Lorenzino de’ Medici come Cesare Borgia?
C’è da ridere

L’amara comicità di Machiavelli nel VII capitolo del Principe

Cesare Borgia è il grande protagonista del settimo capitolo del Principe, quello nel quale Machiavelli affronta, come dice chiaramente nel titolo, il tema – attualissimo nell’Italia del primo Cinquecento – dei «Principati nuovi che s’acquistano colle armi e fortuna di altri».
Nella prima parte di questo capitolo Machiavelli sottolinea quanto sia difficile rendere stabile il potere in uno stato acquistato per volontà di altri e con l’aiuto della fortuna e si impegna a portare due esempi relativi al modo di «diventare principe per virtù o per fortuna». Come esempio del primo caso porta Francesco Sforza; come esempio del secondo Cesare Borgia. Fedele al tema del capitolo, lo scrittore dedica al primo appena due righe: «Francesco, per li debiti mezzi e con una grande sua virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne». A Cesare Borgia dedica invece tutto il resto del capitolo e di lui dice ciò che nessuno si aspetterebbe: non solo lo propone all’imitazione di «tutti coloro, che per fortuna e con l’armi d’altri sono saliti all’imperio», ma più in generale lo propone come il miglior modello possibile di «principe nuovo».
Ecco il testo di questa parte del VII capitolo del Principe, con qualche taglio.


Da l’altra parte, Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre e con quella lo perdé, non ostante che per lui si usassi ogni opera e facessinsi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare per mettere le barbe sua in quelli stati che l’arme e fortuna di altri gli aveva concessi. […] Se si considerrà tutti e’ progressi del duca, si vedrà lui aversi fatti grandi fondamenti alla futura potenza; e’ quali non iudico superfluo discorrere perché io non saprei quali precetti mi dare migliori, a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sue: e se gli ordini sua non gli profittorno, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna.

[…]
Aveva Alessandro VI, nel volere fare grande il duca suo figliuolo, assai difficultà presenti e future. Prima, e’ non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno stato che non fussi stato di Chiesa: e, volgendosi a tòrre quello della Chiesa, sapeva che il duca di Milano e’ viniziani non gliene consentirebbono, perché Faenza e Rimino erano di già sotto la protezione de’ viniziani. Vedeva oltre a questo l’arme di Italia, e quelle in spezie di chi si fussi potuto servire, essere nelle mani di coloro che dovevano temere la grandezza del papa, — e però non se ne poteva fidare, — sendo tutte nelli Orsini e Colonnesi e loro complici. Era adunque necessario si turbassino quelli ordini e disordinare gli stati di Italia, per potersi insignorire sicuramente di parte di quelli. Il che gli fu facile, perché e’ trovò e’ viniziani che, mossi da altre cagioni, si erano volti a fare ripassare e’ franzesi in Italia: il che non solamente non contradisse, ma lo fe’ più facile con la resoluzione del matrimonio antico del re Luigi.

Passò adunque il re in Italia con lo aiuto de’ viniziani e consenso di Alessandro: né prima fu in Milano che il papa ebbe da lui gente per la impresa di Romagna, la quale gli fu acconsentita per la reputazione del re.

Acquistata adunque il duca la Romagna e sbattuti e’ Colonnesi, volendo mantenere quella e procedere più avanti, lo impedivano dua cose: l’una, le arme sua che non gli parevano fedeli; l’altra, la volontà di Francia; cioè che l’arme Orsine, delle quali si era valuto, gli mancassino sotto, e non solamente gl’impedissino lo acquistare ma gli togliessino lo acquistato, e che il re ancora non li facessi il simile. Delli Orsini ne ebbe uno riscontro quando, dopo la espugnazione di Faenza, assaltò Bologna, che gli vidde andare freddi in quello assalto; e circa il re conobbe lo animo suo quando, preso el ducato d’Urbino assaltò la Toscana: da la quale impresa il re lo fece desistere.

Onde che il duca deliberò di non dependere più da le arme e fortuna d’altri; e, la prima cosa, indebolì le parte Orsine e Colonnese in Roma: perché tutti gli aderenti loro, che fussino gentili uomini, se gli guadagnò, faccendoli suoi gentili uomini e dando loro grandi provisioni, e onorògli, secondo le loro qualità, di condotte e di governi: in modo che in pochi mesi negli animi loro l’affezione delle parti si spense e tutta si volse nel duca. Dopo questo, aspettò la occasione di spegnere e’ capi Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna: la quale gli venne bene, e lui la usò meglio. Perché, avvedutosi gli Orsini tardi che la grandezza del duca e della Chiesa era la loro ruina feciono una dieta alla Magione nel Perugino; da quella nacque la ribellione di Urbino, e’ tumulti di Romagna e infiniti periculi del duca, e’ quali tutti superò con l’aiuto de’ franzesi. E ritornatoli la reputazione, né si fidando di Francia né di altre forze esterne, per non le avere a cimentare si volse alli inganni; e seppe tanto dissimulare l’animo suo che li Orsini medesimi, mediante il signore Paulo, si riconciliorno seco, — con il quale il duca non mancò d’ogni ragione di offizio per assicurarlo, dandoli danari veste e cavalli, — tanto che la simplicità loro gli condusse a Sinigaglia nelle sua mani[1].

Spenti adunque questi capi e ridotti e’ partigiani loro sua amici, aveva il duca gittati assai buoni fondamenti alla potenza sua, avendo tutta la Romagna col ducato di Urbino, parendoli massime aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi quelli populi per avere cominciato a gustare il bene essere loro. E perché questa parte è degna di notizia e da essere da altri imitata, non la voglio lasciare indreto. Presa che ebbe il duca la Romagna e trovandola suta comandata da signori impotenti, — e’ quali più presto avevano spogliati e’ loro sudditi che corretti, e dato loro materia di disunione, non d’unione, — tanto che quella provincia era tutta piena di latrocini, di brighe e d’ogni altra ragione di insolenzia, iudicò fussi necessario, a volerla ridurre pacifica e ubbidiente al braccio regio, dargli buono governo: e però vi prepose messer Rimirro de Orco, uomo crudele ed espedito, al quale dette plenissima potestà. Costui in poco tempo la ridusse pacifica e unita, con grandissima reputazione. Di poi iudicò il duca non essere necessaria sì eccessiva autorità perché dubitava non divenissi odiosa, e preposevi uno iudizio civile nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo, dove ogni città vi aveva lo avvocato suo. E perché conosceva le rigorosità passate avergli generato qualche odio, per purgare li animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto, volse mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita, non era causata da lui ma da la acerba natura del ministro. E presa sopra a questo occasione, lo fece, a Cesena, una mattina mettere in dua pezzi in su la piazza, con uno pezzo di legne e uno coltello sanguinoso accanto: la ferocità del quale spettaculo fece quegli popoli in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.

[A questo punto Cesare Borgia cambia alleanze sia per rafforzarsi definitivamente sia per far capire alle potenze europee che la loro influenza in Italia dipende da lui e non viceversa. Un colpo di genio. La Spagna non può che fidarsi di lui e la Francia si rende conto che senza un accordo con lui perde ogni possibilità di avere un qualche peso tra gli stati italiani. Tutto sembra volgere per il meglio. Succede però l’imprevedibile: papa Alessandro VI muore, dopo appena cinque anni che Cesare aveva cominciato a combattere per consolidare il suo potere, quando aveva stabilizzato soltanto la Romagna. Nel frattempo lo stesso Valentino si ammala ed è in punto di morte. In realtà non sarebbe morto di questa malattia, ma di un’altra che lo avrebbe colpito quattro anni dopo, nel 1507.]

Ed era nel duca tanta ferocità e tanta virtù, e sì bene conosceva come li uomini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e’ fondamenti che in sì poco tempo si aveva fatti, che s’e’ non avessi avuto quelli eserciti addosso[2], o lui fussi stato sano, arebbe retto a ogni difficultà.

Raccolte adunque tutte queste azioni del Duca, non saprei riprenderlo, anzi mi pare, come io ho fatto, di proporlo ad imitare a tutti coloro, che per fortuna e con l’armi d’altri sono saliti all’imperio. Perché egli avendo l’animo grande, e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimente; e solo si oppose alli suoi disegni la brevità della vita di Alessandro, e la sua infirmità.

Chi adunque giudica necessario nel suo Principato nuovo assicurarsi degl’inimici, guadagnarsi amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da’ populi, seguire e riverire da’ soldati, spegnere quelli che ti possono o debbono offendere, e innovare con nuovi modi gli ordini antichi, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infedele, creare della nuova, mantenersi le amicizie de’ Re e delli Principi, in modo che ti abbino a beneficare con grazia, o ad offendere con rispetto, non può trovare più freschi esempi, che le azioni di costui.


Questo scrive Niccolò Machiavelli a proposito di Cesare Borgia: che cosa c’è di comico in tutto ciò? È comico l’evidente parallelo storico che l’autore propone tra casa Borgia e casa Medici. Tra i contemporanei fiorentini – e non solo fiorentini – dello scrittore, non c’era nessuno che non vedesse quel parallelo, per quanto esso fosse soltanto implicito e non esplicitamente dichiarato. D’altro canto, la dedica del libro e l’esortazione finale non potevano lasciare dubbi a chi ne avesse mai avuti.
Quel parallelo era comico? Certo. Vediamo perché.
Machiavelli scrive la parte del Principe che comprende i primi undici capitoli (quindi anche il settimo del quale stiamo parlando) tra il mese di giugno e quello di dicembre del 1513, nelle campagne di San Casciano. Possedeva lì tre edifici e qualche terreno coltivato a vite e ulivo. Di questi tre edifici uno, detto l’Albergaccio, dava il nome al luogo e ospitava effettivamente un’osteria con camere lungo la strada di Sant’Andrea in Percussina: un posto di passaggio perché lungo quella strada si andava (e si va) dalla zona del Chianti a Firenze. L’osteria-locanda doveva rendere abbastanza bene, ma certo il nome del posto, unito alla descrizione che ne fa lo stesso proprietario, cioè Machiavelli (nella lettera a Francesco Vettori citata qui sotto), ci dice che non era un posto per vip.
A fianco dell’Albergaccio il secondo edificio era una macelleria. Il terzo era la casa dove Machiavelli si era sistemato già da qualche mese, subito dopo essere uscito dal carcere.
Sì, perché per quattro settimane, dal 12 febbraio all’11 marzo di quello stesso anno, Machiavelli se l’era vista brutta.
Nel settembre dell’anno prima, con l’aiuto delle truppe spagnole, i Medici erano tornati a Firenze dopo venti anni di repubblica. Il cardinale Giovanni, suo fratello Giuliano e il nipote Lorenzo erano rientrati a uno a uno in città senza nascondere un certo spirito di vendetta. Machiavelli, che era stato uno dei funzionari più in vista di quella repubblica, dopo qualche tempo durante il quale aveva cercato di capire se era possibile rendersi ancora utile al nuovo stato mediceo senza rinnegare il suo passato repubblicano, era stato coinvolto in un sospetto di congiura, incarcerato e sottoposto alla tortura di sei “tratti di corda”. Non era facile resistere a quel tipo di tortura. Come mostrano le figure qui a fianco, quando veniva sottoposto ai “tratti di corda” il torturato veniva sollevato per le braccia legate dietro la schiena; dopo essere stato portato su, veniva fatto cadere giù fino a che la corda non si bloccava lasciandolo sospeso[3]. Un biografo del Machiavelli, Roberto Ridolfi, scrive che «quattro tratti di fune bastavano per l’ordinario a vincere ogni corpo e ogni animo; non bastando, si seguitava anche se le membra erano slogate, aperte le carni» [4]. I capi della congiura, Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi, torturati anche loro, avevano confessato e furono decapitati il 23 febbraio. Poi un colpo di fortuna. A marzo, l’11 marzo di quel 1513, Giovanni de’ Medici, il figlio prediletto di Lorenzo il Magnifico, viene eletto papa con il nome di Leone X. Ha trentotto anni e da quando ne aveva quattordici era cardinale. In un ritratto di Raffaello di cinque anni dopo (che si trova qui sotto) ha un aspetto da uomo piuttosto attempato e morirà nel 1521, prima di raggiungere la soglia dei cinquant’anni.
Machiavelli sta cordialmente antipatico non personalmente al nuovo papa, ma, quel che è peggio, al suo entourage e, in particolare, a Giuliano. E lo sa perfettamente, tanto che proprio a Giuliano scrive (ma non si sa se glielo abbia fatto davvero recapitare) uno straordinario sonetto caudato [5] irridente e cinico verso tanto verso se stesso quanto verso i suoi presunti complici, appena decapitati:


Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti [6]
e sei tratti di fune in sulle spalle;
l’altre miserie mie non vo’ contalle,
poiché così si trattano i poeti.[7]

Menon pidocchi queste parieti
grossi e paffuti che paion farfalle,
né fu mai tanto puzzo in Roncisvalle[8]
o in Sardigna fra quegli arboreti[9],

quanto nel mio sì delicato ostello.
Con un rumor che proprio par che ‘n terra
fulmini Giove e tutto Mongibello[10],

l’un s’incatena e l’altro si disferra,
combatton toppe, chiavi e chiavistelli;
un altro grida: – Troppo alto da terra! [11] -.

Quel che mi fa più guerra
è che dormendo, presso all’aurora,
io cominciai a sentire: Pro eis ora[12].

Or vadano in buon’ora,
purché la tua pietà per me si volga
che al padre e al bisavo el nome tolga[13].


Ho parlato di un colpo di fortuna: esso consiste nel fatto che, all’elezione del papa Medici, scatta a Firenze, indipendentemente da ogni possibilità di intervento da parte di Giuliano, una amnistia generale.
Machiavelli esce così da una galera nella quale altrimenti sarebbe potuto rimanere non si sa per quanto tempo e con quale esito. È troppo intelligente, tuttavia, per non capire che per lui è meglio cambiare aria. Quella sua casa a Sant’Andrea in Percussina non è troppo lontana da Firenze ed è su una strada frequentata: le notizie arrivano facilmente. Al tempo stesso è abbastanza lontana perché gli amici vecchi e nuovi dei Medici, almeno per un po’, si scordino di lui.
Dopo quindici anni passati a servire la Repubblica giorno e notte, a Firenze, in Italia e in Europa, le giornate all’Albergaccio per Machiavelli potrebbero essere vuote, ma lui sa come passarle senza annoiarsi. Ce lo racconta in una lettera famosissima scritta a Francesco Vettori il 10 dicembre di quell’anno:


Io mi lievo la mattina con el sole et vommene in un mio boscho che io fo tagliare, dove sto dua ore a rivedere l’opere del giorno passato, et a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mane o fra loro o co’ vicini.

[Poi va a bere un po’ d’acqua, si rifugia in una riserva di caccia. Non porta però con sé strumenti per cacciare, ma libri: Dante o Petrarca o qualche poeta latino]

[…]
Trasferiscomi poi in su la strada nell’hosteria, parlo con quelli che passono, domando delle nuove de’ paesi loro, intendo varie cose, et noto varii gusti et diverse fantasie d’huomini. Vienne in questo mentre l’hora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa e paululo[14] patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’oste, per l’ordinario, un beccaio[15], un mugniaio, dua fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo per tutto dí giuocando a cricca, a triche tach, et poi dove nascono mille contese et infiniti dispetti di parole iniuriose, et il più delle volte si combatte un quattrino et siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Cosí […] traggo el cervello di muffa, et sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.

Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana piena di fango e di loto[16], et mi metto panni reali et curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi transferisco in loro. E perché Dante dice che non fa scienza senza lo ritenere lo avere inteso io ho notato quello di che per la loro conversatione ho fatto capitale, et composto uno opuscolo De principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitationi di questo subbietto, disputando che cosa è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono. Et se vi piacque mai alcuno mio ghiribizo, questo non vi doverrebbe dispiacere; et a uno principe, et maxime [soprattutto] a uno principe nuovo, doverrebbe essere accetto; però io lo indirizzo alla Magnificentia di Giuliano.


Questa lettera a Francesco Vettori, ambasciatore della Firenze medicea presso il papa Medici, è di sei mesi successiva rispetto al periodo del quale stiamo parlando. In realtà noi sappiamo da altri documenti che, in quei giorni tra giugno e luglio del 1513, le cose erano andate un po’ diversamente. Almeno per quanto riguarda il modo in cui Machiavelli aveva preso appunti sulle letture dei classici. Uscito dal carcere, isolato in quella sua casa all’Albergaccio, quando indossava metaforicamente quei suoi «panni reali e curiali» Machiavelli si immergeva nella lettura delle Storie di Tito Livio. I suoi appunti, in un primo momento, non avevano affatto prodotto il Principe, ma la prima parte dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, certamente i primi diciotto capitoli del I libro dei Discorsi.
Poi, ecco, siamo alla fine di giugno, anzi esattamente tra il 20 giugno e il 12 luglio e il suo amico Vettori gli scrive in queste date due lettere nella prima delle quali lascia intendere e nella seconda afferma esplicitamente che il papa «in ogni modo pensa dare stati» a Giuliano, suo fratello, e a Lorenzo, suo nipote.
Alla fine della lettera Francesco Vettori aggiunge:


Che voglia dare stato a’ parenti, lo mostra che così hanno fatto li papi passati Calisto, Pio, Sixto, Innocentio, Alessandro et Giulio; et chi non l’ha fatto, è restato per non potere. Oltre a questo, si vede che questi suoi a Firenze pensano poco, che è segno che hanno fantasia a stati che sieno fermi et dove non habbino a pensare continuo a dondolare huomini, Non voglio entrare in consideratione quale stato disegni, perché in questo muterà proposito, secondo la occasione.


Allora, il quadro è questo. Machiavelli sta scrivendo i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio; il capitolo 18 si intitola: «In che modo nelle città corrotte si potesse mantenere uno stato libero, essendovi; o, non vi essendo, ordinarvelo».
In particolare, per quanto riguarda la possibilità di innovare gli ordini corrotti di uno stato, a un certo punto Machiavelli scrive:


[…] a fare questo non basta usare termini ordinari, essendo modi ordinari cattivi; ma è necessario venire allo straordinario, come è alla violenza ed all’armi, e diventare innanzi a ogni cosa principe di quella città, e poterne disporre a suo modo. E perché il riordinare una città al vivere politico presuppone uno uomo buono, e il diventare per violenza principe di una republica presuppone uno uomo cattivo; per questo si troverrà che radissime volte accaggia che uno buono, per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono, voglia diventare principe; e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene, e che gli caggia mai nello animo usare quella autorità bene, che gli ha male acquistata.


Leone X in un ritratto di Raffaello

Mentre si dedica a queste considerazioni gli arriva la notizia che il papa vuole «dare stato» ai suoi parenti e Machiavelli pensa che sia arrivato il momento di riflettere su che cosa sarebbe utile fare in quelle circostanze per l’Italia, paese addirittura senza stato e quindi più che mai bisognoso di «venire allo straordinario» e di avere un principe che lo riordini. La prima parte dell’opuscolo De principatibus la scrive in pochi mesi, dato che il 10 dicembre 1513 ne dà notizia all’amico Vettori. La seconda parte, contenente i capitoli dal dodici al ventisei, la porta a termine probabilmente entro la primavera dell’anno successivo.
Quello che Machiavelli scrive è al tempo stesso lucidissimo e disperato: è l’indicazione dell’unica strategia ragionevole per la fondazione di uno stato nazionale forte in Italia e la implicita sconfortata constatazione che non c’è nessuno che possa attuare questa strategia.
Nel VII capitolo del Principe Machiavelli descrive una situazione molto simile a quella che si è determinata in quel 1513 in Italia: tra il 1499 e il 1503 Rodrigo Borgia, diventato papa Alessandro VI, aveva creato le condizioni per «dare stati» a suo figlio Cesare e questi, come abbiamo letto, pur avendo ricevuto il nuovo principato senza alcun merito, aveva avuto poi, secondo Machiavelli, tanta virtù che sarebbe riuscito a renderlo forte e saldo se non si fosse trovato a lottare contro una grande malignità della fortuna. Adesso, in quell’estate del 1513, si ripete la stessa situazione: Giovanni de’ Medici è diventato papa Leone X e anche lui pensa di «dare stati» ai suoi parenti. Dunque, tocca ai Medici. In particolare, a Leone X tocca la parte di Alessandro VI, a suo nipote Lorenzo quella di Cesare Borgia e a Giuliano la duplice parte di una “alternativa a” o di un “sostenitore e consigliere di” Lorenzo. Tocca davvero ai Medici? Figuriamoci!
C’è da ridere, e certamente Machiavelli ride amaro. Sa perfettamente di avere scritto qualcosa di comico e sa che i lettori informati dei fatti rideranno. Infatti è perfettamente consapevole che né Giuliano né Lorenzo hanno la minima possibilità di imitare Cesare Borgia.
Forse Leone X potrebbe essere accreditato della forza e dell’astuzia necessarie per rappresentare la parte che era stata di Alessandro VI, ma probabilmente gli mancano l’audacia e la spregiudicatezza indispensabili. Ma che dire degli altri due? Machiavelli pensa in un primo tempo, come scrive al Vettori, di dedicare il Principe a Giuliano (proprio come gli aveva dedicato il sonetto caudato dal carcere e, forse, con lo stesso spirito di irrisione verso se stesso, verso il dedicatario e verso tutto il mondo), ma questi non ne vuol sapere di lui, anzi è ben contento quando da Roma, dal cardinale Giulio suo cugino (futuro papa Clemente VII), arriva per iscritto a tutti coloro che sono vicini ai Medici l’ordine perentorio – testualmente – di «non si impacciare con Niccolò». Il fatto è che Giuliano, come tutti sanno, è un imbelle: nel 1515, il 29 giugno riceverà il comando dell’esercito del papa per la guerra contro Francesco I di Francia e già l’8 agosto dovrà essere sostituito per febbri e convulsioni. Da chi sarà sostituito? Proprio dal nipote Lorenzo. Bene, si dirà: c’è dunque un comandante militare; ecco a chi poteva giovare l’esempio del Valentino, ecco chi poteva imitare le sue azioni e la sua virtù. Tuttavia la semplice ipotesi che Lorenzo potesse essere il nuovo Cesare Borgia faceva ridere Machiavelli e i suoi contemporanei.
E quando, tra il 1515 e i primi del 1516, Machiavelli si decide a dedicare l’opera a Lorenzo, tra sé e sé ride certamente di gusto, anche se amaramente. Il giovane Lorenzo, per le testimonianze dei contemporanei, era bello sebbene forse piccolo di statura (come lascerebbe intendere il nome di Lorenzino con il quale era spesso citato anche in documenti ufficiali). Il suo problema era quello di essere spinto dalla madre ad ambizioni forse incompatibili con le sue capacità, giudicate a suo tempo non grandissime dai precettori che ne avevano seguito gli studi. In ogni caso, almeno dal 1515 (quindi già prima che Machiavelli gli dedicasse il Principe), era anche gravemente debilitato dalla sifilide di cui morirà nel 1519 a ventisette anni. È vero: proprio in quell’estate del 1515, come ho ricordato qui sopra, Lorenzo veniva nominato capitano delle truppe pontificie; ma, a dispetto del titolo altisonante di cui poté fregiarsi, non combatté nemmeno un minuto. Il papa suo zio, mentre lo nominava capitano, tramite un agente segreto trattava con Francesco I per sottrarsi agli impegni dell’alleanza con Massimiliano Sforza. Il compito di Lorenzo non era pertanto quello di combattere, ma quello di perdere tempo e di trattenere l’esercito tra la Romagna e la Lombardia. L’operazione riuscì e l’esercito pontificio si sottrasse così alla rovinosa sconfitta di Meregnano. Successivamente, il compito di Lorenzo come capitano delle truppe pontificie fu quello di intrattenere piacevolmente Francesco I e, a quanto pare, svolse questo compito con grande efficacia, tra feste, balli e giochi delle carte.
Ma torniamo al 1513 e ai mesi nei quali Machiavelli scrive i primi undici capitoli del Principe e si rompe il capo per trovare uno della famiglia Medici al quale dedicare il suo “trattatello”. In quel periodo accade un episodio causato dal fatto che Lorenzo, come nipote del Magnifico, ci teneva a portare il soprannome del nonno. Un bel guaio per uno che non era certo all’altezza. È lo storico dell’epoca Giovanni Cambi (nelle sue Istorie[17], scritte dai primi del secolo fino al 1535, anno della sua morte) a ricordare questo episodio che la dice tutta sul soggetto in questione e sull’opinione che di lui avevano i fiorentini. Nel settembre del 1513, proprio mentre Machiavelli scriveva i primi undici capitoli del Principe, a un fiorentino che aveva usato per il nipote il soprannome “il Magnifico” spettante al nonno un mercante aveva ribattuto: «Magnifico merda!». Questo mercante era Francesco del Pugliese. Il fatto dovette essere particolarmente clamoroso per essere citato in un libro di storia; e lo fu probabilmente sia per l’importanza del personaggio (che non era uno qualsiasi: in casa aveva un dipinto del Botticelli e le spalliere dei suoi divani erano state dipinte da Piero di Cosimo) sia perché un soldato che aveva ascoltato la conversazione (inconsapevole di passare, sia pure anonimo, alla storia con quel suo comportamento tanto zelante) denunciò Francesco del Pugliese e questi fu esiliato da Firenze per otto anni (in effetti sarebbe morto in esilio nel 1519). Questo fatto dà l’idea di come Lorenzo fosse apprezzato dai concittadini e di come i fiorentini ridessero di lui, incuranti persino dei rischi che correvano.
Non smentisce la poca considerazione generale verso Lorenzo una famosa (o famigerata) lettera di Machiavelli al Vettori datata febbraio-marzo 1514 (quindi scritta proprio nei giorni nei quali Machiavelli portava a termine gli ultimi capitoli del Principe e, probabilmente, pensava al dedicatario dell’opera):


Io non voglio lasciare indreto di darvi notizia del modo del procedere del Magnifico Lorenzo, che è suto infino ad qui di qualità, che gli ha ripieno di buona speranza tutta questa città; et pare che ciascuno cominci ad riconoscere in lui la felice memoria del suo avolo. Perché sua M.tia è sollecita alle facciende, liberale et grato nella audienza, tardo et grave nelle risposte. El modo del suo conversare è di sorte, che si parte dagli altri tanto, che non vi si riconosce drento superbia; né si mescola in modo, che per troppa familiarità generi poca reputatione. Con e giovani suoi equali tiene tale stilo, che non gli aliena da sé, né anche dà loro animo di fare alcuna giovinile insolentia. Fassi in summa et amare et reverire, più tosto che temere; il che quanto è più difficile ad observare, tanto è più laudabile in lui.

[…] Et benché io sappia che da molti intenderete questo medesimo, mi è parso di scrivervelo, perché col testimone mio ne prendiate quel piacere che ne prendiamo tutti noi altri, e quali continuamente l’observiamo, et possiate, quando ne habbiate occasione, farne fede per mia parte alla santità di Nostro Signore.


Il corsivo di quest’ultima frase è mio ed è la sottolineatura del motivo preciso per il quale Machiavelli, che doveva ben conoscere l’episodio del “Magnifico merda”, scrive questo vero e proprio “elogio di Lorenzo” al Vettori: Machiavelli lo scrive – è evidente e dichiarato – perché il Vettori lo riferisca al papa e perché lo stesso Lorenzo lo venga a sapere e sia portato perciò a non tener conto dell’avversione che la famiglia Medici ha contro di lui.
Ma, ripeto, sia Machiavelli sia i fiorentini (quando di lì a poco avrebbero conosciuto il Principe), non potevano che ridere dell’accostamento tra Cesare Borgia e Lorenzo “il Magnifico merda”.
Il fatto è che Machiavelli non è uno qualsiasi: quando è disperato, la butta sul comico. I critici in genere non la pensano così e nessuno ha mai visto niente di comico nel VII capitolo del Principe. Ma i lettori di queste mie osservazioni, con il dovuto rispetto per la critica machiavelliana presente e passata (tra questa mi ci metto anch’io, che in un saggio di quarant’anni fa – più ossequioso verso la tradizione critica – sostenevo una posizione diversa[18]), provate invece a ripensare alle pagine del VII capitolo del Principe che ho citate qua sopra, con in mente questa idea: l’attore che avrebbe dovuto impersonare Cesare Borgia era Lorenzo, il “Magnifico merda”, con a fianco Giuliano, un pusillanime, pauroso, indeciso, sempre bisognoso di appoggiarsi all’autorità altrui. L’effetto comico è straordinario. È precisamente lo stesso di un film, Totò contro Maciste (qui a fianco una scena “esplicativa”), nel quale il compito di salvare l’Egitto dei Faraoni da un Maciste indemoniato veniva affidato all’illusionista da circo Totokamen con l’assistenza, pensate un po’, di Tarantenkamen, un Nino Taranto strepitoso! Al centro del Principe c’è sì la disperazione, dovuta a una lucidissima visione politica. Ma c’è anche una tanto amara quanto sfrenata comicità.
D’altro canto, non è l’unica volta che Machiavelli la butta sul comico proprio quando è disperato. Il sonetto dal carcere che ho citato qui sopra è già una testimonianza con valore di prova. Ma ci sono almeno altri due episodi che attestano questa tendenza del carattere del nostro scrittore.
Il primo risale alle nozze di Lorenzo con Maddalena de La Tour d’Auvergne, celebrate in Francia nel 1518, circa due anni dopo che Machiavelli aveva dedicato il Principe al giovane rampollo di casa Medici. Per quella occasione, come è noto, Machiavelli scriverà La mandragola, rappresentata a Firenze, sempre alla presenza di Lorenzo, sia all’annuncio delle nozze, tra gennaio e febbraio del 1518, sia al ritorno degli sposi dalla Francia, nel settembre di quello stesso anno. E ancora una volta la butta sul comico, a spese del dedicatario Lorenzo, probabilmente incapace di capire la presa in giro ai suoi danni. Nel Prologo, parlando dell’autore della commedia (cioè di se stesso) e sottolineando che è «di poca fama», Machiavelli aggiunge che, se la materia della commedia non è degna di uno studioso gli spettatori devono scusarlo perché, ecco le sue parole:


[…] s’ingegna
con questi van’ pensieri
fare el suo tristo tempo più suave
perché altrove non have
dove voltare el viso,
ché gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altra virtùe,
non sendo premio alle fatiche sue.


Machiavelli, insomma, dice: vedete, questo qui non mi utilizza come esperto delle questioni di politica estera e io, che volete che faccia? scrivo una commedia. Ma il più bello è che nel V atto, Machiavelli inserisce un esplicito riferimento alla prevenzione delle malattie veneree e lo fa davanti a un fresco sposo malato di sifilide che probabilmente è così rimbecillito dalla malattia che non ha nemmeno capito il riferimento e se la ride della grossa. Bisogna dire qui, per ricordare anche l’incoscienza di Lorenzo, che nel frattempo egli aveva contagiato del suo male la giovane moglie e che entrambi ne sarebbero morti poco più di un anno dopo le nozze lasciando una bambina in fasce, la piccola Caterina, orfana – si può dire – dalla nascita, ma destinata a diventare, malgrado la stupidità di suo padre, regina di Francia.
Il secondo episodio risale al maggio del 1521, quando finalmente i concittadini di Machiavelli, anche quelli vicini ai Medici, si ricordano di lui e gli affidano di nuovo un incarico politico. In quegli anni, a parte gli studi storici (nel 1520 lo Studio di Firenze gli commissiona le Storie fiorentine) è come se egli non fosse mai esistito, come se non fosse il più intelligente esperto di politica disposto a servire Firenze. Nell’estate del 1520 era stato sì mandato in legazione a Lucca, ma a riscuotere crediti per conto di mercanti fiorentini, in seguito al fallimento del lucchese Michele Guinigi. Una vergogna! Infine, nel maggio del 1521, un incarico ufficiale assegnato a Machiavelli dagli Otto di pratica[19]: era ora!

Francesco Guicciardini

Se non fosse che quell’incarico consisteva nella ricerca di un predicatore in quel di Carpi, dove si teneva il Capitolo generale dei Francescani. In questo caso, se non una vergogna, certo una umiliazione profonda. La disperazione di Machiavelli, nel vedere a che cosa lo vogliono ridotto, raggiunge probabilmente il livello di guardia: altri si sarebbero suicidati per molto meno. E invece lui reagisce ancora una volta buttandola sul comico. In questo caso ha un complice d’eccezione: Francesco Guicciardini, allora altissimo funzionario alle dipendenze di Leone X (che sarebbe morto il 1° dicembre successivo), governatore di Modena e Reggio e quindi con giurisdizione anche su Carpi.
I due non si conoscono direttamente anche se ciascuno di essi ha stima dell’altro per ciò che ne ha sentito e che ne ha letto. Machiavelli passa a trovare Guicciardini prima di procedere nella sua ambasceria, i due familiarizzano e il primo coinvolge il secondo in uno scherzo ai danni dei frati francescani riuniti: si tratta di far credere loro che egli sia stato inviato per una missione diversa da quella della ricerca di un predicatore, una missione segreta che probabilmente riguarda uno o più di loro. Per ottenere questo effetto e far preoccupare i frati i due si mettono d’accordo sul fatto che il governatore mandi ogni giorno un messo con una gran mole di documenti. Machiavelli penserà, dal canto suo a tenere a Carpi un atteggiamento misterioso, da inquisitore. Lo scherzo va avanti e Machiavelli invia a Guicciardini il 17 maggio una lettera esilarante che comincia con un profluvio di titoli altisonanti seguiti da una imbarazzante dichiarazione sul modo in cui il legato di Firenze a Carpi, Machiavelli, aveva ricevuto il messo del Governatore Guicciardini.


Magnifice vir, major observandissime. Io ero in sul cesso[20] quando arrivò il vostro messo, et appunto pensavo alle stravaganze di questo mondo, et tutto ero volto a figurarmi un predicatore a mio modo per a Firenze, et fosse tale quale piacesse a me, perché in questo voglio essere caparbio come nelle altre oppinioni mie. Et perché io non mancai mai a quella repubblica, dove io ho possuto giovarle, che io non l’habbi fatto, se non con le opere, con le parole, se non con le parole, con i cenni, io non intendo mancarle anco in questo. Vero è che io so che io sono contrario, come in molte altre cose, all’oppinione di quelli cittadini: eglino vorrieno un predicatore che insegnasse loro la via del Paradiso, et io vorrei trovarne uno che insegnassi loro la via di andare a casa il diavolo; […]
Io sto qui ozioso, perché io non posso eseguire la commessione mia insino che non si fanno il generale e i diffinitori[21], e vo rigrumando[22] in che modo io potessi mettere infra loro tanto scandolo che facessino, o qui o in altri luoghi, alle zoccolate; e se io non perdo il cervello, credo che mi abbia a riuscire; e credo che il consiglio e l’aiuto di vostra signoria mi gioverebbe assai.


A un certo punto entrambi si accorgono che lo scherzo è riuscito solo a metà: colui che ospita in casa sua Machiavelli ha subodorato l’inganno. Ed ecco il commento del legato di Firenze a Carpi, in una lettera al Governatore del 19 maggio:


Cazzus! E’ bisogna andar lesto con costui, perché egli è trincato come il Trentamila diavoli[23]. E’ mi pare che si sia avveduto che volete la baia.


Questa capacità di buttarla sul comico nuoce al Machiavelli? Nuoce – per quanto più direttamente riguarda l’oggetto di queste mie osservazioni – al capitolo VII del Principe e al Principe in generale? Certo che no. Alla persona Machiavelli questa capacità aggiunge un tratto umano sul quale forse si è poco ragionato, ma che certamente, al di là di ogni discorso critico, ce la rende più vicina. Per il Principe non solo non costituisce una diminuzione di valore, ma, semmai ve ne fosse bisogno, costituisce una aggiunta di pregio teorico. L’improponibile, e perciò comico, modello proposto ai Medici nel capitolo VII è il segno che Machiavelli non sperava in alcun modo che la sua opera avesse un effetto pratico immediato: egli la scriveva, consapevolmente, per i posteri. E ai posteri lasciava, oltre e più che un concreto suggerimento in merito a come salvare l’Italia (suggerimento, comunque, da non sottovalutare), una indicazione di metodo che ne avrebbe fatto il fondatore non solo della scienza politica moderna, ma, come afferma Josef Macek, «delle scienze umanistiche tutte»[24]. Certo, con un amaro sorriso sulle labbra.


[1] a Sinigaglia nelle sua mani: qui Machiavelli non dice altro. La “Strage di Senigallia”, avvenuta in due fasi fra il 31 dicembre 1502 e il 18 gennaio 1503, era un evento al tempo stesso politico e di cronaca nera noto a tutti in quegli anni, come potrebbe essere oggi l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre 2001. Machiavelli stesso, legato della Repubblica fiorentina presso Cesare Borgia, ne aveva prima riferito alla Cancelleria con dettagliate relazioni scritte proprio mentre accadevano i fatti (dei quali, per altro, il Valentino lo informava momento per momento) e ne aveva scritto poco dopo, sempre nel 1503) in una più distesa opera, Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini: in sostanza, Cesare Borgia aveva simulato la volontà di stringere un accordo di pace con i capi Orsini e con i loro alleati e, una volta riunitili a Senigallia, li aveva fatti ammazzare tutti, uno dopo l’altro: prima i capitani degli eserciti, Vitellozzo Vitelli e Oliverotto da Fermo e poi il potentissimo capo della famiglia, Paolo Orsini, non prima di aver avuto da suo padre, papa Alessandro VI, che anche a Roma gli Orsini erano stati messi in condizione di non nuocere (da qui i diciotto giorni di distanza tra i primi omicidi e gli altri).
[2] quegli eserciti addosso: quelli di Francia da una parte e di Spagna, dall’altra.
[3] tratti di corda: molti uscivano invalidi da questa tortura. Lo spiega bene il Belli in un sonetto scritto nel 1835 in occasione della costruzione di «una fetta de difizzio» (cioè di una piccola e stretta parte di un palazzo) al posto dell’impianto per la tortura pubblica della corda (usata in quel caso come punizione per reati gravi) che si trovava a Roma in via del Corso, non lontano da piazza del Popolo, e che era rimasto in funzione fino a non molto tempo prima: «la corda ar Corzo era un supprizzio / che un galantomo che l’avessi presa / manco era bbono ppiù a sservì la cchiesa, / Manco a ffà er ladro e a gguadaggnà ssur vizzio» (G.G. Belli, Lo spiazzetto de la corda al Corzo, Sonetti, n. 1735, 12 novembre 1835).
[4] Roberto Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Firenze, Sansoni, 1978(7), p. 216.
[5] Nicolò Machiavelli, Tutte le opere, a c. di Mario Martelli, Firenze, Sansoni, 1971, p. 1003.
[6] geti: ‘lacci di cuoio’.
[7] perché … poeti: vuol dire che i poeti non stanno a lamentarsi della propria condizione.
[8] né fu mai … in Roncisvalle: non c’era tanto fetore a Roncisvalle dopo la strage di paladini, (sott. nonostante il così grande numero di cadaveri).
[9] in Sardigna: nella località con questo nome, nei pressi di Firenze, dove si buttavano gli avanzi della macellazione.
[10] par che ‘n terra … Mongibello: sembra che in terra si abbattano i fulmini di Giove e le eruzioni dell’Etna (Mongibello).
[11] Troppo alto da terra!: probabilmente si riferisce proprio a un’osservazione fatta dai torturatori nei confronti di coloro che venivano sottoposti ai “tratti di corda”.
[12] Pro eis ora: “Prega per loro”, la preghiera con la quale i condannati a morte venivano accompagnati verso il patibolo.
[13] che al padre … tolga: tanto da togliere la fama (s’intende di “pietosi”) al padre (Lorenzo il Magnifico) e al nonno (Cosimo de’ Medici) che, per la verità, non erano poi così famosi per questa virtù.
[14] paululo: ‘piccolo’.
[15] beccaio: ‘macellaio’.
[16] loto: ‘sudiciume’.
[17] Giovanni Cambi, Istorie pubblicate da Fr. Ildefonso di San Luigi, Firenze, Cambiagi Stampatore, 1786, vol. 3, p. 28.
[18] Michele Tortorici, Machiavelli, Ariosto, Castiglione: rivoluzione e resa nella svolta del primo Cinquecento, in “La rivista trimestrale”, 69-70, 1981-1982
[19] Gli “Otto di pratica” erano stati istituiti nel 1480 dal Consiglio dei settanta con l’incarico della condotta della politica estera e militare di Firenze. Negli anni dei quali stiamo parlando erano poco più di una commissione al servizio dei Medici, quindi, dopo la morte di Lorenzo, del cardinale Giulio.
[20] cesso: sì, proprio così: la parola, in tanti secoli, non ha cambiato significato.
[21] diffinitori: ‘aiutanti’.
[22] rigrumando: ‘rimuginando’.
[23] egli è trincato come il Trentamila diavoli: ‘egli è furbo come un mostro infernale’; il Trentamila diavoli era, appunto, il nome di un mostro infernale popolarmente noto a Firenze.
[24] Josef Macek, Machiavelli e il Machiavellismo, Firenze, La Nuova Italia, 1980, p. 61.