È uscito in questi giorni il mio nuovo libro di poesie, Piante del mio giardino, un poemetto che dichiara sin da una breve citazione in epigrafe , «Genus omne animantum», la sua ispirazione lucreziana, (Lucrezio, De rerum natura, I, 4), ma che non si propone affatto come un poema scientifico e, meno che mai, filosofico.
In questo poemetto riferisco, molto più semplicemente, le conversazioni che faccio con le mie piante e il modo in cui trascorriamo insieme il tempo. Come racconto nella breve Premessa, «tutti quelli che mi conoscono sanno perfettamente che io parlo con le mie piante. Penso che la giudichino una piccola stravaganza, ma che l’accettino senza problemi forse perché sanno che, comunque, non nuoce». Tuttavia, fino a qualche anno fa avrei evitato di far conoscere questa mia abitudine a un pubblico diverso da quello dei miei amici. Poi è capitato qualcosa che mi ha fatto cambiare idea. Avevo appena messo a dimora nel mio giardino due due rododendri di una varietà dalla crescita moderata e dai fiori bianchi delicatamente screziati di rosa e, cito ancora dalla Premessa, «in quello stesso periodo mi era capitata sotto mano (o forse avevo cercato: con i libri non è sempre così facile distinguere il caso dalla scelta) una raccolta di poesie di Ralph Waldo Emerson, poeta e filosofo americano del XIX secolo (Boston, 1803 – Concord, 1882): un contemporaneo, da giovane, di Giacomo Leopardi e, da vecchio, di Emily Dickinson […]. Tra le poesie di Emerson mi colpì allora proprio quella dedicata alla pianta del rododendro, del 1834». Oltre alla sua bellezza, mi aveva colpito il fatto che in essa Emerson dava del tu al rododendro, gli parlava, lo esortava, lo consigliava: come faccio io. «[…] il fatto di aver trovato un così autorevole precursore mi ha spinto a pensare a questa mia stravaganza come a una forma mentis, a un habitus che non solo non era indice di pazzia, ma che poteva addirittura rivelarsi appropriato per un intellettuale. È stato allora che non ho più avuto remore a parlarne». L’ho fatto in primo luogo in una poesia nella quale anch’io mi rivolgevo ai miei rododendri e poi in altre occasioni. Ma, finora, non l’avevo mai fatto in modo così pieno e disteso.
Ho parlato dell’ispirazione lucreziana. Essa è evidente, oltre che per la citazione in epigrafe, anche, per esempio, in questi versi:
Ci sono in questo mio giardino piante
che per gran parte vi ho trovate già e altre
che invece ho messe io a dimora e che ho curate
in seguito sia per fortificarle sia, se possibile,
per rendere la loro crescita più lieta. Sappiamo bene
le mie piante e io di appartenere, senza
poi troppi distinguo, alla progenie
di tutto ciò che vive e muore; ed è in particolare
per questo motivo – penso – che ci piace condividere
il tempo mentre scorre e il susseguirsi, dentro
a quel suo scorrere, delle stagioni.
Più in generale, questa ispirazione è evidente nel modo in cui, lungo tutto il poemetto, seguo i cicli vitali che si susseguono nel mio giardino: con allegra adesione ai ritmi del divenire, ma anche con precise descrizioni della mia partecipazione a questi ritmi in qualità di giardiniere, «giardiniere, per volontà e competenza, / “professionale” (non amo / la falsa modestia), ma per lampanti e immodificabili / dati biografici, “non professionista”», come mi è sembrato giusto precisare nel poemetto.
Riflessione sulla vita? Manuale di giardinaggio in versi? Non chiedete a me di rispondere a queste domande. Leggete il libro e rispondete voi stessi: vi avverto sin d’ora che il libro susciterà in voi tanti altri interrogativi. Piante del mio giardino, nello splendido allestimento “all’antica” e con la splendida grafica dell’editore Campanotto, si può ordinare in tutte le librerie ed è disponibile in quelle on line. Inoltre, come sempre, farò un piccolo tour di letture in alcune città e molti versi di questo poemetto potrete ascoltarli direttamente dalla mia voce. Vi avvertirò.