardi, Petrarca – certo tradito – diventa però ancora più moderno e più nostro. Ma, attraverso Petrarca, Leopardi diventa ancora più Leopardi. È stato un grande tradimento, ma anche un grande atto di amore per la poesia.
[1] G. Contini, Implicazioni leopardiane, ora nel volume Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 19792; cfr. in partic. pag. 47.