Perché sto con i partigiani

Quando, alla metà degli anni Trenta del secolo scorso, il fascismo raggiungeva la sua massima punta di consenso nel nostro Paese, in quello stesso Paese c’erano uomini e donne che resistevano, che opponevano al fascismo il proprio pensiero libero, diffondevano le proprie idee – spesso diverse tra loro, ma questa era una ricchezza in più – e rischiavano per questo la vita o pativano nelle carceri la repressione. Altri uomini e altre donne, con gli stessi ideali, con le stesse diversità e con gli stessi rischi, rappresentavano all’estero un’Italia che non si piegava, un’Italia che guardava, nonostante tutto, con fiducia alla prospettiva della democrazia. In virtù della loro azione, tutto il mondo sapeva che l’Italia non era solo quella di Mussolini.
Quando poi, per la scelta sciagurata intervenire nella guerra a fianco del nazismo, l’Italia fu trascinata al tempo stesso nel baratro di una sconfitta sanguinosa e, con la complicità dei Savoia in fuga, nel fango della totale perdita di dignità nazionale, allora quegli italiani e quelle italiane sono riusciti a raccogliere, attorno a sé e attorno alla prospettiva che rappresentavano, altre forze, soprattutto giovani, e a trasformare un’azione intellettuale e di propaganda ideale in una resistenza armata. Ancora una volta, tutto il mondo sapeva e constatava che l’Italia non era solo quella amica dei nazisti e neppure solo quella ignominiosamente fuggita da Roma al momento dell’armistizio.
Oggi è soprattutto questa difesa a viso aperto della dignità del paese che ci resta come eredità morale e spirituale della lotta e del sacrificio dei partigiani. Una dignità affermata – e questo è stato determinante – sia contro i nazisti sia, tanto più, nel rapporto con gli Alleati, che si trovarono a fare i conti non con “bande” armate, ma con gruppi politicamente forti che pretesero, per esempio, di avere nelle loro mani la resa dell’esercito nazista nelle grandi città del nord.

Dopo la guerra, nei confronti dei paesi che l’avevano vinta, l’Italia poté non arrossire di vergogna. Ma poté valersi anche di un altro vantaggio che era stato portato dal modo con il quale la sua dignità era stata difesa: il fatto che essa fosse stata realizzata in nome di tutti gli italiani. Mentre i Savoia scappavano, i democristiani, i socialisti, i comunisti, gli azionisti non si sottrassero al dovere di combattere tutti insieme, anche con quei monarchici (e non furono pochi) che, a differenza del re, amavano il paese ed erano pronti a sacrificarsi. Un impegno comune e unitario nel quale vennero sospese, non certo dimenticate, le diversità e le contrapposizioni. E difatti, come è naturale che avvenisse, le contrapposizioni, anche aspre, sono riprese nell’Italia democratica che questi uomini e queste donne hanno riconsegnato agli italiani dopo la guerra e dopo la approvazione della più condivisa (e, forse, della più bella) costituzione al mondo.
Se l’Italia ha attraversato quasi settant’anni di momenti esaltanti e di momenti difficili, di crisi economiche e sociali e di riprese, comunque sempre alla pari e insieme al resto del mondo democratico, lo deve a loro.

È per questo che sto con i partigiani, in questo periodo buio nel quale da molti anni la dignità del nostro paese è stata di nuovo in gioco e deve quindi essere riaffermata a testa alta e senza tentennamenti di sorta. È per questo che guardo al loro esempio, alla loro capacità di stare insieme e, una volta stabilite le regole della democrazia, di scontrarsi, sì, ma con rispetto reciproco e, soprattutto, con rispetto di quelle regole. È per questo che sto con i partigiani e che, in particolare nel giorno di quella che io considero la vera festa dell’unità d’Italia, il 25 aprile, cerco di non dimenticare – e di non far dimenticare – quello che hanno fatto.

Non ho la consuetudine delle auto citazioni e i lettori abituali di questo blog lo sanno bene. Tuttavia, mi sarà permesso in questa occasione trascrivere qui una poesia alla quale sono molto legato (è tratta dal mio libro La mente irretita, Manni, 2008). Ho fatto l’insegnante per buona parte della mia vita e ho pensato, leggendo e rileggendo le Lettere dei condannati a morte della Resistenza, che molti di loro avevano la stessa età degli alunni che io mi trovavo in classe tutti i giorni. A questi giovani, a quelli che hanno combattuto nella Resistenza e ai miei alunni nei quali ho sempre voluto che si rispecchiasse quell’amore per la libertà, è dedicata questa poesia il cui stesso titolo, Alunni, non lascia dubbi.

Michele Tortorici, Alunni (da La mente irretita, Manni, 2008)


Rileggendo
le Lettere dei condannati a morte della Resistenza

Alunni vi avrei voluti nell’ora
che vi ha sommersi la storia,
che vi ha affrancati la vostra
temeraria purezza,
che vi ha innalzati la speranza
nella parola che s’invera
come un giuramento.

Alunni vi avrei amati per potere
imparare la fede che attraversa
la morte come un’onda
di piena penetrata
nel mare. Vi avrei cercati per dare
inaspettate risposte alle troppe
impazienti pagine che ho letto. Vi avrei
attesi perché non si chiudesse
il portone della scuola e avrei scavato
per voi macerie di futuro
in offerta d’amore.

Avreste forse anche voi
prestato la vostra fede alle parole
che ho fatto scorrere sui banchi, ai versi
di libertà, alle note a piè di pagina sull’uomo
che s’infutura e che s’india; avreste
forse anche voi bevuto l’inganno
propizio di umani simulacri
senza professione di modernità.

Alunni vi avrei abbracciati per ricevere
il vostro contagio, per raccogliere
le lettere che avete scritto e custodirle
nell’archivio della scuola. Lì
un altro insegnante dopo secoli
d’inettitudine avrebbe scoperto
le pagine nascoste e portato
a nuovi alunni le vostre
parole per inverarle ancora
come un giuramento.


Il 21 aprile alla “Stanza della poesia”
di Palazzo Ducale a Genova

Il 21 aprile, alle 17.30, sarò alla “Stanza della poesia” di Palazzo Ducale a Genova per concludere il ciclo di letture dedicate alla “inutilità” della parola poetica e alla straordinaria forza che proprio da questa inutilità le deriva. Ho dedicato a questo argomento numerosi interventi in questo blog (qui l’ultimo) e non è il caso che mi ripeta. Voglio invece dedicare qualche parola alla “Stanza della poesia” di Genova e dare qualche indicazione in più sui brani che leggerò.

La “Stanza della poesia” è un piccolo ambiente che si apre con discrezione sul fianco del Palazzo Ducale di Genova, dal lato di Piazza Matteotti. Le iniziative che vi si svolgono sono animate dalla musicista Claudia Pastorino e dal poeta Claudio Pozzani, infaticabile organizzatore del Festival della Poesia di Genova che si svolge ogni anno a giugno, e hanno il sempre attento supporto della mamma di Claudio, Carla. È un ambiente intimo dove non c’è distanza tra chi legge e chi ascolta e dove la voce resta racchiusa, più che diffusa, dalle pareti coperte da scaffali pieni di libri.
La lettura Versi inutili e altre inutilità si basa sulle tre poesie contenute nel volumetto che ha lo stesso titolo. Ma non contiene solo queste poesie. Vi raccolgo i miei testi poetici che sono legati dal tema della “parola” e che sono tratti anche da La mente irretita e da Viaggio all’osteria della terra, il mio nuovo libro pubblicato da Manni e uscito in questi giorni. Devo anzi aggiungere, a proposito dei testi tratti da questo libro, che essi sono cresciuti proprio nel corso delle letture su Versi inutili e altre inutilità che ho tenuto in questi anni in Italia (a Roma, a Torino, a Cuneo, a Genzano, a Napoli, a Velletri e altrove).
Sì sono cresciuti. Perché, a ogni lettura, sentivo il bisogno di modificare qua e là il ritmo dei versi, di cambiare una parola: insomma nei due anni trascorsi ho utilizzato queste occasioni, oltre che come espressione pubblica di quello che avevo scritto, anche come laboratorio privato di quello che stavo scrivendo. Naturalmente, a Genova leggerò la redazione definitiva di questi testi, quella uscita a stampa nel nuovo libro.
Sarà circa un’ora di lettura, quattordici poesie che ho composte negli ultimi dieci anni e che, ovviamente, non hanno tra loro alcun altro legame tranne quello che io ho attribuito loro a posteriori e in virtù del quale le ho messe una accanto all’altra, con una carezza, come si fa con i bambini per disporli a farsi fotografare insieme.

Pasqua, di Jill Alexander Essbaum

Di solito si celebra la Pasqua con poesie tradizionali. Oppure, più di recente, si è diffusa nel web a questo scopo una una poesia di Pascoli, Gesù, tratta dal Piccolo vangelo. Questa raccolta, rimasta incompiuta, fu pubblicata da Maria Pascoli, la sorella del poeta, nella prima edizione delle Poesie varie proprio un secolo fa, nel maggio del 1912, quindi poco più di un mese dopo la scomparsa di Giovanni, avvenuta il 6 aprile di quell’anno, sabato santo. Tornerò sul Piccolo vangelo (quest’anno è pur sempre il centenario della morte di questo grande poeta e, come ho appena ricordato, proprio della pubblicazione di questa singolare raccolta pascoliana), ma oggi voglio presentare un testo decisamente più originale, forse addirittura sconosciuto in Italia, di Jill Alexander Essbaum.

Nata nel 1971 a Bay City (Texas), Jill Alexander Essbaum è una poetessa che unisce nei suoi versi una intensa carica di erotismo e una forte – a volte si direbbe lancinante – tensione religiosa. Easter (Pasqua), la poesia che voglio presentare oggi (qui il testo originale), pubblicata nel fascicolo di gennaio 2011 del “Poetry Magazine”, è uno straordinario esempio di come questa duplicità di ispirazione sia in realtà costituita da un’unica, alacre volontà di confrontarsi con l’assoluto. La stanza di Jill Alexander Essbaum, la stanza che la chiude e la fa sentire sola, non è serrata da una porta qualsiasi, ma dalla stessa lastra di marmo caduta giù dalla tomba dalla quale Cristo è risorto.
Si tratta di un’immagine potente e sconvolgente. Ma anche di un modo severo, anzi inflessibile, di dichiarare la propria umanità, una umanità che, mentre – e proprio perché – aspira all’assoluto, si trova a fare i conti con le proprie porte chiuse: nel caso della nostra poetessa, con una capacità di amare e di essere amata che finisce nel momento stesso in cui si realizza.

Jill Alexander Essbaum, Easter
Traduzione di Michele Tortorici, Pasqua


è la mia stagione
di sconfitta.

Anche se tutto
è verde

e la morte
è trascorsa,

mi sento sola.
Come se la pietra

rotolata giù
dal vertice

della tomba
si fosse incassata

nel telaio della porta
della mia stanza,

e chiunque
io abbia mai amato

viva felicemente
soltanto dopo

che io ho potuto averlo.
E ogni volta

che Gesù risorge
mi viene in mente

questo marmo
infatti:

nessuno di loro
torna indietro.


La «speranza fallace». Appendice leopardiana [II]

Nella prima parte di questa appendice ai miei interventi su La “speranza fallace” da Cavalcanti a Petrarca ho semplicemente fatto un po’ d’ordine a proposito dell’oggetto di questa ricerca e della biografia leopardiana tra il 1824 e il 1828. In quel periodo, in poco meno di dieci mesi tra il 1825 e il 1826, Leopardi realizza per l’editore Antonio Fortunato Stella di Milano un commento delle opere volgari di Petrarca, il Canzoniere, i Trionfi e le Rime sparse. Poco dopo aver concluso questo suo lavoro, in una lettera all’editore, Leopardi scrive, riguardo al poeta del quale si è occupato fino a tre mesi prima, di non trovare in lui «se non pochissime, ma veramente pochissime bellezze poetiche». Ho concluso la prima parte di questa appendice sia con l’affermazione che in queste parole bisognava cercare ben di più di un rigetto da stress, sia con la promessa di esaminare questo “di più”. Ecco che mantengo la promessa.

Due questioni sono state poco considerate in merito a questo argomento. La prima riguarda il totale dissenso di Leopardi rispetto alla critica petrarchesca a lui contemporanea. La seconda riguarda il modo nel quale lo stesso Leopardi riprende, come poeta, dopo il commento – e solo dopo di esso –, il concetto di “speranza fallace” presente in Petrarca.
Per quanto si riferisce alla prima questione, Leopardi mostra un profondo fastidio – evidente nella stessa Introduzione alla seconda edizione del commento (1836) – per una critica che in quei decenni si dimostrava nei confronti del Petrarca insopportabilmente saccente e incapace di comprendere le ragioni della sua poesia. Nella stessa già citata lettera allo Stella, facendo riferimento ai saggi foscoliani (usciti nel 1819 in Inghilterra ma solo in quegli anni conosciuti dal pubblico italiano) Leopardi dichiara che avrebbe anche lui qualcosa da dire «sopra tal proposito». A trattenerlo è proprio il dissenso con tutta la linea critica che, Foscolo compreso, interpreta il Petrarca alla luce del platonismo cinquecentesco.
Questo dissenso radicale diventa a poco a poco vero e proprio disgusto per un processo di glorificazione che finisce per banalizzare lo stesso poeta glorificato. Ancora quattro anni più tardi Leopardi scriverà nello Zibaldone:


Altro ostacolo alla durata della fama de’ grandi scrittori, sono gl’imitatori, che sembrano favorirla. A forza di sentire le imitazioni, sparisce il concetto, o certo il senso, dell’originalità del modello. Il Petrarca, tanto imitato, di cui non v’è frase che non si sia mille volte sentita, a leggerlo, pare egli stesso un imitatore: que’ suoi tanti pensierini pieni di grazia o d’affetto, quelle tante espressioni racchiudenti un pensiero o un sentimento, bellissime ec. che furono suoi propri e nuovi, ora paiono trivialissimi, perché sono in fatti comunissimi. Interviene agl’inventori in letteratura e in cose d’immaginazione, come agl’inventori in iscienze e in filosofia: i loro trovati divengono volgari tanto più facilmente e presto, quanto hanno più merito (20. Apr. 1829).


Per affrontare la seconda questione, il concetto di “speranza fallace” tra Petrarca e Leopardi, bisogna entrare nelle note a piè di pagina del commento leopardiano. Stranamente, questa operazione non è mai stata fatta in modo approfondito, mentre è stata anatomizzata a più non posso la presenza di Petrarca nello Zibaldone. Bisogna anche ricordare che questo commento viene realizzato subito dopo la composizione delle Operette del ‘24, quelle nelle quali un percorso concettuale complesso e – per così dire – inerpicato per sentieri difficilissimi comincia a diventare concreto, a farsi figura, dialogo, racconto. Il Dialogo della Natura e di un Islandese è del maggio del 1824. Esattamente un anno dopo il Leopardi comincia il suo lavoro di interprete petrarchesco e si trova davanti il sonetto proemiale del Canzoniere che (per la comodità di leggerlo qui e per poter godere appieno della sua straordinaria bellezza), trascrivo integralmente:


 Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,
 del vario stile in ch’io piango e ragiono
fra le vane speranze e ‘l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, non che perdono.
 Ma ben veggio o sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
 et del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto,
e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.


Una avvertenza: Leopardi non è tipo da sbagliare una «traduzione» in prosa. Per quanto rapidamente abbia compiuto il suo lavoro, egli ha elaborato parafrasi talmente perfette che il Carducci (autore anch’egli, settant’anni più tardi di un altro famosissimo commento al Canzoniere) ne sarebbe rimasto ammirato e le avrebbe citate in parecchi casi. Ebbene, con questa avvertenza, leggiamo la nota leopardiana al verso 3 del sonetto proemiale: «in sul mio primo giovenile errore» viene spiegato «Nel tempo degl’inganni della mia gioventù». Ma qui «errore» significa senza dubbio ‘turbamento amoroso’: una interpretazione avvalorata dal fatto che, come segnala il Carducci, si tratta di un calco virgiliano dall’viii egloga (v. 40: «ut vidi, ut perii, ut me malus abstulit error»); e questo a Leopardi certo non poteva essere sfuggito. Un errore – è proprio il caso di dirlo – può scappare a tutti. Ma non è così. Leopardi non sbaglia.
Per verificarlo prendiamo in esame la canzone famosissima Di pensier in pensier, di monte in monte. Qui il poeta-interprete sente il dovere di parafrasare quasi interamente la terza stanza (i corsivi nel testo sono miei):


Ove porge ombra un pino alto od un colle
Talor m’arresto, et pur nel primo sasso
Disegno co la mente il suo bel viso.
Poi ch’a me torno trovo il petto molle
De la pietate; et alor dico: Ahi lasso,
Dove se’ giunto! Et onde se’ diviso!
Ma mentre tener fiso
posso al primo pensier la mente vaga,
et mirar lei, et oblïar me stesso,
sento Amor sí da presso
che del suo proprio error l’alma s’appaga:
in tante parti et sí bella la veggio,
che se l’error durasse, altro non cheggio.


La parafrasi leopardiana da Poi ch’a la mente torno alla fine della stanza è la seguente:


Quando da quella immaginazione ritorno in me stesso, trovo, per la tenerezza, il petto bagnato di lagrime; e allora dico. Oh misero, dove sei tu ora, e donde, cioè da quanto cara e dolce immaginazione, sei tu partito! Ma finché io posso tener fissa nel mio primo pensiero, cioè nella predetta immaginazione, la mia mente vaga, cioè instabile, e cosí mirar la mia donna obbliando me stesso, io sento, per dir cosí, l’oggetto dell’amor mio cosí vicino, che l’anima mia s’appaga del suo proprio errore. E per questo cosí fatto modo io vedo Laura in tante cose, e veggola cosí bella, che se tali inganni del mio pensiero fossero durevoli, io non chiederei di piú.


In realtà è del tutto evidente che il senso di «error» è qui, in entrambi i casi, quello di ‘illusione’, come spiega ad esempio il Ponchiroli; il Carducci forza addirittura il significato di illusione in quello di ‘immaginazione’, considerando «error» direttamente riferito al disegnare «co la mente» del terzo verso di questa stanza.
Lo stesso discorso vale per il commento al sonetto Ite, caldi sospiri, al freddo core.


 Ite, caldi sospiri, al freddo core,
rompete il ghiaccio che Pietà contende,
et se prego mortale al ciel s’intende,
morte o mercé sia fine al mio dolore.
 Ite, dolci penser’, parlando fore
di quello ove ‘l bel guardo non s’estende:
se pur sua asprezza o mia stella m’offende,
sarem fuor di speranza et fuor d’errore.
 Dir se pò ben per voi, non forse a pieno,
che ‘l nostro stato è inquïeto et fosco,
sí com’è ‘l suo pacifico et sereno.
 Gite securi ormai, ch’Amor vèn vosco;
et ria fortuna pò ben venir meno,
s’ai segni del mio sol l’aere conosco.


La parafrasi leopardiana dell’ottavo verso è «[…] usciremo di speranza e d’inganno». Ma anche qui non vi è dubbio che «errore» si debba spiegare con ‘illusione’ (l’illusione di essere amato da Laura), oppure semplicemente proprio come ‘errore’ (l’errore di credere di essere amato da Laura).
Perché dunque, pervicacemente, Leopardi non esita a spiegare, ancora una volta, con ‘inganno’? Perché in realtà, trovandosi di fronte a quelli che per lui sono punti cruciali del testo petrarchesco, attraverso l’interpretazione che ne dà, egli percorre un tratto della strada già aperta con le Operette del ‘24 e che avrà la sua naturale conclusione nei Grandi idilli.

Essere entrati nelle note a piè di pagina con le quali Leopardi ha spiegato Petrarca ci ha dato una nuova prospettiva dalla quale guardare al problema del rapporto tra questi due grandissimi. Quella della elaborazione del concetto di “inganno”. Una elaborazione del tutto personale, tutta a misura di Giacomo, ma che trova, per così dire, uno specchio nelle parole del Petrarca. Quelli dei quali stiamo parlando sono gli anni nei quali Leopardi sta cercando di spiegare a se stesso e agli altri che le illusioni (e le speranze che su di esse si fondano) sono inganni. E il commento a Petrarca è una buona occasione per forzare il senso di ogni «errore» e per farlo diventare ‘inganno’.
Non resta che vedere se ci sono conseguenze di questa “forzatura” nella poesia leopardiana degli anni immediatamente successivi. Posso subito anticipare di sì, ma ne parlerò in un prossimo intervento.

Perché dico che sono sufficienti
i 140 caratteri di Twitter

In questi giorni Michele Serra ha attaccato successivamente, in due Amache, «il sensazionalismo urlato» della stampa italiana e «il cicaleccio sincopato» di Twitter. Solo sul secondo di questi suoi obiettivi polemici dichiara (in un successivo articolo del 17 marzo) di aver ricevuto «moltissimi commenti, quasi tutti ostili». Michele Serra è uno dei pochissimi giornalisti con i quali in genere concordo al cento per cento e, dato che questa volta non concordo affatto, voglio riprendere qui il suo ragionamento, naturalmente senza nessun tono “ostile”.

Premetto che non sono un utente di Twitter e che dunque non parlo per spirito di parte. Ma aggiungo che non lo sono perché ritengo che non avrei il tempo né di seguire quello che vi si pubblica, sia pure nelle sole sfere di mio interesse, né di pubblicarvi regolarmente i miei tweet. Ciò non toglie che io apprezzi moltissimo il “limite” che vi viene imposto. Il “limite” è infatti la necessaria condizione della consapevolezza nell’arte. Il “limite” della materia per lo scultore, della bidimensionalità per il pittore, quello del verso (e del ritmo che gli suona dentro) per il poeta, e così via. Il limite è la condizione necessaria della consapevolezza, in generale. Necessaria, ma, come è ovvio, non sufficiente. Non tutti coloro che spaccano pietre sono scultori, né coloro che imbrattano muri pittori, né coloro che vanno a capo prima della fine naturale del rigo poeti.
La questione non è dunque quella del limite, ma di che cosa si fa dentro quel limite. In meno della metà di 140 caratteri Giuseppe Ungaretti ha scritto, per esempio, il 22 maggio del 1916 la straordinari poesia Stasera:


Balaustrata di brezza
per appoggiare stasera
la mia malinconia


Su questi tre versi (e sul titolo stesso da attribuire loro), per altro, Ungaretti (nella foto qui a fianco) ha riflettuto e lavorato per anni. Scrive Serra nella sua risposta ai commenti ostili che i 140 caratteri di Twitter portano alla tentazione «del giudizio sommario, della fesseria eletta a sentenza apodittica, del pulpito facile da occupare con zero fatica e spesso zero autorevolezza». Portano chi? In un mio intervento del 29 gennaio scorso citavo un terrificante artiolo uscito sul “Giornale”, un articolo nel quale il «giudizio sommario», la «fesseria eletta a sentenza apodittica» e il «pulpito occupato con zero fatica e zero autorevolezza» avevano avuto bisogno di ben 2187 caratteri da parte di un giornalista che pure ha un account su Twitter. Ripeto la domanda: portano chi? Ungaretti o Sallusti?
I 140 caratteri portano di per sé alla concisione. E basta. Sono personalmente convinto che, se Giulio Cesare avesse avuto a disposizione uno strumento del genere, avrebbe abbozzato su quella piattaforma on line i suoi Commentarii de Bello gallico: «Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur». Questo famosissimo incipit dell’opera misura 146 caratteri. Sarebbe bastato un niente per farlo entrare in un tweet.

Scrive Serra: «La parola – e questa è ovviamente solo una mia opinione – non deve rispondere solo all’ossessione di comunicare (la comunicazione sta diventando il feticcio della nostra epoca). La parola dovrebbe servire ad aggiungere qualcosa, a migliorare il già detto». No, gentile e caro Michele Serra. Mi viene in mente il «Gentile / Ettore Serra» della poesia Commiato, ancora di Ungaretti:


Gentile
Ettore Serra
poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento

Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso


Come non vedere che si tratta di due tweet, il primo di 132 caratteri e il secondo di 86, uno più straordinariamente bello e significativo dell’altro?
No, gentile e caro Michele Serra, la parola, dalla quale fioriscono il mondo, l’umanità, la vita, non deve aggiungere. Deve dire. 140 caratteri sono sufficienti. Anzi possono essere la condizione necessaria per “dire bene”. Naturalmente, per “dire male” non è necessaria nessuna condizione e possono non bastare 10.000 caratteri. La quantità non c’entra. Twitter pone questa condizione per dire notizie. Da questo punto di vista, la notizia fornita da Giulio Cesare nel primo periodo del De Bello gallico è ben più adatta a questa piattaforma che non i versi di Ungaretti, che ho citato per paradosso.
E qui, nel fatto che la notizia ne sia il vero contenuto, c’è un aspetto di Twitter al quale Serra neppure accenna. Questo aspetto è la possibilità di categorizzare tutti gli argomenti che vi vengono affrontati tramite un piccolissimo segno, l’hashtag, cioè nient’altro che il segno che noi chiamiamo “cancelletto”. Basta metterlo davanti alla parola chiave della notizia: quella che noi riteniamo la parola chiave, se siamo i primi a parlare di quell’argomento, o quella che altri hanno già individuato come parola chiave. Come non pensare ai tweet sul #tunnelgelmini che hanno impazzato per giorni alla fine dello scorso mese di settembre e che non erano né giudizi sommari né fesserie né altro del genere, ma, spesso, capolavori di comicità? Naturalmente, l’hashtag serve a cose ben più serie, come sappiamo dalle rivolte nei paesi arabi, dai movimenti che hanno voglia di libertà in tutto il mondo e anche dalle questioni culturali che su Twitter vengono affrontate con minore o maggiore serietà. Individuare la categoria di appartenenza di un concetto o di un fatto è un tipo di procedura mentale che – Aristotele ce lo ha insegnato ben prima di Twitter – aiuta a conoscere la realtà e il piccolo # è diventato così uno strumento importantissimo di approccio alle informazioni.

Ecco perché sono convinto, gentile e caro Michele Serra, che 140 caratteri siano sufficienti. Anzi, sono convinto che, se ben usati, aiutino a ragionare meglio. Aiutano chi sa – e vuole – ragionare, è ovvio.

La «speranza fallace». Appendice leopardiana [I]

Qualche mese fa ho completato la serie dei miei interventi su La speranza fallace: da Cavalcanti a Petrarca (qui l’ultimo) con l’accenno a una possibile “breve appendice” sul modo in cui Leopardi ha successivamente utilizzato il lessico petrarchesco per descrivere la propria idea della speranza. Lo spunto era costituito dal fatto che, nella mia lettura di Petrarca, avevo citato spesso il commento leopardiano al Canzoniere. Su questo commento ho scritto parecchio tempo fa un piccolo saggio, Errori, inganni e un tradimento. Leopardi dal commento al Canzoniere petrarchesco ai Grandi Idilli, in “Civiltà dei Licei”, Anno V (1998), 7. Quando scrivevo di una “breve appendice” pensavo di poter ricavare da quel saggio qualche suggestione e di sintetizzarla in questo blog.
Ma non è possibile. La questione è complessa, richiede ragionamenti – e porta a riferimenti – non facili. Inutile pensare di affrontarla in poche battute. Ecco allora che ho deciso di riprendere qui per intero, in qualche puntata, i contenuti di quel saggio (ormai, per altro, introvabile) e di approfittare dell’occasione per riformulare e aggiornare i temi che lì avevo trattato.

Ritratto di Leopardi di Giuseppe Chiarini

Vorrei qui partire dalla opinione diffusa e – a ragione – consolidata secondo la quale c’è un filo ben forte che lega la poesia di Leopardi, o almeno il lessico leopardiano, al Canzoniere petrarchesco. Questa opinione è confortata, oltre che da molti minori riferimenti, dal noto grandissimo plagio leopardiano di un grandissimo verso del Petrarca, plagio che risale al 1829 e appartiene alle Ricordanze (v. 92: «che di cotanta speme oggi m’avanza»); ma sembrerebbe contraddetta da una lettera all’editore Stella di tre anni prima nella quale il Leopardi dichiara a proposito del Petrarca, apparentemente senza possibilità di equivoco: «[…] io non trovo in lui se non pochissime, ma veramente pochissime bellezze poetiche».
Facciamo il punto della situazione. E cominciamo dal novembre del 1824. In quel periodo, con la stesura del Cantico del gallo silvestre, Giacomo Leopardi conclude la composizione di quelle che saranno poi chiamate le “Operette del ‘24” (in realtà pubblicate, proprio dall’editore Stella, nel 1827) per distinguerle da quelle composte negli anni seguenti e inserite per la prima volta nell’edizione del 1834. Nell’aprile del 1825 Antonio Fortunato Stella invita il poeta a stabilirsi a Milano per dirigere l’edizione di tutte le opere di Cicerone (bisogna ricordare che, subito dopo il suo viaggio a Roma del 1822-1823, si era diffusa in Italia e in Europa la fama di Leopardi come filologo classico). Lo stesso editore gli propone nel frattempo di lavorare anche a un commento al Petrarca e a una crestomazia della prosa e della poesia italiane. Nel luglio dello stesso anno, accettando queste proposte, Leopardi si reca momentaneamente a Milano, ma si stabilisce poi a Bologna dove resta fino al novembre del 1826. Ritorna quindi a Recanati, e vi resta fino al giugno del 1827, quando si trasferisce a Firenze per poi spostarsi, dal settembre di quello stesso anno, a Pisa. Qui si ferma per dieci mesi, durante i quali scrive Il risorgimento (7-13 aprile 1828) e A Silvia (19-20 aprile 1828). Dal giugno al novembre del 1828 ritorna a Firenze da dove è infine costretto a rientrare a Recanati.
Come si vede, il 1825 è l’anno decisivo per il distacco di Leopardi dalla famiglia e dal paese natio; e l’inizio del commento al Petrarca, che è il suo primo lavoro retribuito, coincide con il suo trasferimento a Bologna e con il parziale raggiungimento di una certa autonomia economica. Il lavoro viene condotto con lo scopo preciso di rendere chiaro a tutti il senso dei versi del Canzoniere e non con quello di darne una illustrazione critica. Il poeta preferisce infatti chiamare le proprie note, piuttosto che “commento”, «interpretazione». Per un verso, quel lavoro dovette quindi essere – o essere vissuto come – assai arido e, per un altro, dovette rivelarsi massacrante. In effetti, tra un trasferimento e l’altro, mentre curava l’edizione di Cicerone, sistemava le Operette del ‘24 per la pubblicazione sull’«Antologia» e poi per la consegna all’editore (per non dire di altri meno importanti ma comunque numerosi lavori portati avanti in quel periodo), in poco più di duecentocinquanta giorni, Leopardi aveva dato la parafrasi dei 366 componimenti del Canzoniere e di tutti i Trionfi. Proprio in questo infatti, come ho appena ricordato, e cioè nella «traduzione dei versi o delle parole […] in una prosa semplice e chiara», era consistito prevalentemente il suo lavoro. Non devono quindi stupire più di tanto le espressioni di “rigetto” del Petrarca che, dopo quei mesi di impegno gravoso e intensissimo, egli scrisse all’editore. Proprio queste, d’altro canto, sono le espressioni in genere utilizzate come prova di un profondo distacco del Leopardi dal Petrarca, anzi di un vero e proprio divorzio consumatosi dopo dieci mesi di forse troppo appassionato matrimonio. Ma qui vorrei dimostrare il contrario.
Queste espressioni di “rigetto” sono contenute in una famosa lettera del 13 settembre 1826 ad Antonio Fortunato Stella (quella che ho in parte già citata all’inizio di questo intervento). Leopardi risponde all’editore che gli aveva chiesto, in aggiunta al commento, un saggio sul Petrarca e scrive:


Io le confesso che, specialmente dopo maneggiato il Petrarca con tutta quell’attenzione ch’è stata necessaria per interpretarlo, io non trovo in lui se non pochissime, ma veramente pochissime bellezze poetiche, e sono totalmente divenuto partecipe dell’opinione del Sismondi, il quale nel tempo stesso che riconosce Dante degnissimo della sua fama, ed anche di maggior fama se fosse possibile, confessa che nelle poesie del Petrarca non gli è riuscito di trovar la ragione della loro celebrità.


In queste parole, per la verità, c’è ben di più di un “rigetto” da stress. Ma su questo “di più” tornerò in un prossimo intervento

Ancora una traduzione da Frank O’Hara

Ho presentato qualche tempo fa la traduzione di una poesia di Frank O’ Hara, A Step Away from Them, appartenente alla raccolta Lunch Poems. Nella stessa raccolta si trova una delle poesie più belle di questo poeta e, forse, una delle più belle di tutta la produzione poetica americana del Novecento. È la poesia The Day Lady Died (qui il testo originale), dedicata al 17 luglio del 1959, giorno della morte di Lady Day. Con questo nome veniva chiamata la grande cantante blues Billie Holiday (1915-1959: qui a fianco nella foto), amatissima dagli intellettuali newyorkesi di quegli anni e, in particolare, dal gruppo di poeti e scrittori noto come la “Scuola di New York”.

Come la poesia che ho già tradotto, anche questa ha una eccezionale “leggerezza” sia nel seguire lo scorrere del tempo sia nell’inserire in questo scorrere, come due sorelle indivisibili, la vita e la morte.
Manhattan è lo straordinario ambiente nel quale tutto questo avviene: le sue strade, le sue librerie, le sue rivendite di alcolici, i suoi tabaccai. E, infine, i suoi locali: spesso, allora come oggi, apparentemente piccoli bar. Ma, se entri, senti subito che la musica di un pianista o di una piccola band è di alto livello e magari riconosci un volto o una voce nota che ti aspetteresti di trovare solo in rinomati teatri di Broadway. La Bowery, la zona di Manhattan che si estende a fianco di Bowery street, è piena di questi locali e Frank O’ Hara ne era uno dei più assidui frequentatori.

Frank O’Hara, The Day Lady Died
Traduzione di Michele Tortorici, È morta lady Day[1]


Sono le dodici e venti a New York un venerdì
tre giorni dopo il giorno della Bastiglia, sicuro
è il Cinquantanove e vado in cerca di un lustrascarpe
perché parto alle quattro e diciannove, a Easthampton
arriverò alle sette e quindici e dopo subito a cena
e non so se qualcuno mi farà da mangiare

cammino su per la strada dove l’afa comincia a farsi sentire
e prendo un hamburger e un frappè e compro
quell’odioso del New World Writing, così vedo che fanno
in questi giorni i poeti del Ghana
                         vado in banca
e miss Stillwagon (l’ho saputo anch’io che di nome fa Linda)
per una volta nella vita non si mette a guardare il mio saldo
e da Golden Griffin prendo un piccolo Verlaine
per Patsy [2], illustrazioni di Bonnard, ma non mi
dispiacerebbe Esiodo, trad. di Richmond Lattimore o
la nuova commedia di Brendan Behan [3] o Le balcon o Les Nègres
di Genet, ma non li prendo, rimango con Verlaine
finché vado a dormire, praticamente, con irresolutezza

e per Mike faccio due passi al negozio di liquori
di Park Lane e chiedo una bottiglia di Strega
poi me ne torno per dove ero venuto fino alla Sesta Avenue
e al tabaccaio dello Ziegfield Theater e
come niente fosse chiedo una stecca di Gauloises e una stecca
di Picayunes, e una copia del New York Post dove c’è il viso di lei
e da quel momento sono pieno di sudore e penso che
me ne stavo appoggiato alla porta del cesso, al 5 spot [4],
mentre lei sussurrava una canzone a Mal Waldron [5] accosto
alla tastiera e tutti, me compreso, smettevamo di respirare.


 


[1] Il gioco di parole del titolo originale è intraducibile
[2] Patsy Southgate (1928-1998), scrittrice e traduttrice, molto vicina al gruppo di poeti della “Scuola di New York”
[3] Brendan Behan (1923-1964), poeta, romanziere e scrittore teatrale irlandese, attivista repubblicano, molto rappresentato a Broadway proprio in quel periodo
[4] Mitico bar cabaret al numero 5 di Cooper Square, sul lato sud di Bowery street. Dal 1956 vi si esibirono i maggiori artisti del jazz e del blues
[5] Mal Waldron (1925-1902), pianista newyorkese, accompagnò regolarmente Billie Holiday dal 1957 fino alla morte della cantante

Il mio amore per la Germania

Lo scorso 27 gennaio, Giornata della Memoria, “Il Giornale” è uscito con un editoriale del direttore, A noi Schettino, a voi Auschwitz. Questo titolo terrificante voleva rispondere a un articolo del settimanale “Der Spiegel” che – sembra – attaccava, per la codardia del comandante della nave da crociera Costa Concordia, tutti gli italiani.
Non sono riuscito in alcun modo a trovare on line l’articolo in questione e non ho avuto né tempo né voglia di cercarlo nelle edicole che hanno giornali stranieri. Ma non ha importanza: di stupidaggini ne scrivono tutti in tutto il mondo. Forse, e sottolineo il forse, ne è stata scritta una anche su “Der Spiegel”. Non sarebbe la prima.

Considero però, eventualmente, stupidi il titolo e l’articolo attribuiti al settimanale tedesco e terrificanti il titolo e l’articolo del giornale italiano. Terrificante il titolo, perché attribuisce a tutti i tedeschi e a tutta la odierna Germania la responsabilità dei campi di sterminio. E invece proprio la Germania sta compiendo, con un coraggio che in Italia è mancato e ancora manca, uno straordinario e doloroso percorso culturale e politico di presa di coscienza delle proprie responsabilità. Terrificante l’articolo perché usa con una disinvoltura che non ricordo in tempi recenti sia la parola “razza” sia soprattutto il concetto che essa esprime così come elaborato dal nazismo e ripreso poi dal fascismo. Il senso dell’editoriale si può infatti così riassumere: i tedeschi, «quelli della razza di Jan Fleischauer (autore dell’articolo)» sono, in quanto tali, cioè in quanto tedeschi, sterminatori di ebrei, sparatori alla schiena di donne e bambini, «arroganti e pericolosi per l’Europa».

Non aggiungo altro se non la mia profonda vergogna per il fatto che questo articolo delirante pretende di rappresentarmi in quanto italiano.
Ebbene no. Non mi rappresenta.

Amo la Germania, la sua musica, la sua letteratura, la sua poesia, le sue città faticosamente ricostruite dopo l’ultima guerra e oggi piene di una straordinaria vitalità sociale e artistica, i suoi viaggiatori che da secoli si emozionano di fronte alle bellezze e alla cultura del nostro paese, il suo popolo. Piango, insieme a questo popolo, gli orrori che in suo nome il nazismo ha perpetrato. Ammiro il coraggio con il quale questo popolo oggi in ogni piazza, in ogni strada, ricorda il suo terribile passato ed è capace di fare i conti con le sue non meno terribili responsabilità. Non mi importa nulla se in Germania qualche giornalista e qualche testata giornalistica sono in vena di sparate anti-italiane. Nella mia testa non agisce in alcun modo il concetto di “razza”, cioè quello che attribuisce una caratterizzazione agli individui per ragioni naturali (di appartenenza etnica o nazionale) e non per le specifiche scelte che ciascuno di essi compie.

Ho scritto qualche anno fa un libriccino di poesie, I segnalibri di Berlino, che è al tempo stesso un diario di viaggio e una dichiarazione di amore per questa città e per la sua capacità di vivere la memoria del proprio passato. Ma non voglio qui fare una citazione di me stesso. Voglio invece trascrivere alcuni bellissimi testi poetici che rappresentano, senza bisogno di alcun commento, la fraternità di due culture che da sempre trovano ispirazione l’una nell’altra. Il primo testo è di Heinrich Heine (1797-1856): si tratta della poesia Mit schwarzen Segeln, tratta dalle Neue Gedichte (1844). Il secondo testo è la traduzione di quella poesia a opera di Giosue Carducci (1835-1907), Passa la nave mia con vele nere, tratta dal terzo libro delle Rime nuove (1887). Il terzo testo è la straordinaria reinterpretazione di quella stessa poesia da parte di Giacomo Noventa (1898-1960) ne Gò vestìo, sì, de luto la me barca.
Ecco dunque i testi. Lasciamo che parlino da soli dei nodi che legano due popoli e due culture.

Heinrich Heine, Mit schwarzen Segeln


 Mit schwarzen Segeln segelt mein Schiff
Wohl über das wilde Meer;
Du weißt, wie sehr ich traurig bin
Und kränkst mich doch so schwer.
 Dein Herz ist treulos wie der Wind
Und flattert hin und her;
Mit schwarzen Segeln segelt mein Schiff
Wohl über das wilde Meer.


Giosue Carducci, Passa la nave mia con vele nere


 Passa la nave mia con vele nere
Con vele nere pe ‘l selvaggio mare.
Ho in petto una ferita di dolore,
Tu ti diverti a farla sanguinare.
 È, come il vento, perfido il tuo core,
E sempre qua e là presto a voltare.
Passa la nave mia con vele nere,
Con vele nere pe ‘l selvaggio mare.


Giacomo Noventa, Gò vestìo, sì, de luto la me barca


 Gò vestìo, sì, de luto la me barca,
E me fido del mar;
Tì ti-sa ben che mi gò perso tuto,
Par volerte amar.
 El to cuor m’à tradìo, come fa ’l vento
A ùn che sa dove andar;
Mi gò vestìo de luto la me barca,
E me fido del mar.


La cultura del privilegio (e dell’ossequio) …

… e l’insegnamento di mio padre

C’è una cosa che accomuna i fatti, apparentemente diversi, dei quali si è parlato – o ri-parlato – nei giorni scorsi a proposito della “casta”: un appartamento in buona parte pagato da generosi donatori “all’insaputa” del compratore; un altro, a pochi passi dal primo, acquistato sottocosto per la sentenza di un organo amministrativo forse influenzato da uno dei compratori che di quello stesso organo faceva parte; una vacanza regalata da altri generosi donatori, e sempre “all’insaputa” del destinatario; una contiguità “culturale” con la camorra (indipendente dall’eventuale concorso in associazione di stampo camorristico, che solo un processo penale potrà accertare) per un deputato lasciato in libertà dal voto “di coscienza” della maggioranza dei suoi colleghi.
La cosa che accomuna questi fatti è quella che io chiamo la cultura del privilegio: l’idea che far parte di un gruppo consenta di sfruttare le prerogative pubbliche o private, il potere legittimo o criminale di quel gruppo per fini personali, di solito raggiungibili anche in altro modo. Un magistrato non può forse accendere un mutuo più oneroso, o un alto dirigente dello Stato non può pagarsi una vacanza di lusso? Un deputato di lungo corso non può forse comprare una casa anche molto costosa con i suoi soldi? Un altro non può acquisire prestigio differenziandosi (magari con qualche rischio) piuttosto che partecipando ai valori di una cultura di stampo camorristico? Certamente sì, ma i mille esempi che abbiamo davanti, dei quali quelli oggetto di clamore sono una piccolissima parte, ci dicono che viene preferita una via diversa. E ciò a causa di una cultura lungamente coltivata nel nostro paese per la quale il privilegio è tale solo se visibilmente eccede la misura della normalità. A che pro avere una posizione di privilegio, se poi, per comprare una casa, devo fare come gli altri?

Naturalmente, c’è un rovescio della medaglia. Il mettere concretamente in atto questa cultura comporta un piccolo pedaggio da pagare: quello dell’obbedienza a poteri più forti, a privilegi ancora più radicati. Un regalo, tanto più quando è accolto da un destinatario che, se scoperto, dovrà dichiararsene inconsapevole (e dunque affermare la propria imbecillità), richiama a un doveroso ricambio del favore, che potrebbe anche non essere richiesto, ma che comunque resta lì nell’aria. Se dovesse essere reclamato, chi potrebbe negare quel ricambio?

* * *

Ero andato a trovare mio padre, che non vedevo da tempo perché era stato impegnato a lungo come presidente di una commissione d’esame di corsi abilitanti per docenti. Eravamo a metà degli anni Settanta, se non ricordo male, e accadde un episodio che mi è tornato alla mente proprio in questi giorni.
Bussarono alla porta e andai ad aprire io. Era un fattorino che consegnò un pacchetto, mi fece firmare qualcosa e se ne andò. Quando mio padre aprì il pacco lo vidi diventare improvvisamente serio. Afferrò malamente l’elegante scatola che vi era contenuta, la posò sul grande tavolo ingombro di libri del suo studio, prese l’elenco telefonico, lo consultò con una certa frenesia e infine compose un numero. Io nel frattempo avevo guardato il contenuto della “elegante scatola”: una bellissima stilografica d’oro e un biglietto con molte firme.
La telefonata fu breve, secca. Accertatosi di chi fosse l’interlocutore, mio padre gli ordinò perentoriamente di venire o di mandare qualcuno a riprendersi subito il pacchetto. Punto e basta. Nessuna discussione era possibile.
Naturalmente, quando vidi che posava il telefono, finalmente tranquillo, gli chiesi di che si trattava. Era un regalo dei partecipanti al corso abilitante i cui esami si erano appena conclusi. Devo ricordare, per i più giovani, che quegli esami si erano svolti all’insegna di una violenta polemica dei sindacati: la richiesta era che non fosse bocciato nessun corsista. Al di là delle prese di posizione ufficiali, per quieto vivere, molte commissioni avevano, di fatto, promosso tutti. Quella della quale era presidente mio padre, no. Ma il regalo era stato inviato dai promossi e dai bocciati, tutti riconoscenti – questo era il senso del biglietto e delle firme – per l’equo rigore che aveva accompagnato un esame svolto con correttezza e serenità.
Perché allora il rifiuto? mi venne spontaneo chiedere a mio padre.
«Perché – mi rispose – questa non sarà l’ultima mia commissione di esame. Nessuno deve pensare che io, come presidente, accetti regali d’oro. Né prima né dopo gli esami. Si tratta di un’ombra che ti accompagna. Se fosse stato un libro sarebbe stato diverso, ma oro no. Mai».

Poco più tardi bussò qualcuno che, senza una parola, si riprese il pacchetto.

Molti anni dopo, quando mio padre morì, trovai sul suo comodino un De Officiis di Cicerone (qui sopra il frontespizio del manoscritto Vat. Pal. Lat. 1534) con un segno su una pagina del terzo libro. La frase segnata era questa:


C’è forse qualcosa di così grande valore, o un vantaggio così desiderabile da indurti a perdere la splendida reputazione di “vir bonus”? E davvero che cosa di tanto grande può procurarci questo privilegio, ammesso che sia tale, che eguagli ciò che può portarci via una volta che ci abbia strappato la reputazione di “vir bonus” e ci abbia tolto ogni sentimento di lealtà e di giustizia?


Non è necessario che io aggiunga altro, né per ricordare l’insegnamento lasciato da mio padre, né per manifestare tutto il mio disprezzo per la cultura del privilegio, che è al tempo stesso – non dimentichiamolo mai – dell’ossequio.

Una traduzione da Frank O’Hara

Frank O’ Hara (1926-1966) è un poeta vissuto troppo poco. È stato un artista multiforme, amante della musica ed esperto di arti visuali, tanto da essere curatore delle sezioni di Pittura e Scultura del Museum of Modern Art di New York. A questa città ha dedicato molti dei suoi versi, tra i quali questa poesia, A Step Away from Them (qui il testo originale), della quale offro una nuova traduzione. La poesia è già stata egregiamente tradotta da Paolo Fabrizio Iacuzzi nel volume Frank O’ Hara, Lunch Poems, edito negli Oscar Mondadori nel 1998. Sui marciapiedi di Manhattan (non bisogna dimenticare che O’ Hara lavorava al Moma, sulla 53th, a due passi dalla 5th Avenue) la vita che passa all’ora della pausa pranzo si incontra – come per caso, ma non per caso – con ricordi di amici da poco scomparsi, ma soprattutto con il cuore che il poeta si porta in tasca: perché si tratta, semplicemente, di un libro di poesie. Buona lettura e buon anno.

Frank O’Hara, A un passo da loro (da: Lunch poems, 1964)


È la mia pausa pranzo, così vado
a spasso in mezzo ai taxi dai colori
ronzanti [1]. Prima, scendo lungo il marciapiede
dove i manovali riempiono di sandwich
e Coca cola i loro torsi sporchi
e unti e hanno gli elmetti gialli
in testa. Li proteggono dai mattoni
che cadono, suppongo. Poi lungo la
Avenue dove le gonne fanno mulinello
sui tacchi e si sollevano al passare sopra
le grate. Il sole è caldo, ma i
taxi rimescolano l’aria. Io guardo
gli orologi a prezzi scontati. Ci
sono gatti che giocano nella segatura.
                            Su
verso Times Square dove il cartellone
luminoso soffia il fumo sulla mia testa e più in alto
cola una cascata di luce. Un
negro sta in un portone e muove uno
stuzzicadenti svogliatamente su e giù.
Da una fila una ragazza bionda gli fa l’occhiolino: lui
sorride e si gratta il mento. Tutto
all’improvviso è un clacson che suona: sono le dodici e quaranta di
un giovedì.
        I neon alla luce del giorno sono
proprio una delizia, come potrebbe scrivere
Edwin Denby [2], e così le lampadine alla luce del giorno.
Mi fermo per un cheeseburger al Jiuliet’s
corner. Giulietta Masina, moglie di
Federico Fellini, è bell’attrice [3].
E frappè di cioccolato. Una signora
in volpe in una giornata come questa fa salire il barboncino
su un taxi.
       Ci sono tanti Porto
Ricani sull’Avenue oggi e questo
la rende bella e calda. Prima
è morta Bunny [4], poi John Latouche [5],
poi Jackson Pollock [6]. Ma la
terra è piena, come lo era la vita, di loro?
E uno ha mangiato e uno va a spasso,
supera le edicole con le riviste di nudi
e i manifesti della corrida e
il Manhattan Storage Warehouse [7],
che presto butteranno giù. Io
pensavo sempre che ci avrebbero fatto l’Armory
Show [8] là.
         Un bicchiere di succo di papaya
e di nuovo al lavoro. Il cuore me lo porto in
tasca, è il libro di Poesie di Pierre Reverdy [9].

 


.
[1] Taxi … ronzio: traduco così la bellissima e intraducibile espressione “hum-colored / cabs”. Hum è il ‘ronzio’ e i taxi newyorkesi hanno appunto il colore, giallo e nero, delle api ronzanti.
[2] Edwin Denby, (1903-1983), poeta e critico che frequentava a New York la cerchia di artisti della quale faceva parte Frank O’ Hara.
[3] In italiano nel testo originale.
[4] Violet R. “Bunny” Lang (1924-1956), attrice, scrittrice, poetessa, animatrice del Poets’ Theater di Cambridge nel Massachusets.
[5] John Latouche (1914-1956), musicista e scrittore (in particolare librettista) molto popolare a New York negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento.
[6] Jackson Pollock (1912-1956), pittore, reso famoso dal suo stile detto “action painting” che ha influenzato per decenni l’arte americana ed europea.
[7] Manhattan Storage Warehouse, storica costruzione sulla Quarantaduesima strada, effettivamente abbattuto pochi anni dopo.
[8] Armory Show, titolo attribuito alla mitica mostra d’arte tenuta nel 1913 nel deposito di armi del 69° Reggimento a New York. In quella mostra furono presentate circa 1300 opere delle avanguardie europee che per la prima volta vennero conosciute oltre Atlantico. Dopo quella data ci furono negli Stati Uniti alcune mostre simili, anche se meno importanti, che mantennero comunque il nome di Armory Show.
[9] Pierre Reverdy (1889-1960), poeta francese amato dai surrealisti e dai cubisti, ritratto da Modigliani, molto noto negli Stati Uniti dove però solo nel 1969 uscì una antologia delle sue poesie tradotte.