La poesia con il quotidiano

Ho lamentato più volte, anche su questo blog, la disattenzione dei quotidiani nei confronti della poesia. Disattenzione che, in parte, è certamente conseguenza del fatto che la poesia, con la sua originaria e costituzionale inutilità, contraddice tutte le regole di produttività, di competitività e di mercato alle quali la società contemporanea si ispira e delle quali i media, dal canto loro, si fanno – tranne rare eccezioni – portabandiera. Ma, in parte, questa stessa disattenzione è frutto anche di negligenza e ignoranza. La lettura della poesia richiede fatica. Il “verso”, ciascun “verso” di cui un testo poetico è composto, è, come dice la parola, una “svolta”: una “svolta” determinata dal suono (quelle che Pessoa, attraverso il suo eteronimo Álvaro De Campos, chiamava «pause speciali e innaturali»), che mette ogni volta il lettore di fronte a una scelta di senso. Nessun altro tipo di lettura ci spinge in maniera così costante e perentoria a un simile esercizio della coscienza e della libertà. Non a caso Harold Bloom parla di una vera e propria «missione» della poesia (sul termine «missione», che traduce «mission», si potrebbe discutere, ma non è questo il luogo): quella di «aiutarci a diventare liberi artefici di noi stessi» e afferma che «l’arte di leggere la poesia è un autentico esercizio di accrescimento della coscienza, forse il più autentico fra tutti i modi salutari».
Ma in questi giorni è successo qualcosa che, almeno in piccola misura, contraddice questa accusa che io rivolgo ai quotidiani. Il “Corriere della Sera” annuncia infatti la collana Un secolo di poesia, trenta volumi a costo contenuto che verranno allegati al giornale una volta la settimana nei prossimi mesi e di cui viene fornita una prima prova, al costo simbolico di un euro, con l’Elogio dei sogni di Wisława Szymborska. Una scelta, quella del “Corriere della Sera” alla quale plaudo senza riserve, al di là dei poeti e dei testi che saranno scelti.

Tuttavia, come dimostra la permanenza di varie copie del volume di Szymborska sul bancone del mio giornalaio, c’è ancora molto da fare. La gente è così disabituata alla possibilità stessa di leggere libri di poesia che, a quanto pare, non ha voluto aggiungere neppure un euro al costo del giornale per portarsi a casa l’Elogio dei sogni. E non è questione di crisi: è che siamo spinti tutti, piuttosto che alla fatica della scelta, piuttosto che alla verifica di senso dopo ogni svolta che facciamo, alla riposante tranquillità che deriva dal lasciare che altri scelgano al posto nostro e che altri diano un senso alle nostre vite.
Sennò, perché avremmo vissuto così questi ultimi venti anni?

George Whitman:
l’eco della poesia americana in Europa

Nella provincia culturale d’Italia che riempie le pagine dei giornali con i dibattiti sui lucchetti e che sembra non riuscire più ad alzare lo sguardo, la morte di George Whitman, avvenuta il 14 dicembre scorso, ha rappresentato soltanto l’occasione per più o meno idealizzati necrologi, quasi sempre rielaborati a partire da quello pubblicato nel sito della sua mitica libreria parigina “Shakespeare and Company”. Con un colonnino “di colore” nelle pagine della cultura i maggiori quotidiani nazionali (con alcune illustri eccezioni: per esempio “Repubblica”, che l’ha dimenticato del tutto) hanno ritenuto di adempiere al loro obbligo professionale. Coscienza a posto per una ventina di righe. E poi subito a occuparsi ancora di lucchetti.

Il fatto è che Whitman, con quella libreria al 37 di Rue de la Bûcherie, non ha fatto soltanto una lunghissima opera di diffusione del libro e della lettura, non ha soltanto portato avanti una rivoluzione del costume mettendo letti per scrittori e lettori in viaggio vicino agli scaffali e omettendo di denunciare i ladri di libri del suo negozio: George Whitman ha costituito una eco decisiva per l’Europa di ciò che accadeva, soprattutto negli anni Sessanta, nella cultura e nella poesia americana.
Chi di noi avrebbe conosciuto i Ginsberg, i Corso, i Burroughs, i Ferlinghetti, se non ci fosse stata questa eco europea di quello che loro scrivevano e facevano? È vero che la altezzosissima Europa (con l’arretratissima Italia, naturalmente, al primo posto) ha poi pensato di poter fare a meno delle straordinarie suggestioni che da questi poeti giungevano. Ma intanto chi voleva ha potuto conoscerli, si è poi affidato alla grande opera di traduzione e interpretazione di Fernanda Pivano, ha seguito le loro storie che si sono via via spostate da Parigi a New York a San Francisco, ha imparato un linguaggio nuovo che, almeno a qualcuno (e io sono tra questi), ha liberato la testa da tanto ermetismo d’accatto vigente in Italia in quegli stessi anni e ancora oggi non sradicato, ha permesso di trovare nuovi ritmi e di affacciarsi su nuovi orizzonti: questi ultimi collocati sul versante opposto rispetto a quello che la neoavanguardia italiana, magari con scopi analoghi, percorreva contemporaneamente.

Da lì, da quella libreria anglo-americana di Parigi (davanti alla quale, come si può vedere qui a fianco, sono stato anche io), abbiamo avuto l’eco di un’epoca nuova della cultura occidentale. Nuova e al tempo stesso antichissima: non è forse vero che, sulla porta della “Shakespeare and Company”, la poesia è tornata a essere suono, a essere detta ed eseguita, come ai tempi di Omero e di Esiodo, dopo secoli di poesia soltanto scritta? Naturalmente, bisognava stare a sentire. Anche allora, come oggi, bisognava leggere notiziole più di costume e “di colore” che di cultura, affidarsi a trafiletti di poche righe, poi leggere i versi della Beat generation e aspettare che germogliasse qualcosa nella propria anima.
Nel frattempo è successo anche il contrario. È successo che, preso esempio da Whitman, Lawrence Ferlinghetti ha creato la sua libreria “City Lights” a San Francisco, dove ha fatto conoscere e amare i poeti europei (tra gli italiani, più di ogni altro, Pasolini). In quella libreria di San Francisco è nata la grande stagione dei readings, delle letture (rimaste nella storia quelle di Ginsberg) che anche in America, soprattutto in America, hanno riportato la poesia alla essenza sonora delle sue origini.

Non sarebbe il caso di discutere di tutto questo? Non sarebbe il caso di farlo in questo paese dove i readings li abbiamo scoperti decenni dopo per farne una piccola moda un po’ snob da esibire nei festival di poesia? Non sarebbe il caso di farlo in questo paese dove si discute di librerie solo quando chiudono?
Evidentemente non è il caso. O così pensano i nostri intellettuali.
Lasciamoli parlare di lucchetti!

P.S.
Trascrivo qui sotto la traduzione del necrologio apparso sul sito della libreria “Shakespeare and Company”.


Mercoledì 14 Dicembre 2011 George Whitman è morto serenamente nella sua casa, un appartamento sopra la sua libreria, “Shakespeare and Company”, a Parigi. George aveva avuto un ictus due mesi fa, ma ha mostrato incredibile forza e determinazione fino alla fine, continuando a leggere ogni giorno in compagnia di sua figlia, Sylvia, dei suoi amici, del suo gatto e del cane. È morto due giorni dopo il suo novantottesimo compleanno.
Nato il 12 Dicembre 1913, a East Orange, nel New Jersey, George si trasferì a Parigi nel 1948 e vi aprì nel 1951 la libreria “Le Mistral”, in seguito ribattezzata “Shakespeare and Company”. Il negozio, stipato da parete a parete da libri e da letti destinati agli scrittori in viaggio, è cresciuto rapidamente fino a essere un paradiso per gli amanti dei libri e per gli autori, mentre George diventava un’istituzione originalissima della Parigi letteraria. Nel 2006 fu premiato con l’Officier des Art et Lettres dal ministro della Cultura francese per il contributo da lui dato alle arti durante tutta la sua vita.
Dopo una vita interamente dedicata ai libri, agli autori e ai lettori, George mancherà molto a tutti i suoi cari e ai bibliofili di tutto il mondo che hanno letto, scritto e e sono stati nella sua libreria per oltre 60 anni. Soprannominato il Don Chisciotte del Quartiere Latino, George sarà ricordato per il suo spirito libero, la sua eccentricità e la sua generosità, tutti e tre riassunti nei versi di Yeats scritti sui muri della sua libreria sempre aperta e frequentatissima: «Non essere inospitale con gli sconosciuti / potrebbero essere angeli sotto mentite spoglie “.
George sarà sepolto al cimitero di Père Lachaise a Parigi, in compagnia di altri uomini e donne di lettere, come Guillaume Apollinaire, Colette, Oscar Wilde e Balzac. La sua libreria continua, gestita dalla figlia.


Steve Jobs,
inventore di strumenti per farci pensare meglio

Oltre i clamori e i superlativi: grazie Steve

Nei primi giorni dei quasi due mesi trascorsi dalla scomparsa Steve Jobs ha attirato sul suo lavoro e sui prodotti della Apple commenti caratterizzati da un uso spropositato di superlativi. Per lo più ci si è soffermati sulla sua straordinaria capacità di anticipare il futuro con intuizioni che lui stesso ha paragonato alla follia.
Ora, con la mia solita – e orgogliosamente rivendicata – lentezza, cessati i clamori, voglio approfondire la questione a modo mio. E lo faccio cominciando con il notare come possa sembrare strano – e lo è – che sia stato un americano a ricordarci con questo paragone una linea di pensiero che è stata propria dell’umanesimo e del rinascimento italiani ed europei. Una linea di pensiero che, a partire da una originale lettura di Paolo di Tarso, individuava appunto nella follia un formidabile strumento di approccio alla conoscenza. Nella concezione erasmiana, la follia è quella che ci consente al tempo stesso di essere liberi nel pensiero e di accettarne il limite umano: due tendenze, solo apparentemente contrastanti, che per Erasmo hanno origine nella superiore follia della fede e che per un laico sono le coordinate dell’orizzonte terreno.
Nella mia vita ho avuto, e ho, a che fare con gli strumenti che la follia di Steve Jobs ha creato. E questi strumenti mi hanno aiutato a pensare meglio.

Appena sono usciti i primi computer di largo consumo ho cominciato a ragionare sul fatto che il linguaggio digitale di queste macchine avrebbe potuto modificare il nostro modo di organizzare le conoscenze. Un modo che, dall’illuminismo in poi, si è stancamente cristallizzato in una forma esclusivamente sequenziale, la stessa che era all’origine del concetto ordinatore e della concreta realizzazione della Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Ma non la sola forma di organizzaqzione delle conoscenze: né allora, né prima, né dopo.
Quando dunque sono usciti i primi personal computer, a metà degli anni ottanta, provai a poco a poco tutto quello che circolava, dal Commodore 64 al successivo 128 fino al Macintosh e all’Amiga. Di questi ultimi due mi affascinava l’interfaccia grafica che, rispetto a quella dei computer a comandi testuali, rendeva sempre più facile (anzi, in certa misura, rendeva necessario) il superamento della sequenzialità in primo luogo nella organizzazione delle azioni per comandare la macchina e facilitava perciò anche una diversa organizzazione delle conoscenze. Pur essendo da subito un fan scatenato di Steve Jobs, quando, dopo aver usato i computer degli amici, e dopo aver avuto per un anno un Commodore 128, dovetti passare all’acquisto di un computer “serio”, optai per l’Amiga.
Il motivo era semplice. Con il computer dovevo lavorare, oltre che per me stesso, anche per la redazione di una rivista, “Il Nuovo Spettatore italiano”, nella quale ero capo redattore della sezione culturale. E i pochi pezzi che mi arrivavano in formato digitale erano regolarmente scritti con computer “Ibm”. Ebbene l’Amiga aveva questo vantaggio: con una piccola spesa, al corpo del computer originale si poteva collegare un “sidecar”(come si vede nella foto qui sopra), cioè un altro computer con processore 8086 e, dunque, perfettamente compatibile con tutti i software per “Ibm”. È ovvio che, quando dovevo lavorare per me, usavo l’Amiga. Con questo computer ho realizzato, per esempio, il database di tutti gli articoli pubblicati sulla rivista, poi uscito come indice analitico in fascicoli a stampa nel 1987 e nel 1988.

Soltanto più tardi sono passato al Mac, e sempre dopo averci lavorato a casa di un amico. Tra il 1994 e il 1995 con questo amico, Emilio Piccolo, decidemmo di realizzare una edizione ipermediale della Storia della letteratura italiana nell’orizzonte europeo, un’opera che io avevo diretta e in parte scritta e che era stata pubblicata nel 1992 dall’editore Oberon di Milano.
Il lavoro, da un punto di vista concettuale, non era difficile perché il mio compito di direttore di quella storia letteraria era consistito, appunto, nell’organizzarla in forma ipertestuale, per quanto ciò era consentito dal supporto cartaceo. La “storia” era infatti articolata in un testo sequenziale e in “schede” ipertestuali che di volta in volta aprivano verso estensioni di vario tipo: approfondimenti, collegamenti intra e intertestuali e così via. Il vero problema era trovare lo strumento digitale capace di tradurre questa organizzazione concettuale in un prodotto finito. Lo strumento fu appunto un Macintosh classic (nella foto) e un software, “Hypercard”, nativo per Mac. In due anni di lavoro riuscimmo a realizzare quello che avevamo in mente e presentammo a Galassia Gutenberg, con grande interesse (e anche moltissima curiosità) del pubblico la prima edizione ipermediale di una storia letteraria mai realizzata (ricordo a chi legge che era il 1995). Alla storia e alle schede avevamo integrato i testi di molte delle opere citate, immagini e musiche.

Ma torniamo ai miei computer. L’uso di quello straordinario strumento che ci aveva aiutato in maniera decisiva a tradurre in un prodotto digitale ipermediale una complessa organizzazione ipertestuale (storia e testi, schede, immagini, suoni, tutti rintracciabili con flessibili strumenti di ricerca) mi aveva entusiasmato. Così mi procurai un Macintosh usato (generazione precedente a quello che avevamo usato insieme, ma prestazioni, per me, eccezionali) e ho continuato a usarlo fino a quando non ho comprato un iMac, il primo modello uscito, ancora con il Mac Os IX. Da allora, il Mac è stato il mio compagno di viaggio in ogni realizzazione di progetti di scrittura, di prodotti ipermediali e di strutture per siti web.

Cedimento a una estetica di consumo? No. Anche se devo dire che il primo modello di iMac, con il corpo bianco latte a pallini blu, e quello stesso che sto usando ora, alluminio e nero, mi affascinano anche come oggetti. Semplicemente strumenti che mi hanno aiutato e mi aiutano a pensare meglio. Niente superlativi. Solo: grazie Steve.
Niente di più

Una traduzione da Ralph Waldo Emerson

Ralph Waldo Emerson (Boston, 1803 – Concord, 1882) è un filosofo e scrittore americano, oggi molto rivalutato, che ha attraversato l’intero xix secolo con la sua vita e le sue opere. Tra queste, le poesie non rappresentano certo, nel complesso, la parte migliore. E tuttavia alcune riescono a raggiungere una straordinaria profondità di pensiero con una altrettanto straordinaria leggerezza di immagini: queste sono, dunque, grandi poesie.
La più nota, anche per una citazione che ne fa Harold Bloom nel volume The Art of Reading Poetry, è The Rhodora (Il Rododendro). L’ho letta qualche anno fa, ma ne sono rimasto particolarmente colpito quando l’ho riletta nel febbraio scorso, perché, nel frattempo, inaspettatamente e troppo precocemente, fiorivano nel mio giardino tre piante di rododendro. Così mi è venuta voglia di tradurla. Con il risultato che tutti potete leggere qui sotto.

Ralph Waldo Emerson, The Rhodora, On being asked, whence is the flower (Da Early Poems of Ralph Waldo Emerson. New York, Boston, Thomas Y. Crowell & Company, 1899, prima ed. 1847)


In May, when sea-winds pierced our solitudes,
I found the fresh Rhodora in the woods,
Spreading its leafless blooms in a damp nook,
To please the desert and the sluggish brook.
The purple petals fallen in the pool
Made the black water with their beauty gay;
Here might the red-bird come his plumes to cool,
And court the flower that cheapens his array.
Rhodora! if the sages ask thee why
This charm is wasted on the earth and sky,
Tell them, dear, that, if eyes were made for seeing,
Then beauty is its own excuse for Being;
Why thou wert there, O rival of the rose!
I never thought to ask; I never knew;
But in my simple ignorance suppose
The self-same power that brought me there, brought you.


Traduzione di Michele Tortorici, Il Rododendro
A chi mi ha chiesto da dove viene questo fiore


In maggio, quando i venti dal mare venivano
a trafiggere le nostre solitudini, trovavo
il rododendro che, appena sbocciato, nei boschi
sprigionava la nudità dei suoi fiori da un canto
umido per appagare di sé l’abbandono
di quel luogo e il corso lento
del ruscello. I petali viola caduti
nello stagno con il loro incanto facevano
allegra l’acqua torbida; qui sarebbe potuto venire
il cardinale rosso a rinfrescare
le sue piume e a corteggiare il fiore
che fa apparire così dimesso il suo vestito.
Rododendro! Quando i saggi ti domanderanno perché
questo fascino
è come buttato via sulla terra e nel cielo,
tu dirai loro, caro, che, se gli occhi
sono stati fatti per vedere, allora
la bellezza ha in sé la sua ragione
per Essere; perché eri là, tu, rivale
della rosa! Io non ho mai pensato
di chiederlo; io non l’ho mai saputo;
ma nella mia inettitudine immagino
che la stessa identica forza ha portato
qui me e ha portato anche te.


La speranza fallace: da Cavalcanti a Petrarca [III]

Nel precedente intervento sulla Speranza fallace ho fatto notare come in Cavalcanti la contiguità di queste due parole, per il contesto in cui si trovano (la canzone xxxiv) e per il senso che esse assumono nell’insieme delle sue rime, possa dare luogo a una terribile ambiguità: che la fallacia sia un carattere proprio non solo della “speranza” concepita come sentimento umano, ma anche (qui aggiungo: soprattutto?) della virtù teologale della “Speranza”. Avevo anche notato che nessuno dei poeti stilnovisti contemporanei del Cavalcanti usa insieme queste due parole e che invece sarà Francesco Petrarca a riprendere in non poche occasioni l’espressione cavalcantiana.

Perché i contemporanei stilnovisti non fanno questa scelta e Petrarca sì? Ci sono almeno due motivi che spiegano questa differenza.

Il primo è di carattere generale. Per i poeti stilnovisti l’amore è un’esperienza totalizzante. È il qui e l’altrove. Si colloca al di qua e al di là del limite umano, in terra e in cielo. Solo in un contesto di questo tipo Beatrice può essere per Dante una figura cristologica, la sua morte può essere rappresenta nella Vita nova con la stessa ambientazione – e gli stessi effetti – di quella di Cristo e lei stessa può assumere nella Commedia un preciso ruolo di salvatrice, di conduttrice sulla via della salvezza: se il contesto fosse stato diverso, si sarebbe trattato di una serie di bestemmie. Da qui anche il carattere assolutamente peculiare delle sofferenze d’amore di Guido Cavalcanti. Anche per lui si tratta di un’esperienza totalizzante: ma, per lui, non c’è altrove, non c’è cielo e il limite dell’uomo non ha un al di là: sta tutto nella sua fisiologia tante volte sottolineata nei versi di Guido.
Per Francesco Petrarca (qui sopra in un ritratto di Altichiero da Verona conservato nell’Oratorio di San Giorgio di Padova) l’amore è un’esperienza decisiva per lo stabilirsi del rapporto dell’uomo con l’assoluto, ma non è questo rapporto, non lo conclude, non lo esaurisce nella sua totalità. La donna che Petrarca ama non potrebbe mai essere assimilata a Cristo (e la sua morte è difatti descritta nei Triumphi in termini solo umani); Laura si colloca al livello più alto possibile del limite terreno, ma dopo la morte, in cielo, è una beata come gli altri. Le sofferenze d’amore di Petrarca sono dunque legate al sentire come traviamento l’amore per una donna che non ha nulla a che vedere con Cristo, anche se, dopo la sua morte, il poeta la benedirà per aver affrenato la sua «empia voglia ardente» e averlo così condotto «a miglior riva» (son. ccxc).

Il secondo motivo è di carattere particolare. A chi ascolta le sue rime, a chi ascolta «il suono / di quei sospiri … » Petrarca spiega subito, nel sonetto proemiale, che le sue speranze, proprio per l’oggetto in cui erano state riposte, sono state «vane»: anzi in questo carattere dell’essere vane, che appartiene alle prospettive umane del poeta e ne definisce i contorni, sta il senso più profondo del sonetto che apre il Canzoniere. Qui non sono possibili ambiguità: è il Francesco uomo, è il Francesco terreno che ha avuto, per sua scelta, «vane speranze». Nella profondità della figura etimologica che lega le «vane speranze» e «’l van dolore» del v. 6 al «mio vaneggiar» del v. 12 si immerge «quanto piace al mondo», qui, sulla terra. Il cielo è un’altra cosa.

Nessuna ambiguità è più possibile. Petrarca può quindi associare i due termini, “speranza” e fallace”, senza nessun problema: difatti, essi compaiono in contiguità ben più di quanto sia accaduto in Cavalcanti. Segno forte, se ve ne fosse necessità, di quanto pesi la lettura di Cavalcanti su Petrarca, ma anche della disinvoltura con la quale quest’ultimo può ora trattare la difficile convivenza di questi due termini.

Delle cinque occasioni nelle quali “speranza” e “fallace” appaiono insieme (si tratta sempre di sonetti), una, quella del son. xxi, non rientra nella analisi che sto facendo: Petrarca vi dice semplicemente che, se un’altra donna spera di avere il suo cuore, «vive in speranza debile e fallace» (v. 6). Il son. xxi non rientra in questa analisi, ma costituisce la prova più lampante di quella ‘disinvoltura’ della quale parlavo prima: potrebbe sembrare, se non ci fossero gli altri esempi, che per Petrarca associare questi due termini costituisse una pratica espressiva quasi di routine, un cavalcantismo di maniera.

Ma, per l’appunto, ci sono gli altri esempi. E in tutti lo “sperare fallace” è la dimostrazione degli effetti del «vaneggiar» del primo sonetto. Il son. xxxii fa – verrebbe da dire – il punto della situazione:


 Quanto più m’avicino al giorno estremo
che l’umana miseria suol far breve,
più veggio il tempo andar veloce e leve,
e ‘l mio di lui sperar fallace e scemo.
 I’ dico a’ miei pensier: – Non molto andremo
d’amor parlando omai, ché ‘l duro e greve
terreno incarco come fresca neve
si va struggendo; onde noi pace avremo:
 perché co llui cadrà quella speranza
che ne fe’ vaneggiar sì lungamente,
e ‘l riso e il pianto, e la paura e l’ira.
 Sì vedrem chiaro poi come sovente
per le cose dubbiose altri s’avanza,
e come spesso indarno si sospira.


La considerazione che lo sperare nel tempo umano sia uno sperare «fallace e scemo» è qui accompagnata infatti all’evidente richiamo, nei versi 9 e 10 al «vaneggiar» del sonetto proemiale. I conti, dunque, tornano: chi ripone la propria speranza in ciò che ha i caratteri propri del limite umano vaneggia (fa cioè una cosa del tutto vana, vuota, inutile) e di conseguenza rende, per propria responsabilità, quella speranza «fallace», lascia che quella speranza lo inganni. Tutto ciò fa diventare evidentissima quella separazione tra l’al di qua e l’al di là del limite che ho sottolineato come differenza di fondo tra l’esperienza d’amore petrarchesca e quella stilnovistica.

Lo stesso si può dire del son. xcix, rivolto a un amico che, insieme al poeta, ha provato «come ’l nostro sperar torna fallace» (v. 2): Leopardi, nel suo commento petrarchesco, annota: «riesce vano, ingannevole» e dunque collega anche lui la fallacia della speranza con il «vaneggiar» del primo sonetto (ma sul modo in cui Leopardi utilizzerà il lessico petrarchesco per descrivere la propria idea della speranza tornerò presto in una breve appendice a questi interventi).

Una più tormentata atmosfera avvolge invece i sonetti ccxc e ccxciv. Dopo la morte di Laura il contrasto tra ciò che il poeta aveva – erroneamente e vanamente – sperato e la sua provvidenzialmente mancata realizzazione rende la fallacia di quello sperare particolarmente dolorosa. Non poteva infatti essere altrimenti: «o speranza, o desir sempre fallace» (v. 5) scrive il poeta nel sonetto ccxc. E quel «sempre» non lascia dubbi. La speranza di un bene collocato entro il limite terreno è «sempre fallace». Per cui, come abbiamo visto prima, «benedetta colei» che, proprio con il suo non portare a realizzazione la speranza del poeta, con il suo confermare la necessaria fallacia di quella speranza, lo ha condotto «a miglior riva». E nel sonetto ccxciv il contrasto tra il desiderio di ciò che è terreno e la sua giusta – ma non per questo meno penosa – mancata realizzazione ha il suono non di un sospiro, ma di un grido nei tre versi finali:


 Veramente siam noi polvere et ombra,
veramente la voglia è cieca e ‘ngorda,
veramente fallace è la speranza.


Anche qui il «veramente», rafforzato – come un grido, appunto – dall’anafora, non lascia dubbi. È l’ultima volta che Petrarca pone in contiguità queste due parole nel Canzoniere (nei Triumphi non usa mai l’aggettivo “fallace”) e sembra quasi che voglia, quest’ultima volta, rafforzare il suo avvertimento. Non c’è speranza terrena; non c’è speranza che posi su beni terreni. Eppure, se non avessimo letto i precedenti 293 componimenti del Canzoniere e se non ci disponessimo a leggere i successivi 72, proprio quest’ultimo avvertimento potrebbe colorarsi della terribile ambiguità cavalcantiana.

Naturalmente, non si tratta di questo. Ma una cosa è certa: non si trattava di un cavalcantismo di maniera.

La speranza fallace: da Cavalcanti a Petrarca [II]

Nel mio precedente intervento su questo tema ho parlato della visione che Guido Cavalcanti ha della speranza: nei suoi confronti Guido ha una profonda diffidenza; addirittura, vorrebbe che fosse morta, perché – come scrive chiaramente nella canzone La forte e nova mia disaventura – ha capito che essa nei suoi confronti è stata «fallace», cioè non ha mantenuto le promesse.

Il fatto è che la speranza ha per Guido Cavalcanti una sorta di vizio all’origine. Nel senso proprio del termine: la speranza ha il vizio di ingannare, è corrotta, è pronta a far male. L’uomo cerca, attraverso di essa, di dare un senso al futuro che è nel suo orizzonte e lei gli si offre, sì, ma per tradirne le aspettative in maniera risolutiva e, dunque, “estrema”, finale.

«Quando si vive senza speranza l’ultima cosa da fare è perdere la speranza» fa affermare Alicia Giménez-Bartlett a un personaggio del suo romanzo Dove nessuno ti troverà. Guido avrebbe potuto rovesciare quel motto, se lo avesse conosciuto: la prima cosa da fare per vivere è perdere la speranza, non avere speranza. Averla è infatti accettare un inganno che può magari inizialmente consolare, ma che, in definitiva, sottrae all’uomo l’energia spirituale che lo fa vivere. La speranza è, infatti, per sua natura, «fallace». Per questo il poeta “non spera” o “dispera”.

Guido Cavalcanti tra le arche. Illustrazione della novella VI,9 del Decameron.
Disegno a penna e acquerello nel ms. It. 63, c. 203 v, Bibliothèque Nationale, Parigi

Nessuno dei contemporanei di Guido ha una visione così totalmente “disperata”. Una visione nella quale l’inaccessibilità della donna stilnovistica si identifica con l’inaccessibilità del futuro. E nessuno, infatti, la esprime in termini così forti. In termini – aggiungo – che portano in sé una terribile ambiguità: la speranza non è infatti soltanto un sentimento umano, è la più umana (se così si può dire) delle virtù teologali. Tra queste, è quella che consente all’uomo di vedere, ben più del futuro che è nel suo orizzonte, quello che è al di là di quel limitato orizzonte. La virtù della Speranza è quella che fa vedere all’uomo il suo limite e, al tempo stesso, gli si offre come lo strumento per superarlo. Se questa Speranza fosse «fallace» l’idea stessa di salvezza eterna sarebbe un incommensurabile inganno. Ambiguità terribile. Ma Guido Cavalcanti era un uomo che si prendeva terribilmente sul serio. E che nello scrivere d’amore, identificato – come abbiamo visto – con lo scrivere dell’esistenza, affermava quell’«altezza d’ingegno» (o almeno: quella volontà di «altezza d’ingegno») che costituiva la manifestazione esterna di quel suo prendersi sul serio. Il limite che l’uomo vede non è superabile: questo vede l’ingegno alto. Pertanto, la speranza/Speranza non può non essere «fallace».

Nessuno dei suoi contemporanei può permettersi questa ambiguità; anzi non ardisce nemmeno di pensarla. E nessuno, difatti, associa mai l’aggettivo «fallace» al sostantivo speranza. Lo farà invece, e con assoluta disinvoltura, Francesco Petrarca. Nel prossimo intervento su questo tema cercherò di spiegare come e perché.

La speranza fallace: da Cavalcanti a Petrarca [I]

Tempo fa ho descritto, in un breve saggio, il maturare della concezione della speranza in Leopardi tra le Operette del 1824 e i Grandi idilli. Per farlo ho seguito gli indizi lasciati dal poeta nel commento al Canzoniere petrarchesco da lui compiuto nel 1825 e poi pubblicato a Milano nel 1826 dall’editore Stella. Il mio saggio, Errori, inganni e un tradimento. Leopardi dal commento al ‘Canzoniere’ petrarchesco ai ‘Grandi Idilli’, è uscito in “Civiltà dei Licei”, Anno V (1998), 7. Ora voglio percorrere un cammino che, alla fine, porterà ugualmente a Leopardi, ma che partirà da un punto ancora antecedente rispetto al Canzoniere. Voglio infatti soffermarmi in particolare sul rapporto che, a proposito della concezione della speranza, intercorre tra Petrarca e Guido Cavalcanti.
Già, Cavalcanti. Anche chi lo conosce appena ha letto di lui almeno la ballata Perch’i’ no spero di tornar giammai. In questa stupenda poesia la speranza, anzi la ‘non speranza’, a partire dal primo verso, è il filo conduttore di una visione del futuro nella quale l’accettazione della morte, vista come vicina e probabile, costituisce la condizione di un rapporto d’amore situato fuori da ogni dato temporale. In questa ballata Cavalcanti si colloca, rispetto alla propria vita, in un punto di osservazione che possiamo considerare ‘estremo’. Se vogliamo quindi studiare i caratteri non ‘estremi’ propri della sua visione su questo tema, è opportuno cercare, tra le sue rime, antecedenti diversi, punti di osservazione – per così dire – intermedi, luoghi dove la ‘non speranza’ sia descritta nello scorrere della vita e non nella prossimità della morte. Di questi luoghi non è difficile trovarne: se ne possono contare quattro nei quali la ‘non speranza’ sia rilevata attraverso precise occorrenze lessicali e non soltanto intravista attraverso generici riscontri concettuali.
Nel sonetto V, Li mie’ foll’ occhi, che prima guardaro, coloro che, come il poeta, si dolgono di Amore gli dicono: «Fatto se’ di tal servente, / che mai non déi sperare altro che morte». Nella Canzone IX, Io non pensava che lo cor giammai, è addirittura Amore stesso che dice al poeta, con espressione inusitata, ma efficacissima: «I’ ti dispero», cioè ‘ti rendo disperato’, ‘ti tolgo ogni speranza’. Nel sonetto XXXIII, Io temo che la mia disaventura, quasi in risposta alla dichiarazione di Amore, è il poeta stesso che dice, modificando di poco l’espressione della Canzone IX, «I’ mi dispero»: il sonetto si apre proprio con il poeta che dichiara di aver paura di non poter dire altro di sé se non «I’ mi dispero». Nella canzone XXXIV, infine, La forte e nova mia disaventura, che riprende e amplia il tema del sonetto precedente, Cavalcanti, a proposito della Fortuna, dice che «[…] à volta Morte dove assai mi spiace, / e da speranza, ch’è stata fallace»: la Fortuna, cioè ha fatto sì che la Morte si rivolgesse al suo cuore (dove assai mi spiace) e non alla speranza, che era stata ingannevole. Proprio perché era stata ingannevole, per il poeta sarebbe stato meglio che la Morte si fosse rivolta verso di lei. Leggiamo questa canzone.

Guido Cavalcanti, La forte e nova mia disaventura


La forte e nova mia disaventura
m’à desfatto nel core
ogni dolce penser ch’i’ avea d’amore.

Desfatta m’à già tanto de la vita
che la gentil piacevol donna mia
de l’anima destrutta s’è partita
sì ch’i’ non veggio là dov’ella sia.
Non è rimaso in me tanta balìa
ch’io de lo su’ valore
possa comprender nella mente fiore.

Ven, che m’ancide, un sottil pensero
che par che dica ch’i’ mai no lla veggia:
quest’ò tormento disperato e fero,
che strugg’e dole e ’ncende ed amareggia.
Trovar non posso a cui pietate cheggia,
mercé di quel segnore
che gira la fortuna del dolore.

Pieno d’angoscia, i’lloco di paura
lo spirito del cor dolente giace
per la Fortuna che di me non cura,
ch’à volta Morte dove assai mi spiace,
e da speranza, ch’è stata fallace:
nel tempo che ssi more
m’à fatto perder dilettevole ore.

Parole mie disfatt’e paurose,
là dov’e’ piace a voi di gire andate;
ma sempre sospirando e vergognose
lo nome de la mia donna chiamate.
Io pur rimagno in tant’aversitate
che qual mira de fore
vede la Morte sott’al meo colore.


In tutti i luoghi che ho citato la speranza non appare mai in una frase positiva: il poeta dice ‘non spero’ o, che è lo stesso, ‘dispero’. Ed è in questa canzone XXXIV che noi troviamo il motivo di una così coerente negazione della speranza: il motivo è interno alla speranza stessa, in quel carattere qui definito da Guido con un aggettivo che nessuno dei suoi contemporanei, che io sappia, usa o usa in questo modo.
L’unico a usarlo più volte è Dante. Ma non lo usa mai con questo senso e mai lo associa alla speranza.
Nel Fiore (XVI, 14), usato come aggettivo sostantivato, ha il senso di ‘ingannatore’ e il sostantivo plurale «fallacie» (sempre al plurale e sempre scritto, originariamente, ‘fallace’) è usato come sinonimo di ‘inganni’; nella Vita nuova è usato due volte nel cap. XXIII (§ 15 e Canz. Donna pietosa e di novella etate, 65), sempre associato a «imaginar» e dunque con il senso di ‘ingannevole’; nel Convivio (IV, xii, 18) «fallacissimo» e «fallace» sono contrapposti a «veracissimo» e «verace» e quindi hanno il senso di ‘falsissimo’ e di ‘falso’; nella Commedia l’aggettivo “fallace” appare una volta nell’Inferno (XXXI, 56) e due volte nel Paradiso (X, 125 e XV, 146), nel primo caso associato a «cose», negli altri due associato a «mondo», sempre con il senso di ‘destinato a finire’, carattere proprio di ogni bene terreno (e quindi del mondo terreno nel suo insieme) in contrapposizione al carattere eterno dei beni celesti.

Si può ben dire che, a parte «Lo imaginar fallace» di Donna pietosa e di novella etate, 65, questo aggettivo non faccia parte del lessico lirico dei contemporanei di Cavalcanti.
Meno che mai ne fa parte con il senso che Cavalcanti gli attribuisce, che è un senso preciso e appare dunque per la prima volta nel panorama della poesia d’amore italiana. Il senso è ‘che non mantiene le promesse’. La speranza è «fallace» così come lo sono i beni terreni, ma con una differenza sostanziale. La fallacia dei beni terreni deriva da una errata visione umana, deriva dal fatto che gli uomini credono di poterli possedere indefinitamente e invece essi sono ‘destinati a finire’. Nella prospettiva cavalcantiana, la speranza è «fallace», se così è possibile dire, di sua iniziativa. Non c’è errore umano nella visone della speranza. La speranza è un errore.
Nel prossimo intervento vedremo come questa prospettiva, dopo Cavalcanti, venga fatta propria da Francesco Petrarca.

Ritorno a Berlino: Bebelplatz

Quattro anni fa, nel luglio del 2007 sono stato a Berlino per la prima volta. Ed è stato amore a prima vista per una città straordinaria che si ricostruiva e che intanto costruiva una propria immagine tanto nuova quanto pervasa di memoria.
Più di tutto mi aveva colpito il modo in cui spesso la Berlino del dopo-89 presentava questa memoria: non grandi monumenti, non qualcosa che si innalzava davanti al cittadino o al visitatore, ma qualcosa che, invece, si collocava al livello dei suoi passi. Sì, la memoria faceva parte del nuovo volto di questa città in modo originalissimo perché chi percorreva le sue strade o le sale dei suoi musei ci camminava sopra.
Chi segue quello che scrivo, conosce I segnalibri di Berlino, una raccolta di quattro poesie uscita poi nel 2009 che parla appunto di questo. Mi permetterete di fare una citazione da questo libro:


Dove camminiamo, su queste strade lucide, lo vedi
anche tu, ci sono a volte incise sopra liste
di metallo parole
che alla pioggia brillano più
di quanto potrebbero brillare al sole e tutto
intorno senti che prega la terra per far sì
che non si volti chi passa e faccia finta
di non avere visto.

Qui, ora
dove camminiamo
ci sono solo due parole incise, die Mauer,
e attraversano le strade dove passava fino
all’Ottantanove il Muro. Sulla piazza
con il suo nome, frasi di Rosa Luxemburg di pace
sono incise su altre lunghe liste a fianco
dei giardini che tigli
giovani coprono all’uscita
della U-Bahn.

Dove camminiamo, qui a Berlino i nostri passi sono
improvvisati segnalibri, linee
tracciate con la matita sotto righe che
chi ha scritto
ha scritto per far dire alla terra una preghiera
per non farci voltare e fare finta
di non avere visto.


Nella poesia ricordavo anche la sala dello Jüdische Museum, quella dove si trova l’installazione detta “Schalechet” o “Gefallenes Laub” (Foglie cadute) realizzata da Menashe Kadishman in uno dei grandi spazi vuoti che l’architetto Daniel Liebeskind ha lasciato all’interno del Museo per simboleggiare l’assenza degli ebrei dalla società tedesca. In questa sconvolgente installazione le “foglie cadute” non sono altro che vere e proprie maschere umane realizzate in metallo: chi percorre lo spazio dall’inizio alla fine e ritorno sente sotto i propri piedi queste maschere stridere tra loro con l’effetto di veri e propri urli. Ancora una volta, la memoria richiedeva non di osservare un monumento, ma soltanto di camminare.

Qualche mese dopo, nel corso di una mostra a Roma, parlavo di questo carattere forte di Berlino con la scultrice Yvonne Ekman e lei mi ha mostrato una sua opera, Bebelplatz 1933 che rievocava il rogo dei libri perpetrato dai nazisti in quella piazza nel maggio di quell’anno. Mi ha anche detto che, se fossi tornato a Berlino, nella attuale Bebelplatz avrei trovato un altro “segnalibro”: una installazione realizzata da Micha Ullman consistente in una buca quadrata ricoperta da una lastra trasparente e con le pareti ricoperte di librerie vuote.

Naturalmente, quando qualche settimana fa sono tornato a Berlino, andare a Bebelplatz è stata una delle prime cose che ho fatto. Ed è stata un’altra esperienza straordinaria e di fortissimo impatto emotivo.
Ancora una volta, la nuova Berlino offre la memoria ai passi che fai, richiede la tua attenzione per i luoghi dove cammini, luoghi che rende sacri con modifiche apparentemente piccole. La piazza, che fiancheggia Unter den Linden, subisce in questo periodo il non gradevole effetto del cantiere per il restauro della Staatsoper, ma quando ci si avvicina a quella piccola buca per terra, tutto il resto scompare. Ci si può solo inginocchiare e unirsi a quella preghiera silenziosa che viene dalla terra. A fianco del “Denkmal zur Erinnerung an die Bücherverbrennung” (“Memoriale per il rogo dei libri”) ancora due “segnalibri”: due targhe di metallo con la citazione di due versi tratti dalla tragedia Almansor (1821) di Heinrich Heine: «Das war ein Vorspiel nur, dort wo man Bücher / Verbrennt, verbrennt man auch am Ende Menschen» [Questo era solo il prologo, dove i libri / si bruciano, si bruciano alla fine anche le persone].
Inutile aggiungere altro, se non rinnovare la mia dichiarazione di amore a Berlino.

Che cosa fa la poesia? [5]
La conclusione

Nei precedenti interventi su questo tema (qui l’ultimo) sono partito da una analisi dei primi versi della Teogonia di Esiodo, ho cercato di chiarire perché credo inopportuno porre la domanda “che cosa è la poesia?” e perché è invece importante e produttivo domandarsi che cosa fa la poesia. Ho infine cercato di dare una risposta a questa domanda e ho sostenuto che la poesia fa soprattutto tre cose. La prima: la poesia fa il disvelamento di ‘ciò che è’ nel suo dispiegarsi lungo il tempo; la seconda: la poesia fa un cambiamento della coscienza di chi la fruisce producendo in lui uno shock positivo (“meraviglia”): nell’esperienza del poeta – ho scritto – il θαύμα (questo ‘shock positivo’ o ‘meraviglia’) è la reazione a un non sapere: una reazione che produce, comunque, un disvelamento del vero; in chi fruisce il testo poetico il θαύμα è la reazione a un non capire che produce, a sua volta, un disvelamento del vero significato attraverso un vero e proprio scuotimento della coscienza di fronte alla congenita “strangeness” (‘stranezza’, ‘originalità’) che il testo poetico possiede.

Faccio notare, per cominciare questa mia conclusione e per avviare il discorso sulla terza cosa che fa la poesia, che ho usato la parola “fruitore” e non “lettore” a proposito di chi gusta un testo poetico. A conclusione di questo intervento preciserò meglio il mio pensiero parlando di “esecutore”. In ogni caso, voglio sottolineare di nuovo qui un concetto importante dal quale sono partito e che riguarda il modo in cui Esiodo parla delle Muse nei primi versi della sua Teogonia: la poesia fa quello che fa con il suono delle parole.
Questo suono, come tutti sanno e sentono, è disposto, è organizzato, in modo diverso che nella prosa. Precisamente, come diceva un mio alunno quando molti anni fa insegnavo al liceo “Peano” di Roma, a differenza dei prosatori, «i poeti vanno a capo quanno je pare», quando cioè – traduco io – è richiesto dalle necessità strutturali o di altro genere del loro discorso. Seppur viziata da un forte accento romanesco con venature della zona di Tor Marancio, questa affermazione di un ragazzo che univa l’intelligenza a un’ottima capacità di osservazione si può considerare una sintesi – audace forse, ma certamente fedele – di quanto l’estetica contemporanea è venuta maturando nel corso del Novecento a proposito del carattere precipuo della poesia.
La specificità della poesia rispetto alla prosa è stata infatti individuata nella possibilità dell’enjambement, possibilità che la prima possiede e che la seconda invece non può proprio avere. In un intervento del 1995 (La fine del poema, oggi in Categorie italiane, Roma-Bari, Laterza, 2010), Giorgio Agamben fa dell’enjambement il fondamento di una vera e propria «opposizione» del suono al senso, «di un limite metrico a un limite sintattico», e altrove (Corn, saggio inedito pubblicato anch’esso in Categorie italiane, cit.) lo stesso Agamben precisa che «in ogni enunciato poetico […] il discorrere della lingua in direzione del senso è come percorso in controcanto da un altro discorso, che va dall’intelligenza alla parola, senza che nessuno dei due compia mai il suo intero tragitto per riposarsi l’uno nella prosa e l’altro nel puro suono». E, come ricorda lo stesso Agamben, Paul Valéry non aveva forse visto nella poesia una «hésitation prolongée entre le son et le sens»?

Il ποιὲιν, il fare della poesia, è dunque un lottare continuo del suono col senso, un lottare del ‘verso che finisce’ contro il ‘sintagma che continua’, ma anche, per esempio, dell’unità di senso del periodo contro le unità di suono determinate dai fascinosi richiami sonori della rima.
Ecco dunque la terza cosa che fa la poesia: nel suo esitare, nel suo andare e riandare tra il suono e il senso, affida a chi fruisce il testo poetico, una decisione da prendere, più di un percorso da seguire e, dunque, una scelta da compiere, a ogni verso.

Queste tre cose che la poesia fa hanno una loro coerenza. È evidente. La poesia disvela ‘ciò che è’ (ma non dimentichiamoci che “nomina”, in primo luogo, ‘ciò che è’: vedi qui) mettendo l’essere in rapporto con il tempo attraverso il suono delle parole. Nel far questo determina significati che, per la loro ‘strangeness’, esercitano sulla coscienza continui shock e che con quello stesso suono entrano in costante conflitto. La poesia è un andare e riandare dal suono all’essere al tempo, dal θαύμα del poeta a quello del fruitore, dal suono al senso e dal senso al suono. E la nostra coscienza, in questo andare e riandare, trova occasioni di crescita e di esercizio di libertà, come in nessun’altra attività umana di fruizione di un oggetto culturale.

Tutto questo comporta una conseguenza della quale noi lettori moderni spesso non siamo consapevoli.
A proposito di chi legge poesia, ho usato in questo mio intervento conclusivo la ambigua parola “fruitore”. Ora preciso meglio il concetto. Chi fruisce un testo poetico, a differenza di chi legge qualsiasi altro testo che usi il linguaggio verbale, si trasforma, ipso facto, da ‘lettore’ in ‘esecutore’. Uso questa parola nel senso in cui viene usata per indicare chi esegue con uno strumento, con un gruppo o con un’orchestra il brano di un musicista. Naturalmente ci sarà l’esecutore dilettante e il professionista. Il primo, il dilettante, sarà il lettore comune, assimilabile a chi suona (ma dico “suona” e non “strimpella”) uno strumento per proprio diletto, e il secondo, il professionista, sarà – attenzione – non il critico, ma l’attore, assimilabile al concertista, al gruppo da camera, a un’intera orchestra. E in questo secondo caso ci sarà anche un pubblico di veri e propri ‘ascoltatori’, cioè di fruitori della poesia detta, cioè eseguita, da altri.

Il fatto è che – vi avevo detto che avremmo finito da dove avevamo cominciato – la fruizione della poesia non consiste nella lettura con gli occhi su una pagina scritta, così come la fruizione di un brano musicale non consiste davvero – neanche per lo studioso e l’esperto – nella lettura con gli occhi di uno spartito. Le parole della poesia non devono essere lette, devono essere fatte suonare.

Facciamo suonare le parole della poesia e, allora sì, daremo una bella scossa alla nostra coscienza.

Che cosa fa la poesia? [4]
Oltre Esiodo: vi dico io che cosa fa

Nei precedenti interventi (qui l’ultimo) ho affrontato questo tema a partire da Esiodo e poi ho cercato di spiegare che cosa secondo me fa la poesia. Ho anticipato che io credo che la poesia faccia tre cose e ho cominciato a parlare della prima, che si può sintetizzare così: attraverso il suono della parola, la poesia fa il disvelamento di ‘ciò che è’ nel suo dispiegarsi lungo il tempo; ho anche precisato che, di conseguenza, fa il disvelamento della contraddizione insanabile tra il tempo e ciò che è e che, anzi, il ποιητής precipita volutamente dentro questa contraddizione e lo fa confondendosi con il mito, con l’immagine (una delle possibili immagini) di «ciò che è e ciò che è stato» e, quindi, prestando al mito, dall’interno, il suono della sua parola. Ho anche appena accennato a quella che io credo sia la seconda cosa che fa la poesia: traducendo in modo provvisorio e approssimativo il verbo greco θαυμάζειν, ho scritto che la poesia fa meravigliare. E da qui riprendiamo il discorso per portarlo vicino alla conclusione (ci vorrà una quinta puntata per concluderlo, ma siate pazienti).

A scuola ci hanno insegnato a sorridere sui versi di Giambattista Marino secondo i quali


È del poeta il fin la meraviglia:
parlo dell’eccellente, non del goffo;
chi non sa far stupir vada a la striglia.


Per la verità io non rido affatto di questi versi. Intanto so che, per capirli bene, bisogna collocarli correttamente all’interno di un attacco portato dal Marino nei confronti di un collega che faceva stupire troppo. E poi mi sembra che qui non si dica in realtà niente di diverso rispetto a quanto viene percepito dal senso comune di tutti i lettori di poesia: e cioè la divergenza, appunto, del poeta dal senso comune stesso, il suo usare immagini sempre nuove (o, se immagini vecchie, comunque con sensi nuovi).
Questa cosa che il poeta fa è quella stessa che il Trattato del Sublime chiama, a proposito dell’arte oratoria, il συνενθουσιάν, cioè “l’entusiasmarsi insieme” [dell’ascoltatore e dell’oratore], il determinare una contagiosa atmosfera di meraviglia.

Di recente Harold Bloom ha ripreso a questo proposito un concetto elaborato da Owen Barfield nel 1928, quello di «strangeness of meaning» (‘stranezza di significato’), cioè «the quality of being unusual, unexpected or difficult to understand» (‘la qualità che consiste nell’essere non usuale, inaspettato o difficile da capire’). Questa “strangeness”, sottolinea Barfield, forse preoccupato di essere considerato un erede del Marino, «non ha relazione con ‘meraviglia’, perché ‘meraviglia’ è la nostra reazione a cose che noi siamo consapevoli di non comprendere pienamente o comunque di comprendere meno di quanto ci saremmo aspettati. L’elemento della stranezza nella bellezza ha l’effetto contrario. Scaturisce da un contatto con un tipo di coscienza differente da quello che ci è proprio, differente e tuttavia non così remoto che noi non possiamo in parte condividerlo, come necessariamente implica, in una tale connessione, la semplice parola “contatto”. «Strangeness», infatti, suscita meraviglia quando noi non comprendiamo. Immaginazione estetica quando comprendiamo» (Poetic Diction, 1928).

La poesia – dice dunque Barfield – fa, produce, un «avvertito, percepito cambiamento della coscienza» e questo percepito cambiamento della coscienza deriva dal tentativo di apprendere il significato del testo poetico nonostante la «strangeness of meaning». Questo «percepito cambiamento della coscienza» avviene in modo molto simile al «comune entusiasmo» che, in certi casi, come abbiamo visto, può legare, secondo Il Sublime, l’oratore e l’ascoltatore e costituisce una sorta di trasferimento del θαύμα (meraviglia) dall’esperienza del poeta in quella dell’ascoltatore. Nell’esperienza del poeta il θαύμα è la reazione a un non sapere: una reazione che produce, comunque, un disvelamento del vero. Nell’ascoltatore è la reazione a un non capire: e anche in questo caso – qui il contributo di Barfield si rivela essenziale – produce, possiamo dire, un disvelamento del vero significato del testo poetico attraverso uno shock di fronte alla sua congenita “strangeness”.

Ho introdotto questa qualifica di congenita per preparare il terreno alla terza cosa che fa la poesia. Ma questo sarà l’argomento della quinta e ultima “puntata” di questo mio intervento.