La speranza fallace: da Cavalcanti a Petrarca [III]

Nel precedente intervento sulla Speranza fallace ho fatto notare come in Cavalcanti la contiguità di queste due parole, per il contesto in cui si trovano (la canzone xxxiv) e per il senso che esse assumono nell’insieme delle sue rime, possa dare luogo a una terribile ambiguità: che la fallacia sia un carattere proprio non solo della “speranza” concepita come sentimento umano, ma anche (qui aggiungo: soprattutto?) della virtù teologale della “Speranza”. Avevo anche notato che nessuno dei poeti stilnovisti contemporanei del Cavalcanti usa insieme queste due parole e che invece sarà Francesco Petrarca a riprendere in non poche occasioni l’espressione cavalcantiana.

Perché i contemporanei stilnovisti non fanno questa scelta e Petrarca sì? Ci sono almeno due motivi che spiegano questa differenza.

Il primo è di carattere generale. Per i poeti stilnovisti l’amore è un’esperienza totalizzante. È il qui e l’altrove. Si colloca al di qua e al di là del limite umano, in terra e in cielo. Solo in un contesto di questo tipo Beatrice può essere per Dante una figura cristologica, la sua morte può essere rappresenta nella Vita nova con la stessa ambientazione – e gli stessi effetti – di quella di Cristo e lei stessa può assumere nella Commedia un preciso ruolo di salvatrice, di conduttrice sulla via della salvezza: se il contesto fosse stato diverso, si sarebbe trattato di una serie di bestemmie. Da qui anche il carattere assolutamente peculiare delle sofferenze d’amore di Guido Cavalcanti. Anche per lui si tratta di un’esperienza totalizzante: ma, per lui, non c’è altrove, non c’è cielo e il limite dell’uomo non ha un al di là: sta tutto nella sua fisiologia tante volte sottolineata nei versi di Guido.
Per Francesco Petrarca (qui sopra in un ritratto di Altichiero da Verona conservato nell’Oratorio di San Giorgio di Padova) l’amore è un’esperienza decisiva per lo stabilirsi del rapporto dell’uomo con l’assoluto, ma non è questo rapporto, non lo conclude, non lo esaurisce nella sua totalità. La donna che Petrarca ama non potrebbe mai essere assimilata a Cristo (e la sua morte è difatti descritta nei Triumphi in termini solo umani); Laura si colloca al livello più alto possibile del limite terreno, ma dopo la morte, in cielo, è una beata come gli altri. Le sofferenze d’amore di Petrarca sono dunque legate al sentire come traviamento l’amore per una donna che non ha nulla a che vedere con Cristo, anche se, dopo la sua morte, il poeta la benedirà per aver affrenato la sua «empia voglia ardente» e averlo così condotto «a miglior riva» (son. ccxc).

Il secondo motivo è di carattere particolare. A chi ascolta le sue rime, a chi ascolta «il suono / di quei sospiri … » Petrarca spiega subito, nel sonetto proemiale, che le sue speranze, proprio per l’oggetto in cui erano state riposte, sono state «vane»: anzi in questo carattere dell’essere vane, che appartiene alle prospettive umane del poeta e ne definisce i contorni, sta il senso più profondo del sonetto che apre il Canzoniere. Qui non sono possibili ambiguità: è il Francesco uomo, è il Francesco terreno che ha avuto, per sua scelta, «vane speranze». Nella profondità della figura etimologica che lega le «vane speranze» e «’l van dolore» del v. 6 al «mio vaneggiar» del v. 12 si immerge «quanto piace al mondo», qui, sulla terra. Il cielo è un’altra cosa.

Nessuna ambiguità è più possibile. Petrarca può quindi associare i due termini, “speranza” e fallace”, senza nessun problema: difatti, essi compaiono in contiguità ben più di quanto sia accaduto in Cavalcanti. Segno forte, se ve ne fosse necessità, di quanto pesi la lettura di Cavalcanti su Petrarca, ma anche della disinvoltura con la quale quest’ultimo può ora trattare la difficile convivenza di questi due termini.

Delle cinque occasioni nelle quali “speranza” e “fallace” appaiono insieme (si tratta sempre di sonetti), una, quella del son. xxi, non rientra nella analisi che sto facendo: Petrarca vi dice semplicemente che, se un’altra donna spera di avere il suo cuore, «vive in speranza debile e fallace» (v. 6). Il son. xxi non rientra in questa analisi, ma costituisce la prova più lampante di quella ‘disinvoltura’ della quale parlavo prima: potrebbe sembrare, se non ci fossero gli altri esempi, che per Petrarca associare questi due termini costituisse una pratica espressiva quasi di routine, un cavalcantismo di maniera.

Ma, per l’appunto, ci sono gli altri esempi. E in tutti lo “sperare fallace” è la dimostrazione degli effetti del «vaneggiar» del primo sonetto. Il son. xxxii fa – verrebbe da dire – il punto della situazione:


 Quanto più m’avicino al giorno estremo
che l’umana miseria suol far breve,
più veggio il tempo andar veloce e leve,
e ‘l mio di lui sperar fallace e scemo.
 I’ dico a’ miei pensier: – Non molto andremo
d’amor parlando omai, ché ‘l duro e greve
terreno incarco come fresca neve
si va struggendo; onde noi pace avremo:
 perché co llui cadrà quella speranza
che ne fe’ vaneggiar sì lungamente,
e ‘l riso e il pianto, e la paura e l’ira.
 Sì vedrem chiaro poi come sovente
per le cose dubbiose altri s’avanza,
e come spesso indarno si sospira.


La considerazione che lo sperare nel tempo umano sia uno sperare «fallace e scemo» è qui accompagnata infatti all’evidente richiamo, nei versi 9 e 10 al «vaneggiar» del sonetto proemiale. I conti, dunque, tornano: chi ripone la propria speranza in ciò che ha i caratteri propri del limite umano vaneggia (fa cioè una cosa del tutto vana, vuota, inutile) e di conseguenza rende, per propria responsabilità, quella speranza «fallace», lascia che quella speranza lo inganni. Tutto ciò fa diventare evidentissima quella separazione tra l’al di qua e l’al di là del limite che ho sottolineato come differenza di fondo tra l’esperienza d’amore petrarchesca e quella stilnovistica.

Lo stesso si può dire del son. xcix, rivolto a un amico che, insieme al poeta, ha provato «come ’l nostro sperar torna fallace» (v. 2): Leopardi, nel suo commento petrarchesco, annota: «riesce vano, ingannevole» e dunque collega anche lui la fallacia della speranza con il «vaneggiar» del primo sonetto (ma sul modo in cui Leopardi utilizzerà il lessico petrarchesco per descrivere la propria idea della speranza tornerò presto in una breve appendice a questi interventi).

Una più tormentata atmosfera avvolge invece i sonetti ccxc e ccxciv. Dopo la morte di Laura il contrasto tra ciò che il poeta aveva – erroneamente e vanamente – sperato e la sua provvidenzialmente mancata realizzazione rende la fallacia di quello sperare particolarmente dolorosa. Non poteva infatti essere altrimenti: «o speranza, o desir sempre fallace» (v. 5) scrive il poeta nel sonetto ccxc. E quel «sempre» non lascia dubbi. La speranza di un bene collocato entro il limite terreno è «sempre fallace». Per cui, come abbiamo visto prima, «benedetta colei» che, proprio con il suo non portare a realizzazione la speranza del poeta, con il suo confermare la necessaria fallacia di quella speranza, lo ha condotto «a miglior riva». E nel sonetto ccxciv il contrasto tra il desiderio di ciò che è terreno e la sua giusta – ma non per questo meno penosa – mancata realizzazione ha il suono non di un sospiro, ma di un grido nei tre versi finali:


 Veramente siam noi polvere et ombra,
veramente la voglia è cieca e ‘ngorda,
veramente fallace è la speranza.


Anche qui il «veramente», rafforzato – come un grido, appunto – dall’anafora, non lascia dubbi. È l’ultima volta che Petrarca pone in contiguità queste due parole nel Canzoniere (nei Triumphi non usa mai l’aggettivo “fallace”) e sembra quasi che voglia, quest’ultima volta, rafforzare il suo avvertimento. Non c’è speranza terrena; non c’è speranza che posi su beni terreni. Eppure, se non avessimo letto i precedenti 293 componimenti del Canzoniere e se non ci disponessimo a leggere i successivi 72, proprio quest’ultimo avvertimento potrebbe colorarsi della terribile ambiguità cavalcantiana.

Naturalmente, non si tratta di questo. Ma una cosa è certa: non si trattava di un cavalcantismo di maniera.