Due domande impertinenti e due pertinenti risposte
1. Prima delle domande, una osservazione
Prima delle domande, è necessario che io faccia una breve osservazione a proposito del modo in cui si designa di solito il primo canto della Commedia. Dire, o scrivere (come spesso si fa), “primo canto dell’Inferno” è parzialmente sbagliato. Questo canto precede – è vero – i trentatré canti dell’Inferno, tuttavia introduce non alla prima cantica soltanto, ma all’intera Commedia. Dante voleva che il poema fosse di cento canti. Cento, il numero perfetto, ma anche un numero non raggiungibile con tre cantiche: tre, anche questo numero perfetto e irrinunciabile. Il poeta poteva raggiungere cento canti, per esempio, aggiungendone uno dopo il trentatreesimo del Paradiso: avrebbe potuto isolare, in una sorta di inno finale, la visione di Dio. Egli preferisce invece incrementare di un canto la prima cantica e decide di porre questo canto prima degli altri. Se lo fa, deve essere perché avverte con forza la necessità di una introduzione generale. Una necessità talmente stringente da spingerlo ad affrontare le non poche complicazioni derivanti da questo “canto in più” all’inizio del poema.
Già il Boccaccio lo percepiva come tale: nella sua lettura dell’Inferno, divide la prima cantica in due parti: il proemio (costituito appunto da questo primo canto del quale stiamo parlando) e i successivi trentatré canti.
Ed ecco la complicazione: se seguiamo questo criterio, il secondo dovrebbe essere considerato il primo vero canto dell’Inferno. E così è, difatti, dato che qui si trova l’invocazione alle muse. Ma in questo modo non tornerebbe, per esempio, la corrispondenza tra i sesti canti delle tre diverse cantiche (della quale il Boccaccio non si occupa affatto): nell’Inferno, infatti, il canto politico dovrebbe essere il VII e non il VI. Già, un punto non da poco, tale da mettere in crisi un aspetto non secondario della struttura della Commedia, almeno per come essa è stata ricostruita (o immaginata?) dalla critica dantesca tradizionale: in verità penso che anche su questo sarebbe necessario porre prima o poi una domanda impertinente e cercare a essa una pertinente risposta. Ma non è questo il luogo per farlo.
Proprio perché si tratta di una scelta che sarebbe potuta essere diversa e che, per di più, come abbiamo visto, aggiunge seri problemi a quelli già di per sé non semplici da risolvere relativi all’ordinamento generale del poema, essa costituisce anche una scelta di grande importanza. Se Dante ha deciso così è perché vuole che la lettura del I canto della Commedia sia determinante nell’orientare il lettore. Infatti è vero che da come leggiamo questo canto deriva il modo in cui leggeremo tutti gli altri. La risposta alla prima domanda, capire bene il significato del verso iniziale, sarà essenziale per continuare in un modo o nell’altro la lettura del poema.
2. La prima domanda: che cosa significa «Nel mezzo del cammin di nostra vita»?
Potremmo porre questa domanda in un’altra forma: di quale metà della nostra vita parla Dante? Vedremo che la risposta relativa a questo unico verso (il primo del canto-proemio) determina davvero il modo in cui poi leggeremo i successivi 14.232 versi.
L’interpretazione corrente, anzi ormai l’unica ammessa, quella che a scuola abbiamo studiato tutti senza che ci venisse proposto neanche il dubbio di possibili alternative, è che Dante voglia fornire con questa espressione una indicazione cronologica: quella relativa al suo trentacinquesimo anno. Egli ci darebbe così, fin dall’inizio del poema, se non la data esatta del viaggio (che poi ci darà con precisione nel ventunesimo canto dell’Inferno), almeno il periodo approssimativo nel quale esso si è svolto.
Questa interpretazione ha una sua solidità. Si basa infatti su due passi del IV trattato Convivio. Nel primo di questi due passi (Conv., IV, xii, 15-18) Dante parla dell’anima che entra nel «nuovo e non mai fatto cammino di questa vita» con lo scopo di raggiungere il bene ritornando al suo principio, cioè a Dio. Nel secondo (Conv. IV, xxiii, 6-10), dice di credere che «lo punto sommo» dell’arco della vita è «nelli più […] tra il trentesimo e ‘l quarantesimo anno»; e aggiunge: «io credo che nelli perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno». Sono riferimenti corretti: l’espressione usata da Dante nel primo brano è praticamente identica a quella del primo verso della Commedia; e nel secondo si fa esplicito riferimento alla durata della vita e alla sua metà. Ciò non toglie che a questi riferimenti si potrebbe opporre qualche dubbio, a cominciare dal fatto che i due brani sono separati e non hanno nessuna relazione tra loro. Inoltre, quando parla del trentacinquesimo anno, Dante usa nel Convivio la metafora del «sommo» dell’arco e non quella del «mezzo del cammino». In particolare, la metafora del «sommo» dell’arco e il significato complessivo del brano del Convivio su questo argomento porterebbero alla metà del trentacinquesimo anno e non alla sua fine, come invece era per Dante nell’aprile del 1300, dato che sarebbe entrato nel suo trentaseiesimo anno poco più di un mese dopo.
Nonostante questi possibili dubbi, nel miglior commento dantesco oggi disponibile, Anna Maria Chiavacci Leonardi afferma senza esitazioni che è «decisamente da rifiutare l’interpretazione, già di alcuni antichi, per cui “il mezzo del cammin” sarebbe il sonno, nel quale si passa metà della vita (cfr. Eth. Nic. I 13), inteso come figura di uno stato di visione quale si ritrova anche nella Scrittura»[1]. Non nego affatto che quest’altra interpretazione in età moderna sia stata sempre a dir poco condannata, ma penso che ciò si debba attribuire a motivi più estrinseci che intrinseci. E un grande critico che ha guardato solo al testo dantesco e che non si è lasciato distrarre da motivi che non fossero interni a quel testo, Giorgio Bárberi Squarotti, non a caso, è stato l’unico a riprendere, dopo qualche secolo di ostracismo, l’idea che «il primo verso […] potrebbe alludere, più probabilmente che all’età dell’uomo Dante, alla condizione di sonno in cui l’uomo passa metà della sua vita e, quindi, alla condizione esteriore necessaria perché l’uomo possa avere una visione»[2].
Vediamo di approfondire. E, per approfondire, partirei da un dato di fatto: è un fatto che in qualche antico commento si avanzano, senza troppi rifiuti aprioristici, le due possibili interpretazioni, ciascuna per altro con significative varianti. L’Ottimo commento, come viene chiamato un commento anonimo (ma probabilmente del notaio Andrea Lancia) del quarto decennio del Trecento, spiega in questo modo il primo verso della Commedia:
[…] queste parole hanno due sposizioni; una si referisce alla etade dello Autore, l’altra al tempo della sua speculazione. Alla etade, cioè xxxv anni, che è mezo di lxx anni, li quali sono il corso universalmente comune della nostra etade, quando non si passano, per ottima complessione, o si minuiscono, per mala complessione od accidente. Cogliesi dunque che l’Autore fosse d’etade di xxxv anni, quando cominciò questa sua Opera. Questa etade è perfetta; ha forteza, ed ha cognizione. Alcuni dicono, che la etade di xxxiii anni è mezo, cogliendola dalla vita di Cristo; dicono, che infino a quello tempo la virtù e le potenze corporali crescono; e da lì in su col calore naturale diminuiscono; sì che quella etade sia mezo e termine tra lo montare e lo scendere. In questa etade debbono li uomini essere quanto si puote umanamente perfetti, lasciare le cose giovanesche, partirsi da’ vizj, e seguire virtù e conoscenza. E con questa motiva essemplifica sé l’Autore agli altri: duolsi del tempo passato in vita viziosa, e volge li passi a’ migliori gradi.
Al tempo della sua speculazione si puote questa parola riferire, cioè che elli si trovasse nel tempo della notte, la quale tiene mezo del camino mortale, però che tanto comprendono le notti, quanto li dì, compensati tutti li tempi, ed ancora più che l’Autore cominciò questa opera a mezo Marzo, quando erano eguali li dì con le notti; […].
D’altro canto la stessa interpretazione della metà della vita era molto incerta in quegli anni così vicini alla stesura della Commedia e oscillava almeno, come lo stesso Ottimo commento precisa, fra il trentaquattresimo e il trentacinquesimo anno. Iacopo Alighieri, il figlio di Dante e Gemma Donati che scrive un commento nel 1322, appena un anno dopo la morte del padre, spiega così il «mezzo del camin»: «si considera il vivere di trentatre, o vero di trentaquattro anni, secondo quello che del più e del meno e del comunale appare e simigliantemente quel c’appare del vivere e del morire di Cristo, il quale, per essere perfetto in tutte sue operazioni il mezzo comprese».
Tra il commento di Iacopo Alighieri e l’Ottimo, probabilmente tra il 1322 e il 1328, Guido da Pisa spiega senza tanti dubbi:
Per istud dimidium nostre vite accipe somnum» e conclude con la citazione di un brano nel quale Aristotele, parlando del sonno dice che esso occupa, appunto, «metà della vita», in latino dimidium vitae, “il mezzo della vita”: «In dimidio igitur nostre vite, idest in somno, secundum quem nichil differt stultus a sapiente, prout Philosophus vult in fine primi libri Ethicorum, fingit autor suas visiones vidisse.
Inutile aggiungere che Dante conosceva benissimo, probabilmente a memoria, questo brano di Etica I, 13.
In sostanza, a differenza dei più recenti, i primi commenti non hanno affatto tante sicurezze e oscillano tra l’interpretazione cronologica e quella del periodo notturno. In merito alla prima variano, come abbiamo visto, fra i trentatré anni (che non collocherebbero affatto il viaggio, come invece è, nell’aprile del 1300) e i trentaquattro. In merito alla seconda variano tra la spiegazione del «mezzo» come riferito genericamente alla notte o più specificamente al sonno: in entrambe le varianti di questa seconda interpretazione, la notte o il sonno sono il periodo nel quale si verificano le visioni. Questo è il problema: chi interpreta il «mezzo del cammin» come “notte” o “sonno”, non legge la Commedia come il racconto (oggi si direbbe la fiction, ma ai tempi di Dante si sarebbe detto fictio o fictio poetica) di un viaggio, ma come la esposizione di una visione. Cambia tutto. Cambia, solo per fare un esempio, che il viaggio è certamente falso (fictio, appunto), mentre la visione potrebbe anche essere vera, o almeno presentata come tale.
Proprio qui sta uno dei motivi estrinseci che prima ho indicato tra le cause per le quali questa interpretazione del “mezzo” come ‘notte’ o ‘sonno’ è stata rigettata dai moderni. Valga per tutti il commento di Francesco Mazzoni, scritto tra il 1965 e il 1985. Secondo il Mazzoni il dato cronologico viene respinto da Guido da Pisa «per motivi manifestamente fideistici»: sarebbero stati questi motivi a spingere «il frate» (come spregiativamente lo designa il critico) «a introdurre (passata ormai la prima metà del secolo, e radicalmente mutato l’orizzonte culturale – e quindi la problematica – di cui il poema s’era nutrito) una nuova categoria esegetica: quella della Commedia come “visio per somnum”: onde farne, sin dalle prime battute della chiosa, in armonia col carattere e il tono della medesima, risentita, sua personalità di religioso (che viene improntando di sé l’esegesi), una visione profetica di stampo biblico». Insomma, la Commedia non poteva essere una “visio per somnum”, non tanto per concreti riscontri testuali (che, come vedremo, vanno invece tutti in quella direzione), quanto per una visione pregiudizialmente laicista o, se si vuole, ideologicamente laicista del poema.
Tuttavia, proporre la Commedia come «visione profetica» non è affatto necessariamente riconducibile, come pretende il Mazzoni, a «motivi manifestamente fideistici» propri di una «risentita […] personalità di religioso». E non è neanche derivabile soltanto da uno «stampo biblico», dato che Dante aveva benissimo in mente sia il Somnium Scipionis di Cicerone, forse l’opera dell’antichità classica più letta nel medioevo, sia il genere medievale delle visioni, che era a sua volta, una reinterpretazione in chiave millenaristica delle visioni profetiche della Scrittura.
A proposito di «stampo biblico», ci sono tuttavia almeno due cose da osservare per verificare che esso non è poi così lontano dall’ispirazione dantesca. Che male c’è? Non poteva essere altrimenti per un intellettuale di quell’epoca. La prima osservazione è che, quando Dante parla del proprio poema, parla esplicitamente di «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra». La seconda è che di suggestioni bibliche si può e anzi si deve parlare a proposito della Commedia. Leggiamo, proprio in relazione al I canto, un brano tratto dal Libro dei profeti: Daniele, 7.
1 Nel primo anno di Baldassàr re di Babilonia, Daniele, mentre era a letto, ebbe un sogno e visioni nella sua mente. Egli scrisse il sogno e ne fece la relazione che dice:
2 Io, Daniele, guardavo nella mia visione notturna ed ecco, i quattro venti del cielo si abbattevano impetuosamente sul Mar Mediterraneo 3 e quattro grandi bestie, differenti l’una dall’altra, salivano dal mare. 4 La prima era simile ad un leone e aveva ali di aquila. Mentre io stavo guardando, le furono tolte le ali e fu sollevata da terra e fatta stare su due piedi come un uomo e le fu dato un cuore d’uomo.
5 Poi ecco una seconda bestia, simile ad un orso, la quale stava alzata da un lato e aveva tre costole in bocca, fra i denti, e le fu detto: «Su, divora molta carne».
6 Mentre stavo guardando, eccone un’altra simile a un leopardo, la quale aveva quattro ali d’uccello sul dorso; quella bestia aveva quattro teste e le fu dato il dominio.
7 Stavo ancora guardando nelle visioni notturne ed ecco una quarta bestia, spaventosa, terribile, d’una forza eccezionale, con denti di ferro; divorava, stritolava e il rimanente se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava: era diversa da tutte le altre bestie precedenti e aveva dieci corna.
Questa visione di tre bestie più una (e sia pure di bestie assai meno realistiche di quelle che impediscono il cammino di Dante) è così vicina a quanto descritto nel I canto della Commedia (anche solo per il fatto che due bestie su quattro sono le stesse nei due casi) che ci spinge a fare alcune considerazioni in più sul fatto che Dante si propone come espositore di una sua “visio per somnum” e non come autore di una fictio.
Per fare queste considerazioni, passiamo per un momento al secondo canto, cioè al primo vero canto dell’Inferno. Qui Dante chiede a Virgilio di verificare se la sua virtù sia all’altezza della situazione e ricorda due casi nei quali qualcuno è andato fisicamente («sensibilmente», Inf., II, 15) nell’oltretomba. Il primo di questi due casi, classico, Dante lo riprende da quanto ha raccontato Virgilio stesso: è Enea. Il secondo, evangelico, è Paolo. Dopo aver citato questi due casi, Dante nega di essere l’uno e l’altro: «io non Enëa, io non Paulo sono; / me degno a ciò né io né altri ‘l crede». Egli nega, insomma, non solo che la sua andata nell’oltretomba possa essere “fisica” come quella di Enea, ma anche che possa essere soltanto ipotizzata come “fisica” secondo quanto scritto da Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi [3]. A lui non può essere affidato un compito storico così alto come quelli affidati a Enea, fondare l’impero romano, e a san Paolo, diffondere il cristianesimo. Qui Dante non è falsamente modesto: stabilisce una gerarchia di compiti storici. A lui tocca compiere, attraverso la visione, un’analisi del presente che faciliti un nuovo e più giusto indirizzo del cammino umano. Se non è né Enea né Paolo, allora egli è Daniele, Ezechiele, Isaia etc., cioè uno di coloro che non sono andati fisicamente (non hanno avuto neanche il dubbio di essere andati fisicamente), ma hanno visto “per somnum” e, attraverso le loro visioni, hanno svolto per il popolo ebraico quel compito di indirizzo che Dante attribuisce a se stesso per l’Europa a lui contemporanea.
A differenza di quando Francesco Mazzoni scriveva il suo commento (negli anni tra il 1965 e il 1985) oggi sulla interpretazione della Commedia come “visione” c’è una diffusa concordanza, forse una moda. Walter Siti, commentando su “Repubblica” gli ultimi versi dell’ultimo canto del Paradiso, ha scritto (qui): «Si è discusso a lungo se il viaggio della Commedia sia da intendere come finzione poetica o come effettiva visione mistica dell’aldilà; insomma se Dante credesse davvero di aver “visto” ciò che racconta. Io sono tra chi ritiene che la Commedia sia una “visione in sonno” e che Dante fosse convinto della portata profetica del suo racconto; soffriva periodicamente di crisi epilettiche e fin dal tempo della Vita nova aveva interpretato queste crisi come segno di predestinazione, che il suo corpo fosse un recipiente adatto a illuminazioni trans-sensoriali. Nella sua epoca le visioni venivano prese sul serio, se ne distinguevano varie specie e nessuno metteva in dubbio che fossero un veicolo per la verità (una volta escluse le loro contraffazioni diaboliche). Inoltre la “visio” era un genere letterario diffuso, un collaudato contenitore narrativo. Dante è «pien di sonno» quando entra nella selva oscura e qui in paradiso, nel penultimo canto, San Bernardo lo incita ad affrettarsi perché il tempo del sonno sta per finire». Andrea Cortellessa afferma, in una sua video lettura del I canto (qui), che «si tratta di una vera e propria visione onirica». Questo diffuso concordare sull’idea della Commedia come visione, talvolta più estemporaneamente affermato che motivato, non ha portato però a riflettere sul significato del primo verso. Lo ha fatto soltanto, come ho ricordato più sopra, Bárberi Squarotti.
Se la Commedia è una “visio per somnum”, il «mezzo del cammin di nostra vita» ci dice proprio questo: e lo fa per indirizzare la nostra lettura. D’altro canto, verso la interpretazione della Commedia come “visio per somnum” ci portano, prima e più di tante altre possibili considerazioni, due precisi e inequivocabili indizi, finora – mi sembra – non esaminati da nessuno a questo scopo, ma che, come direbbe un pubblico ministero in un processo, data la loro perfetta concordanza e univocità, costituiscono, messi insieme, una prova. Questi indizi si trovano nei due poemi che Giovanni Boccaccio e Francesco Petrarca scrissero a imitazione della Commedia: rispettivamente l’Amorosa visione (il cui titolo è già di per sé molto esplicativo) e i Triumphi. Ecco i primi venticinque versi del poema allegorico del Boccaccio e i primi dodici di quello del Petrarca.
Giovanni Boccaccio, Amorosa visione, Canto I, vv. 1-25
Move nuovo disio l’audace mente,
donna leggiadra, per voler cantare
narrando quel ch’Amor mi fé presente,
in visïon piacendol di mostrare
all’alma mia, da voi presa e ferita
con quel piacer che ne’ vostri occhi appare.
Recando adunque la mente, smarrita
per la vostra virtù, pensieri al cuore,
che già temeva di sua poca vita,
accese lui d’un sì fervente ardore,
ch’uscita fuor di sé la fantasia
subito corse ‘n non usato errore.
Ben ritenne però il pensier di pria
con fermo freno, ed oltra ciò ritenne
quel che più caro di nuovo sentia.
In cui vegghiando, allor mi sopravenne
ne’ membri un sonno sì dolce e soave,
ch’alcun di lor in sé non si sostenne.
Lì mi posai, e ciascun occhio grave
al dormir diedi, per li quai gli agguati
conobbi chiusi sotto dolce chiave.
Così dormendo, sovra i lidi lati
errar mi vidi, non so che temendo,
pauroso e solo in quell’inabitati,
or qua or là, null’ordine tenendo;
[…].
Francesco Petrarca, Triumphi, Triumphus cupidinis, I, vv. 1-12
Al tempo che rinnova i miei sospiri
per la dolce memoria di quel giorno
che fu principio a sì lunghi martiri,
già il sole al Toro l’uno e l’altro corno
scaldava, e la fanciulla di Titone
correa gelata al suo usato soggiorno.
Amor, gli sdegni, e ’l pianto, e la stagione
ricondotto m’aveano al chiuso loco
ov’ogni fascio il cor lasso ripone.
Ivi fra l’erbe, già del pianger fioco,
vinto dal sonno, vidi una gran luce,
e dentro, assai dolor con breve gioco
[…].
Salta agli occhi e alle orecchie – ed è tanto più inverosimile che nessuno abbia usato finora questi indizi – che all’inizio dei loro poemi i due poeti sentono il bisogno di confermare la loro fedeltà all’originale dantesco – già attestata dall’uso della terzina (che, ricordo, è stata inventata da Dante: prima di lui non esisteva) – con la chiara indicazione, attraverso le parole “sonno” e “vidi” (entrambe presenti nei versi tra il 10 e il 16 del I canto dantesco), che ciò che stanno scrivendo è proprio una “visio per somnum”. Non solo: l’uso di rime proprie dei primi versi della Commedia (Boccaccio: “smarrita-vita”; Petrarca: “loco-fioco”) assolve qui con tutta evidenza a una funzione di richiamo: «Ehi, lettori! Avete capito che il modello di quest’opera è la Commedia di Dante?»[4]. Insomma, coloro che per primi hanno il coraggio di confrontarsi con il capolavoro dantesco non hanno dubbi sul fatto che esso sia una “visio per somnum”. Io mi fido di loro più che di sette secoli di critica dantesca.
3. La seconda domanda: c’era la luna quella notte?
A proposito di sette secoli, in tutto questo periodo in pochi si sono chiesti se vi fosse la luna la notte nella quale si apre la visione di Dante. E questi pochi non hanno dato risposte convincenti.
Ora, che vi fosse la luna quella notte è affermato dallo stesso autore, senza ombra di dubbio, per due volte. La prima alla fine del ventesimo canto dell’Inferno. Qui, Virgilio avere indicato una serie di maghi e indovini puniti nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio invita Dante ad affrettarsi con queste parole:
[…]
Ma vienne omai, ché già tiene il confine
D’amendue li emisperi e tocca l’onda
Sotto Sobilia Caino e le spine[5];
e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda».
Sì mi parlava, e andavamo introcque.
(Inf., XX, vv. 124-130)
La seconda volta lo ricorda personalmente Dante quando incontra Forese Donati nel ventitreesimo canto del Purgatorio e gli racconta come è arrivato nell’Oltretomba:
Di quella vita mi volse costui
che mi va innanzi, l’altr’ier, quando tonda
vi si mostrò la suora di colui”,
e ‘l sol mostrai […]
(Purg., XXIII, 118-121)
Il problema, dunque, non è se quella sera vi fosse la luna, ma dove fosse: Dante doveva averla vista e doveva ricordarsene bene, perché quella vista gli era stata di giovamento («non ti nocque»: è una litote, cioè una affermazione ottenuta attraverso due negazioni) in una occasione («alcuna volta» vale qui “una volta”) durante la notte nella quale egli si era ritrovato nella «selva fonda». Le parole che Virgilio dice nel ventesimo canto dell’Inferno sono incontrovertibili. Perciò è addirittura incredibile che i commenti della Commedia abbiano finora tutti, dai più antichi ai moderni, sottovalutato queste parole. Nel celebrato commento-racconto di Vittorio Sermonti, rivisto, come è noto, nientemeno che da Gianfranco Contini (ormai vecchio, però) e da Cesare Segre, mentre a proposito del primo canto si parla di una notte di luna piena, nel commento ai versi conclusivi del ventesimo non si accenna neanche al problema. Nel commento che ho già richiamato come il migliore tra quelli odierni Anna Maria Chiavacci Leonardi (che mi dispiace di citare per due occasioni tra le pochissime nelle quali il suo commento non mi convince) non fa eccezione rispetto alla generale dimenticanza del problema da parte della critica, anzi si avventura in un’osservazione a dir poco azzardata, e comunque incoerente, a proposito di quanto dice Virgilio: «Di questo fatto non si fa parola nel I canto. È certamente un’invenzione di questo momento per dare maggiore plausibilità alle parole di Virgilio»[6]. Perché mai il riferimento alla luna piena della sera prima dovrebbe dare «maggiore plausibilità» alle parole con le quali Virgilio spinge Dante ad affrettarsi nel passare dalla quarta alla quinta bolgia? E davvero si può pensare che Dante si abbandonasse a un’invenzione estemporanea in un poema la cui struttura è organizzata con una precisione maniacale? Questa osservazione di Chiavacci Leonardi farebbe pensare che Dante fosse un tipo, se non proprio del tutto irragionevole, almeno un po’ scriteriato. Ma certamente non è così. Il problema non è davvero se Dante abbia tirato via su un particolare di tanta importanza: non ha tirato via. E dunque, ecco la domanda: dove Dante ha visto la luna la notte dello smarrimento? O anche, anzi meglio: dove la luna gli era stata di giovamento quella notte?
Ho affermato prima che solo in pochi si sono posti il problema di dove fosse la luna quella notte. Chi sono questi pochi? Ne cito due, in particolare.
Uno è Giovanni Pascoli. In un corso universitario su Dante, poi pubblicato nel volume La mirabile visione, il Pascoli si occupa molto della luna nel primo canto e la interpreta come la “Grazia”. Per questo spiega: «Ora la grazia è, di natura sua, occulta. Invero dice S. Agostino, che è il Cristo che battezza, non però con visibile ministerio, sì occulta gratia. La grazia opera dentro noi; Dio non agisce da fuori, ma di dentro: non si mostra, diciamo. La grazia è segreta e rimota dai nostri sensi»[7]. Perciò, secondo Pascoli, Dante si giovò della luna quella notte, ma non la vide.
Di recente Franco Ferrucci ha riproposto il problema all’interno di una originale e interessante interpretazione complessiva dello smarrimento di Dante (della quale non è qui il luogo di parlare), ma in questa sua interpretazione considera la luna solo un simbolo, tanto che, sebbene perfettamente consapevole che si tratta di una “luna tonda”, cioè piena, afferma che essa «non è ancora tramontata al momento» dell’incontro tra Dante e Virgilio «e rimane diuturnamente nel cielo»[8]: ma ciò è impossibile perché la luna piena tramonta quando il sole sorge e un esperto di astronomia come Dante non avrebbe mai usato, neppure come simbolo totalmente slegato dalla realtà, uno strafalcione astronomico del genere.
Insomma, nessuno si è posto il problema di spiegare fino in fondo le parole di Virgilio collocando la luna da qualche parte nel paesaggio descritto nel primo canto. Qualunque lettore senza pregiudizi capisce perfettamente che quelle parole non alludono a un simbolo, ma alla luna piena vera e propria; e, soprattutto, contengono un particolare preciso che nessuno ha spiegato (anche se Pascoli, unico, ci ha provato): il particolare è che Dante aveva tratto giovamento dalla vista della luna.
Questa è la chiave per risolvere il problema. Infatti, sono poche in quella notte le circostanze nelle quali Dante trae giovamento da qualche cosa. E in una di quelle poche, stando alle chiare parole di Virgilio, quel giovamento deve essergli stato causato dal fatto di aver visto la luna. Perché mai non prestare fede a parole una volta tanto così semplici e di immediata comprensione?
Cerchiamo allora i momenti nei quali Dante prova sollievo nel primo canto. Essi sono tre: il primo è quando, dopo il buio fitto della selva (che era «oscura», «forte», «fonda»: dunque da lì non si poteva vedere la luna), Dante vede il colle le cui spalle, come osserverà successivamente alzando lo sguardo, sono già illuminate dal «pianeta che reca dritto altrui per ogne calle»; il secondo è quando Dante avverte che «’l sol montava ‘n su con quelle stelle / ch’eran con lui quando l’amor divino / mosse di prima quelle cose belle»; il terzo è quando vede davanti ai suoi occhi Virgilio. Poiché nel secondo e nel terzo di questi momenti di sollievo è evidente che della luna non c’è traccia (il primo è causato con tutta evidenza dal sorgere del sole, l’altro dalla presenza di Virgilio: non ci sono dubbi in entrambi i casi), cerchiamo di capire se per caso nel primo di questi tre momenti Dante non veda la luce della luna.
È il momento in cui Dante si trova «là dove terminava quella valle» oscurata dalla selva e vede un colle. Se fino a quel momento non aveva visto davanti a sé nessuna luce, come per esempio quella che si vede alla fine di un tunnel, è evidente che la luce non si trovava di fronte a lui: dunque, a quel punto, egli si gira, vedremo tra poco se a destra o a sinistra. Solo allora guarda «in alto» e vede dietro al colle una luce che illumina «le sue spalle». Essa è provocata dai «raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle». Questo «pianeta»[9] è la luna (nella foto qui sopra ecco l’effetto che fanno i raggi della luna che tramonta dietro un colle).
Per sette secoli, quasi senza eccezioni, tutti i commentatori hanno ritenuto che «quel pianeta» fosse il sole: l’unica ragione di questo errore così concorde può essere trovata nel fatto che il sole offre una comoda interpretazione allegorica. Solo Guido da Pisa afferma con sicurezza che sia Venere. Una piccola crepa in un muro apparentemente solido di certezze. Ma in questi sette secoli almeno uno si è fatto venire un dubbio serio. Si tratta di un illustre collega di Dante: Torquato Tasso. Postillando i versi 16 e 17 del primo canto dell’Inferno, il Tasso si pone un interrogativo non da critico, ma da poeta: «Come dice di sotto (v. 37) “tempo era dal principio del mattino”, se di già il sole avea coperte le spalle del monte?»[10]. Da collega, il Tasso sa bene che un poeta come Dante non avrebbe mai fatto un pasticcio del genere a distanza di venti versi e si pone la domanda che nessun critico si è posta: come poteva essere mai il sole dietro le spalle del monte, se Dante ne descrive il “montar su” poco dopo?
Proviamo a rispondere a questa domanda con le parole di un altro illustre collega sia di Dante sia del Tasso: Giacomo Leopardi. Leggiamo alcuni versi del suo Tramonto della luna.
Giacomo Leopardi, Il tramonto della luna, vv. 1-22 e 51-68
Quale in notte solinga,
sovra campagne inargentate ed acque,
là ‘ve zefiro aleggia,
e mille vaghi aspetti
e ingannevoli obbietti
fingon l’ombre lontane
infra l’onde tranquille
e rami e siepi e collinette e ville;
giunta al confin del cielo,
dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
nell’infinito seno
scende la luna; e si scolora il mondo;
spariscon l’ombre, ed una
oscurità la valle e il monte imbruna;
orba la notte resta,
e cantando, con mesta melodia,
l’estremo albor della fuggente luce,
che dianzi gli fu duce,
saluta il carrettier dalla sua via;
tal si dilegua, e tale
lascia l’età mortale
la giovinezza. […]
Voi, collinette e piagge,
caduto lo splendor che all’occidente
inargentava della notte il velo,
orfane ancor gran tempo
non resterete; che dall’altra parte
tosto vedrete il cielo
imbiancar novamente, e sorger l’alba:
alla qual poscia seguitando il sole,
e folgorando intorno
con sue fiamme possenti,
di lucidi torrenti
inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
giovinezza sparì, non si colora
d’altra luce giammai, nè d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
che l’altre etadi oscura,
segno poser gli dei la sepoltura.
Leopardi descrive in questi versi esattamente la situazione nella quale si trova Dante in quella notte. Dante esce dalla selva: la luna sta già tramontando da una parte e poco dopo il sole sorge «dall’altra parte». Probabilmente la direzione che ha seguito nell’attraversare la selva oscura è quella che va da nord verso sud. Solo «là dove terminava quella valle», cioè quando egli si trova ancora nella selva, ma può indirizzare lo sguardo al di là di essa, vede un colle. Allora si gira a destra, verso occidente, guarda in alto e vede che la luna sta già tramontando dietro quel colle tanto che ne veste le spalle con i suoi raggi. Quella visione gli è di giovamento: tanto è vero che egli si calma, guarda ormai con sollievo il posto dal quale è passato («lo passo»), si riposa e riprende la strada verso il colle. «Quasi al cominciar de l’erta» la lonza impedisce il suo cammino e lui si volta indietro: «i’ fui per ritornar più volte vòlto». Questo momento è decisivo: lui si gira «per ritornar» (non possono esserci altre interpretazioni: si gira di 180°), quindi si rivolge verso oriente e proprio allora si rende conto che era «il principio del mattino» e vede che («dall’altra parte», come benissimo spiega Leopardi) «’l sol montava ‘n sù».
È assolutamente necessario, per capire questo brano, mettersi nei panni di Dante, camminare con lui nella selva da nord a sud, fermarsi «là dove terminava quella valle», girarsi a destra verso occidente dove la luna sta tramontando, fermarsi a causa della lonza, voltarsi di 180° per tornare indietro e vedere il sole che sorge «dall’altra parte». Il Tasso aveva capito benissimo l’incongruenza di una interpretazione che vedesse il sole sorgere dietro il colle e poi sorgere di nuovo da un’altra parte.
Ecco dunque la risposta alla domanda che io stesso ho posto. Certo che c’era la luna quella notte: la luna è il pianeta che, come Leopardi ci ricorda, finché non scende «dietro Apenninno od Alpe» (cioè, in generale, come dice l’etimologia del verbo “tramontare”, dietro a un monte), è «duce» per chi viaggia di notte, cioè «mena dritto altrui per ogne calle».
[1] Dante Alighieri, Commedia, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1991, vol. I, p. 37. Cito tutti gli altri i commenti danteschi dall’edizione digitale dell’utilissimo Dartmouth Dante Project http://dante.dartmouth.edu/ .
[2] Giorgio Bárberi Squarotti, Tutto l’Inferno, Milano, Franco Angeli, 2011, p. 27.
[3] Paolo di Tarso, II Lettera ai Corinzi, XII, 1-5: «Se bisogna vantarsi – ma non conviene – verrò tuttavia alle visioni e alle rivelazioni del Signore. 2So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. 3E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – 4fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare». Come è evidente, qui Paolo dichiara di non sapere se fu rapito «con il corpo o fuori del corpo». Ma Dante nega la possibilità stessa di un dubbio del genere. Tale dubbio è possibile solo dentro la visione: e difatti nel Paradiso, Dante prova questo dubbio, quasi con le stesse parole di Paolo, nell’atto del trasumanar: «S’i’ era sol di me quel che creasti / novellamente, amor che ‘l ciel governi, / tu ‘l sai, che col tuo lume mi levasti» (Paradiso, canto I, vv. 73-75).
[4] Si deve notare che nei Triumphi Petrarca userà solo un’altra volta la parola ‘fioco’ (ancora in rima con ‘loco’), in III, 27; nel Canzoniere la usa soltanto una volta nel son. CLXX, v. 11).
[5] Caino e le spine: modo popolare di indicare la luna piena con le sue macchie.
[6] Dante Alighieri,Commedia, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, cit., p. 617.
[7] Giovanni Pascoli, La mirabile visione, Bologna, Zanichelli, 19132 (prima edizione: Messina, Muglia, 1901), p. 312. Pascoli cita qui come sua fonte il volume di Nunzio Vaccalluzzo, Il plenilunio e l’anno della Visione Dantesca, Trani, 1899; quindi il Vaccalluzzo potrebbe essere considerato un terzo commentatore interessato a rispondere alla domanda a proposito della luna. Probabilmente ce ne saranno anche altri che io non conosco, ma certamente nessuno si è preoccupato di trarre tutt le conseguenze dalla risposta a quella domanda, anche quando se la sia posta.
[8] Franco Ferrucci, Dante, lo stupore e l’ordine, Napoli, Liguori, 2007, nel cap. Plenilunio sulla selva: le rime per donna Petra, p. 79.
[9] pianeta: nell’italiano due-trecentesco con questa parola si designavano tutti i corpi celesti, stelle, pianeti veri e propri, satelliti etc; corrisponde all’italiano odierno ‘astro’.
[10] Torquato Tasso, La Divina commedia di Dante Alighieri postillata da Torquato Tasso, a c. di Giovanni Rosini, Pisa, Tip. Didot, 1830, Tomo I, p. 3.