Mezzo secolo fa, nel mese di giugno del 1964, la casa editrice City Lights – quella di Lawrence Ferlinghetti (della quale parlo qui) –, pubblicava come numero diciannove dei Pocket Poets la raccolta di poesie di Frank O’ Hara Lunch Poems (si può tradurre Poesie per il pranzo, Poesie da consumare a pranzo, probabilmente con il senso di un’espressione come ‘lunch meat’, la ‘carne pronta per il pranzo’ o anche la ‘carne in scatola’). In Italia tre sue poesie sarebbero uscite poco dopo, nel novembre di quello stesso anno, nella raccolta curata da Fernanda Pivano Poesia degli ultimi americani, con la traduzione di Giulio Saponaro. Ma nessuno ci fece caso e confesso che anche io, ragazzo di diciott’anni, dopo aver divorato il volume della Pivano, non ricordavo certo, tra i nomi dei poeti che più mi avevano colpito, quello di O’ Hara. Ma quando, più di trent’anni dopo, nel 1998, sono usciti in Italia i suoi Lunch Poems (a cura e con la traduzione di Paolo Fabrizio Iacuzzi, Mondadori, Oscar Poesia del Novecento), allora sì questo poeta mi ha colpito con la sua straordinaria capacità di seguire con i suoi versi una percezione al tempo stesso leggera e profondissima della realtà.
La realtà è quella delle vie di Manhattan che percorre in su e in giù, dei dipinti dei grandi pittori informali di quegli anni che vede lì, al Moma dove lavora, dei libri che legge e che, anzi, sono il suo cuore, un cuore che può facilmente portare «in tasca» e, infine della musica che ascolta nei locali tra quelle stesse vie di Manhattan e Brooklyn. Già, la musica. Quella realtà, così come nelle voci dei cantanti o negli strumenti dei jazzisti a lui cari, prende anche nei suoi versi forma di musica: una musica che dà l’impressione di essere quella dei pianisti blues che accompagnavano, quando Frank era bambino, i film muti; musica, al tempo stesso, d’atmosfera e d’improvvisazione, basata su un soggetto e liberissima di interpretarlo (o anche di andarsene per conto suo).
La realtà non è dunque “rappresentata” da Frank O’ Hara, ma – come ho scritto prima – “seguita”, con una disponibilità totale alla sorpresa come al disincanto. Frank lavora come un investigatore abituato ai pedinamenti che sa di potersi aspettare di tutto. La realtà, di per sé, lo rassicura: è lì; si tratta solo di andarle dietro, di seguire il suo ritmo.
Nella poesia che segue, Yesterday Down at The Canal, Frank O’ Hara va dietro ai pensieri che gli ha suscitato l’osservazione, in sé banale, di qualcuno che stava con lui al «giù al canale». Ne nasce quasi un monologo interiore, un “flusso di coscienza” (d’altro canto, dov’è il canale? dove c’è acqua se non nello scorrere delle parole di questa poesia?). Ma niente paura: non comincia un “gran romanzo” né russo né irlandese; la leggerezza è sempre lì, nella penna di O’ Hara e ci conduce fino al punto nel quale il poeta manda al diavolo tante «stronzate» su come si vive e su come si può morire.
Una nota sulla traduzione. Dal punto di vista della corrispondenza tra ritmo e realtà, la traduzione che di Lunch Poems ha fatto Paolo Fabrizio Iacuzzi è eccellente. Se ho deciso, in questo mio blog, di dare una nuova traduzione di tre poesie, A Step Away from Them (qui), The Day Lady Died (qui) e quella che segue, non è dunque perché io pensi di poter fare una versione migliore, ma perché sono convinto che la traduzione poetica sia un modo, il più bello, per conoscere davvero un poeta che ha scritto in un’altra lingua e anche, quando si può (quando cioè si conosce quella lingua), per dimostrargli il proprio amore attraverso un suono che corrisponda al suo suono. Anche quando quel poeta non c’è più, anzi proprio allora. Anche cinquant’anni dopo che una poesia è stata composta, anzi proprio allora.
Il tempo invidia i poeti.
Frank O’ Hara, Yesterday down at The Canal (da Lunch Poems, 1964)
You say that everything is very simple and interesting
it makes me feel very wistful, like reading a great Russian novel does
I am terribly bored
sometimes it is like seeing a bad movie
other days, more often, it’s like having an acute disease of the kidney
god knows it has nothing to do with the heart
nothing to do with people more interesting than myself
yak yak
that’s an amusing thought
how can anyone be more amusing than oneself
how can anyone fail to be
can i borrow your forty-five
I only need one bullet preferably silver
if you can’t be interesting at least you can be a legend
(but I hate all that crap)
1961
Traduzione di Michele Tortorici, Ieri giù al canale
Tutto è molto semplice e interessante, dici
questo mi fa venire malinconia, come quando leggo uno di quei gran romanzi russi
mi annoio da morire
certe volte volte è come vedere un cattivo film
altri giorni, più spesso, è come avere un rene che ti fa male forte
dio sa che non ha nulla a che fare con il cuore
nulla a che fare con quelli che sono più interessanti di me
ha ha
questo pensiero è divertente
come si può essere più divertenti di se stessi
come si può non riuscirci
posso prendere in prestito la tua quarantacinque
mi serve solo un proiettile, meglio se d’argento
se non puoi essere interessante almeno puoi essere una leggenda
(ma io odio tutte quelle stronzate)
1961