«Vecchio Nereo custode di visioni / e di memorie che disvela un divino / capriccio all’improvviso per non so quale / inattesa cedevolezza» ho scritto di me stesso parecchi anni fa in una poesia, La vita dell’isola, pubblicata poi ne La mente irretita (2008).
In questa figura mitologica generata, secondo Esiodo, da Ponto (il Mare) unitosi a Gaia (la Terra), mi sono sempre riconosciuto a causa della doppia natura, terrestre e acquatica, propria di chi, come me, è originario di un’isola. Oggi, 3 ottobre 2013, giorno della strage di miei fratelli e sorelle, di miei figli e figlie migranti, morti in quello stesso mare mediterraneo nel quale io cerco e vedo la vita ogni volta che me ne faccio avvolgere, oggi questo mio sentirmi Nereo mi porta accanto a tutti loro. Percepisco chiaramente su di me, per il semplice fatto di essermi immerso in quello stesso mare, il peso della loro morte. E, mentre maledico tutti coloro che in queste ore usano i corpi di questi miei fratelli e sorelle, figli e figlie, come strumenti di polemica politica, prego, da laico, che il mare possa offrire quell’abbraccio confortevole che il mondo e gli uomini hanno loro negato.
A tutti loro dedico la mia poesia La vita dell’isola.
Quante ne avrò raccolte di conchiglie
madreperlacee su fondali astuti amici d’ombre
e di alghe che cullano le onde in una danza
lieve, ma trascina a volte la risacca
come un coro di supplici protese
con le braccia di qua di là, a un dio
o a un vincitore. Cosmogonia nascosta
vagabonda per grovigli di cammini
d’acqua dove si accende il cuore del piacere
e del dolore che ritornano uno
dopo l’altro nella vita dell’isola sul fondo
del mare sottocosta – e dirupi d’arenaria
specchiano sé in una chiarezza che t’inganna,
in un biancore che si adombra
di tutto ciò che vive e di incavi
e di sale. Neppure te ne accorgi
di tutta la vita che laggiù si mischia se ti affacci
dalla scogliera: vedi solo
una insensata svogliatezza della luce
svagata pellegrina dei fondali
e che ne sai delle conchiglie che da un lato
la riflettono e dall’altro
sono scabre e le nasconde tutto ciò che intorno
a esse si affatica? Ogni tanto
le cerco ancora, ma spesso sono loro
a venirmi incontro con la malizia di un brillio
a riconoscermi per quello che non ho
dimenticato dell’isola che vive lì sul fondo
del mare – e forse la memoria me la porto
sul corpo tatuata con segni che non vedo –,
animale marino dei ritorni
annuali, vecchio nereo custode di visioni
e di memorie che disvela un divino
capriccio all’improvviso per non so quale
inattesa cedevolezza. La vita dell’isola
si avvicenda alla morte lì sul fondo
del mare sottocosta – così come accade
dappertutto – e il polverio di ciò che vive
e ciò che muore mi avvolge come
un’avventura senza luoghi, senza punti
di partenza o di arrivo, in un tempo
incostante, perdigiorno
e anche un poco stanco di inseguire
nel mio viaggio il mio fine.