Due perfetti sconosciuti è il mio primo romanzo. Finora non avevo mai scritto una pagina di narrativa.
Intendiamoci, la prosa è stata il mio pane quotidiano per decenni. Ho scritto, come sanno tutti coloro che seguono la mia attività sin dagli anni Settanta (si può ben dire: un secolo fa), migliaia di pagine di saggi di storia o di critica letteraria.
E, come sanno invece in pochi, ho scritto altrettante pagine di documenti che sono entrati a far parte, negli anni tra il 1999 e il 2008, del sito web del Ministero dell’Istruzione, in particolare quelle dedicate, in una specifica area di quel sito, all’autonomia scolastica. Infine, ho scritto, sempre in quel periodo, un’infinità di documenti e slogan utilizzati per la partecipazione del Ministero a eventi di carattere culturale. Per quest’ultima attività, molti mi chiamavano, tra i corridoi del Palazzo di viale Trastevere, «il creativo», ma intendevano dire semplicemente: «l’esperto di comunicazione» o, con qualche malizia, «l’esperto di pubblicità». Quella che io considero davvero la prosa creativa, e cioè quella che racconta e che descrive (e che lo fa senza preoccupazioni utilitaristiche), non è mai entrata nella mia esperienza di scrittore. Il fatto è, tuttavia, che di prosa creativa, e cioè di romanzi e di racconti di tutte le epoche e di molte letterature, sono un consumatore forsennato. E a poco a poco mi è venuta voglia di provarci anch’io.
Era da tempo che avevo in mente un personaggio femminile. Ben presto le ho trovato il nome, che doveva essere originale, ma non stravagante. Eccolo: Odetta; spero che diventerà familiare e caro a tutti i lettori. Ho invece cercato a lungo il luogo dove collocare e il modo di raccontare questo personaggio.
Il luogo, a un certo punto, l’ho scoperto per caso, un giorno che sono andato alla ricerca di un fabbro in una via situata al limite esterno del quartiere romano di San Lorenzo. Odetta, nell’immagine di lei che avevo già abbastanza definita nella mia testa, era un’affittacamere e non c’è quartiere di Roma dove di camere se ne affittino di più, dato che San Lorenzo è vicino alla Sapienza e che da quelle parti c’è un’infinità di studenti fuori sede in cerca di una camera, anche malmessa, dove dormire e, possibilmente, studiare. Così quella via, vicinissima al traffico della Tiburtina, ma un po’ isolata (non vi dico qual è, perché poi ho modificato un po’ nel romanzo la mappa del quartiere: non me ne vogliano coloro che vi abitano) mi è sembrata il posto perfetto per collocare l’appartamento nel quale l’azione del romanzo si svolge quasi interamente (Odetta e il primo dei suoi due interlocutori ne escono soltanto per pochi minuti).
Azione non è forse la parola adatta, e qui veniamo al modo che ho scelto per raccontare il mio personaggio. Al contrario del luogo, il modo non l’ho trovato per caso, ma l’ho studiato (è difficile inventare qualcosa a questo punto della storia del romanzo) e sperimentato a lungo con prove poi accuratamente cancellate dalle mie chiavette usb. Odetta, in realtà, si racconta da sola, ma non certo attraverso un monologo di “autopresentazione”. Lo fa invece attraverso un dialogo serratissimo con due interlocutori, in un intervallo di tempo che va all’incirca da mezzogiorno all’una e dalle tre alle quattro di una domenica: due ore, complessivamente. La lettura del libro dura più o meno altrettanto perché il lettore partecipa in tempo reale a questo dialogo: vi è coinvolto (così dice, e ha ragione, chi ha scritto la quarta di copertina del libro), come «terzo interlocutore nascosto».
Come mai accade questo coinvolgimento? Accade perché, del dialogo, il lettore legge esclusivamente le battute della protagonista e, attraverso queste, è spinto a immaginare non soltanto le battute dei due interlocutori (entrambi mai visti prima da Odetta: il primo è un elettricista che deve riparare un guasto; il secondo è uno studente in cerca di una camera da prendere in affitto), ma anche il loro comportamento, il loro modo di essere, persino le mosse. Il lettore viene trascinato là e, attraverso questo artificio, è portato più facilmente a fare quello che in effetti fa qualsiasi lettore: è portato, cioè, a vedere mentre legge. Almeno, io ho cercato di fare in modo che fosse così.