Una poesia di Saba per capire come è (o dovrebbe essere) cambiato
l’immaginario della donna per gli uomini del ventesimo e del ventunesimo secolo
«Che ciascuno di noi faccia qualcosa, perché la somma di questo fare è un grande valore» ha detto Oscar Luigi Scalfaro nell’invitare a sostenere l’appello di Libertà e Giustizia per le dimissioni del Presidente del Consiglio. Ho aderito all’appello, considero giusto e importante quello che ha detto Scalfaro e faccio l’unica cosa che so fare bene. Parlare di letteratura, anzi di poesia. E cercare, così, di capire quello che succede.
Sono passati poco più di cento anni da quando Umberto Saba ha scritto le poesie della piccola raccolta Casa e campagna. Appena cinque poesie scritte tra il 1909 e il 1910 e, tra queste, una che lo stesso Saba riconosce essere la sua più nota e comunque – aggiunge parlando di sé in terza persona nella Storia e Cronistoria del Canzoniere – «se di questo poeta si dovesse conservare una sola poesia, noi conserveremmo questa».
Si tratta della poesia A mia moglie.
Umberto Saba, A mia moglie
Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio.
Così, se l’occhio, se il giudizio mio
non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun’altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.
Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la sua carne.
Se l’incontri e muggire
l’odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l’erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t’offro quando sei triste.
Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d’un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.
Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l’angusta
gabbia ritta al vederti
s’alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?
Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest’arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere:
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un’altra primavera.
Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l’accompagna.
E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun’altra donna.
Anche in questa poesia così “nuova” rispetto alla tradizione italiana Saba subisce tutti gli stereotipi sulla donna propri del suo tempo, in particolare quello della devozione. Ma fa qualcosa che nessun poeta aveva mai fatto. Strappa il velo angelico che dallo stilnovo in poi la poesia colta italiana aveva posto sulla donna – esaltandola, ma al tempo stesso travisandola – e dichiara che lei avvicina a Dio per se stessa, come «tutte / le femmine di tutti / i sereni animali». Non perché è un angelo, insomma, ma perché è una donna, perché appartiene al regno degli esseri “viventi”, prima ancora che “umani” (il «genus omne animantum» del Proemio del De rerum natura di Lucrezio). È nella donna stessa, nel suo fisico “essere viva”, la sua capacità di relazione con l’assoluto.
Che cosa cambia, con ciò?
Dal punto di vista della storia letteraria va a rotoli una plurisecolare tradizione tipicamente italiana che aveva separato l’immagine della “donna poetica” (e la lingua con la quale questa immagine veniva rappresentata) da quella della “donna vera”, in carne e ossa. Non che qualcosa non si fosse mosso anche prima: la donna di A se stesso, in Leopardi, è ben diversa dalla «donzelletta» del Sabato del villaggio. E, nel Natale del 1833, il Manzoni si ribella addirittura con violenza a quell’assoluto (il Dio cristiano, per lui) che ha consentito il venir meno della presenza fisica della moglie Enrichetta dal suo fianco (leggi qui). Ma sono episodi. Piccoli vortici. La corrente andava in un’altra direzione. Ora, con Saba, la corrente viene deviata da una diga. La poesia A mia moglie fa scandalo. La moglie stessa di Saba, in un primo momento, se ne offende. Benedetto Croce la legge con orrore e rimprovera a Saba (senza degnarlo di una lettera, ma scrivendogli una cartolina postale) che le sue poesie «mancano di qualunque elaborazione formale».
Il fatto è che intanto stava cambiando il mondo, oltre che dal punto di vista politico (la crisi degli imperialismi), anche da quello antropologico. Cominciava così a cambiare, tra l’altro, la prospettiva dalla quale l’uomo guardava all’immagine della donna. Qui non si parla dei poeti (certo, durante Stilnovo, l’immagine della donna angelo serviva a proiettare verso il più alto livello possibile l’idea stessa del fare poesia, era una scelta di politica culturale), ma si parla del senso comune. Ebbene, nel senso comune, la figura angelica della donna era servita e continuava a servire come alibi. La donna finiva facilmente per sdoppiarsi nell’immaginario maschile: da una parte l’angelo, la donna che (al contrario di quanto accadeva per i poeti: ecco dunque la necessità di distinguere) prima o poi si sarebbe sposata, ma non si toccava fino al matrimonio e si toccava poco anche dopo. Dall’altra, il diavolo, colei che soddisfaceva gli istinti, fosse l’amante “stabile”, come accadeva per gli strati più alti della società, o la prostituta del postribolo, che “serviva” un po’ a tutti.
La poesia di Saba è un primo – provvisorio e ambiguo, ma certo – sintomo di questo cambiamento del punto di vista. Non c’è nessun angelo. E dunque non è necessario nessun diavolo. Le vicende esistenziali del poeta, che verranno dopo, sembrano smentire questa nuova prospettiva, ma non è così. In quella pollastra, giovenca, cagna, coniglia, rondine, pecchia si avverte proprio il cambiamento in corso. Non cambia ancora la storia degli atti personali, forse, ma certamente quella dell’immaginario collettivo di una parte del mondo.
Il cambiamento che allora cominciava appena ad avvertirsi nell’aria si è poi sviluppato nel Novecento. Tanto che oggi non c’è più nessuna cultura che consideri “normale” il fatto che il buon padre di famiglia, per non offendere i sentimenti e il pudore dell’angelica moglie, si tolga qualche sfizio al bordello dove, chi ci andava, andava con gli amici, faceva conversazione, non aveva timore di mostrarsi. Oggi, chi lo fa, lo fa di nascosto. Se c’è un gruppo di persone che lo fa senza che ciascuno abbia timore di farsi vedere dagli altri, il senso comune le considera depravate.
Ma, si sa, la storia non va diritta per la sua strada: fa strade tortuose e a volte torna indietro. Ad Arcore è tornata indietro, si dimostrino o no reati e pagamenti (ma la vicinanza al potere una volta ripagava di per sé: non c’era bisogno di ragionieri). La storia del modo in cui l’uomo entra in rapporto fisico e di idee con la donna è purtroppo tornata indietro da tempo in mille tv, o comunque in quelle contano, nelle quali la “donna-diavolo” occhieggia con il corpo bene in mostra e sottintende che da qualche parte, proprio lì, davanti ai televisori, qualche “donna-angelo” sta facendo la sua parte di brava moglie mentre il marito sbava e sogna di essere lui il padrone della tv che certamente, o prima ha messo, o dopo metterà le mani su quei corpi e potrà così allontanare la sua ossessiva paura della morte. Questo è il danno peggiore che il paese riceve da un circolo vizioso di potere, media, soldi, cortigianeria. Questo è il danno peggiore perché il senso comune è trascinato all’indietro da chi dovrebbe governare, oltre che le istituzioni e l’economia, anche la cultura. Ogni giorno che passa è dunque un passo indietro. È un rogo di saperi e pensieri che pensavamo fossero consolidati, non di destra o di sinistra, ma semplicemente nostri, appartenenti al nostro patrimonio di idee. Tali da costituire, per ciò stesso, una base di speranza. Ogni giorno che passa con questo Presidente del Consiglio è dunque un passo indietro della speranza. Ne siamo tutti, uomini e donne, mortificati e offesi. Ma molti, per fortuna, ne sono anche indignati.