Affrontare oggi un discorso sulla metafora si rivela di una complessità inaudita. Non perché sia difficile in sé. Il fatto è che nel corso dei secoli retori, studiosi di estetica e di poetica, linguisti, semiologi – e chi più ne ha più ne metta – hanno fatto a gara a complicare le cose. Non è questo il luogo per mettere ordine nella questione. Posso però cercare almeno di riportare una certa chiarezza e semplicità, questo sì.
Per farlo basta che io ritorni, con un salto all’indietro di quasi duemilatrecentocinquant’anni, alle origini della questione, che si trovano in Aristotele e precisamente nella Poetica (scritta all’incirca fra il 334 e il 330 a.C.) e nella Retorica (scritta negli anni immediatamente successivi). Ecco i brani che ci interessano.
Aristotele, Poetica, 1457b
La metafora consiste nel trasferire a un oggetto il nome che è proprio di un altro.
Aristotele, Retorica, 1406b
Anche la similitudine è una metafora: la differenza tra le due è piccola. Quando infatti Omero dice di Achille: “Egli balzò come un leone”, questa è una similitudine; qualora dicesse “balzò un leone”, sarebbe una metafora.
Aristotele, Retorica, 1410b
Noi apprendiamo soprattutto dalle metafore. Quando infatti il poema chiama la vecchiaia “paglia”[1], realizza un apprendimento e una conoscenza attraverso il genere: entrambe le cose sono infatti sfiorite. Anche le similitudini dei poeti ottengono lo stesso effetto: se quindi esse sono buone, appaiono spiritose [ἀστεῖον φαίνεται]. La similitudine è infatti, come abbiamo detto prima, una metafora che differisce perché vi è aggiunto qualcosa; perciò essa è meno piacevole, perché ha maggior lunghezza: essa non identifica i due termini, quindi la mente non esamina la relazione.
È difficile? No. A queste parole chiarissime Aristotele ne aggiunge poche altre per distinguere i vari tipi di metafora: nella sua classificazione sono metafore anche figure retoriche che noi, ancora una volta complicando le cose, chiamiamo iperbole, metonimia e sineddoche. Un pochino di più il filosofo greco si dilunga per spiegare bene in che cosa consiste quello che egli chiama il rapporto di “analogia”. Ma queste precisazioni, per quanto anch’esse brevi e chiare, non ci interessano. Infatti, se ho citato Aristotele qui, è solo perché egli risolve all’origine il problema del rapporto tra metafora e similitudine. Sono la stessa cosa («anche la similitudine è una metafora»): consistono entrambe in un meccanismo di sostituzione. Nel caso della similitudine, ci avverte il filosofo, la mente non si trova di fronte a uno scambio secco e quindi ha più difficoltà a vedere la relazione diretta. Il poeta, di conseguenza, aggiungo io, deve essere particolarmente bravo per suscitare nel lettore la riflessione necessaria a innescare il processo al tempo stesso di meraviglia e di conoscenza che la metafora produce.
Detto questo (che potrà servire anche in altre occasioni nelle quali vorrò parlare di metafore), vengo al dunque: a quella straordinaria invenzione omerica che, nel titolo di questo mio intervento ho chiamato “metafora-specchio”, una figura, a quanto mi risulta, non studiata (ma non sono un grecista e, se qualcuno dei lettori sa di studi in proposito vorrei che me li segnalasse). Chi vuole può chiamarla “similitudine-specchio”. Io, sia per comodità, sia perché considero utile seguire alla lettera l’indicazione di Aristotele, la chiamerò, in ogni caso, metafora.
Per capire, al di là del nome, di che cosa si tratta vediamo un primo esempio, con l’avvertenza che i tre casi di metafora-specchio nei quali mi sono imbattuto si trovano tutti nell’Odissea.
In questo primo esempio, Odisseo, dopo essere finalmente tornato a Itaca su una nave dei Feaci, si trova nella capanna del porcaro Eumeo, da sempre fedele alla sua famiglia. Non ha ancora rivelato a nessuno la sua identità e, anche a Eumeo, si è presentato come un vecchio mendicante un tempo ricco e felice. A un certo punto in quella stessa capanna arriva Telemaco, di ritorno da un viaggio a Pilo e a Sparta dove si era recato per chiedere a Nestore e a Menelao notizie di suo padre. Ed ecco la descrizione del modo in cui Eumeo accoglie Telemaco (le citazioni che seguono sono tratte dalla traduzione dell’Odissea di G.A. Privitera, Fondazione Lorenzo Valla, 1981):
[…] Andò incontro al signore,
gli baciò il capo e i due occhi belli
ed entrambe le mani: copioso gli sgorgò il pianto.
Come un padre affettuoso accoglie suo figlio
che torna da una terra lontana il decimo anno,
l’unico figlio diletto, per cui patì tanti dolori,
così il mandriano baciò allora Telemaco simile a un dio
abbracciandolo stretto, quasi fosse scampato alla morte;
[…]
Odissea, XVI, 14-21
In questa metafora il meccanismo di sostituzione è, in apparenza, abbastanza semplice: il poeta sostituisce le parole “il mandriano baciò Telemaco commosso e felice” con quelle introdotte dal «come» (ὡϛ δὲ) e concluse dal «così … allora» (ὣϛ τότε). La commozione e la felicità ci vengono fatte conoscere, invece che con due parole generiche, attraverso una frase che ci racconta come un padre accoglie suo figlio dopo tanto tempo e dopo aver patito molti dolori. Questa è, insomma, la specificità del sentimento di commozione e felicità provato da Eumeo. Ma è impossibile non notare che il padre di Telemaco, quello che non vede il figlio da tanto tempo (qui δεκάτῳ ἐνιαυτῷ ha il senso generico di ‘dopo tanti anni’), è proprio davanti a Eumeo: la metafora usata dal poeta per farci conoscere nel dettaglio i sentimenti di Eumeo si rispecchia nel personaggio che è lì, che partecipa alla scena. La metafora assume così, per chi legge, una forza doppia, spiega i sentimenti di Eumeo e ricorda la presenza di Odisseo che è, non per metafora, ma davvero, «il padre affettuoso che accoglie suo figlio … per cui patì tanti dolori». E, attraverso la forza raddoppiata della metafora, il lettore finisce per trovarsi anch’egli lì, finisce per essere non più soltanto lettore, ma per provare una condivisione totale dell’intreccio di sentimenti che si sviluppa nella povera capanna.
Omero aveva già fatto, se così si può dire, una prova, certo meno diretta e coinvolgente ma tecnicamente assai simile, della metafora-specchio. L’esempio che propongo ora è tratto dal sesto canto dell’Odissea. Si riferisce al momento nel quale, nella terra dei Feaci, Nausicaa gioca con le compagne: un grido di gioco sveglia Odisseo (che la notte precedente è approdato naufrago in quella terra) e questi, dopo qualche esitazione (anche perché è nudo) si rivolge a Nausicaa. Ecco i due momenti:
Come sui monti va Artemide saettatrice,
sull’immenso Taigeto o per l’Erimanto,
lieta tra cinghiali e cerve veloci,
e con lei giocano le ninfe dei campi,
figlie di Zeus egioco, Gioisce Leto nell’animo,
e lei col capo e la fronte supera tutte,
e facilmente si nota e tutte son belle;
così tra le ancelle spiccava la vergine casta.
[…]
«Ti supplico, o sovrana: un dio sei forse o un mortale?
Se un dio tu sei – essi hanno il vasto cielo –
assai somigliante ad Artemide, la figlia del grande Zeus,
mi sembri in volto, statura ed aspetto
[…]»
Odissea, VI, 102-109 e 149-152
Anche qui la metafora si rispecchia: in questo caso non propriamente nel personaggio Odisseo, ma nelle parole che egli rivolge a Nausicaa. Omero, ancora una volta, ci spiega con precisione un fatto (qui la bellezza di Nausicaa, nell’esempio precedente i sentimenti di Eumeo) mediante una metafora: Nausicaa spicca tra le compagne come Artemide, quando va a caccia, spicca, sotto gli occhi felici della madre Latona (Leto), tra le ninfe dei campi. E poco dopo, ecco che, come da uno specchio, le parole di Odisseo riflettono quanto il poeta ci ha appena spiegato con la metafora. Rispetto all’esempio precedente, qui la metafora-specchio suscita meno emozione, ma la tecnica è la stessa.
L’ultimo esempio che propongo è anche il più bello: forse – lasciatemelo dire – in questo esempio risplende la metafora più bella della storia della poesia. Siamo nel ventitreesimo canto. Penelope ha finalmente riconosciuto Odisseo e gli ha spiegato perché aveva tanto esitato a convincersi che fosse proprio lui.
Disse così e in lui suscitò ancor più la voglia di piangere:
piangeva stringendo la sposa diletta, accorta.
Come appare gradita la terra a coloro che nuotano
e di cui Posidone spezzò la solida nave,
sul mare, stretta dal vento e dal duro maroso:
e pochi sfuggirono all’acqua canuta nuotando
alla riva, e la salsedine s’è incrostata copiosa sul corpo,
e toccano terra con gioia, scampati al pericolo;
così le era caro lo sposo, guardandolo.
Non gli staccava più le candide braccia dal collo.
Aurora dalle rosee dita sarebbe spuntata che ancora piangevano,
se la dea glaucopide Atena non avesse pensato altre cose:
fece lunga alla fine la notte, trattenne
Aurora dall’aureo trono vicino all’Oceano, non le fece aggiogare
i cavalli dai piedi veloci che portano agli uomini il giorno,
Lampo e Fetonte, i puledri che portano Aurora.
Odissea, XXIII, 231-246
Qui, credo, c’è poco da spiegare di fronte al rivelarsi di tanta bellezza: la metafora mediante la quale il poeta ci spiega i sentimenti di Penelope, si rispecchia talmente in Odisseo che “è” Odisseo. La metafora usata qui da Omero è infatti nient’altro che la descrizione di Odisseo così come egli giunge, naufrago, nella terra dei Feaci. E c’è, nella descrizione che già parla da sé, persino una spia che il poeta consegna con cura al lettore perché egli non abbia più dubbi: il particolare della “salsedine”. Di Odisseo approdato alla terra dei Feaci Omero aveva detto infatti che era κεκακωμένοϛ ἃλμῃ (“bruttato dalla salsedine”) e del naufrago al quale paragona Penelope dice che πολλὴ δὲ περὶ χροῒ τέτροφεν ἅλμη (la salsedine s’è incrostata copiosa sul corpo): e ἃλμῃ / ἅλμη sono entrambe in fine di verso: un bel modo di ricordare al lettore il suono di una parola. Ecco, vuol dire Omero, ti ho dato questo indizio decisivo; ora lo capisci che è proprio di Odisseo che parlo nella metafora? lo capisci che, attraverso la metafora, voglio dirti che Penelope sente già Odisseo dentro di sé? Certo, il lettore non può non averlo capito: prima ancora che Atena predisponga tutto perché la notte duri a lungo e favorisca un lungo amore, Penelope si è già congiunta con Odisseo. Così “le era caro lo sposo” come egli era, anzi, senza che la stessa Penelope potesse saperlo (il momento dei racconti deve ancora venire e verrà, di fatto, poco dopo) come egli era stato in uno dei momenti più difficili del suo lungo viaggio. Il suo cuore è il suo sposo, è Odisseo, è quell’Odisseo sopra il quale il tempo, come il mare, è duramente passato.
Non aggiungo nient’altro. Soltanto, vi prego: rileggete ad alta voce il brano che ho trascritto qui sopra e lasciatevi andare all’emozione.
[1] Omero, Odissea, XIV, 213