2010: l’11 giugno alla Notte della Poesia di Genova

L’11 giugno ho partecipato alla “Notte della poesia”, una grande festa dei versi “detti”, recitati e cantati che si svolge ogni anno nel centro storico di Genova nell’ambito del Festival internazionale di poesia grazie all’iniziativa (e all’inesauribile lavoro) di Claudio Pozzani.

La mia lettura, La vita dell’isola e altre vite (versi tratti dalla prima sezione de La mente irretita) si è svolta alle 22.15, a Palazzo Nicolosio Lomellino, in via Garibaldi 7. Intanto, sin dalle sei di sera, la parte del centro storico di Genova che si sviluppa intorno a via Garibaldi si era riempita di pubblico e i palazzi si andavano illuminando per ospitare nelle loro sale o nei loro cortili letture e concerti.

Lo spazio nel quale Palazzo Nicolosio Lomellino ha ospitato la Notte della poesia è stato il suo cortile, aperto da un lato sulla strada e chiuso, dall’altro, su una grotta incorniciata da uno straordinario ninfeo formato da due tritoni che sorreggono volute con al centro quella che sembra una maschera del teatro antico (se fosse davvero così, la destinazione di questo luogo alla recitazione sarebbe proprio quella originaria).
Nella grotta scorre una piccola vena d’acqua il cui suono, continuo e intermittente al tempo stesso, costituisce un accompagnamento perfetto alla voce umana.

Dopo un pomeriggio dedicato alla poesia dialettale, il programma della serata, seguito da circa settanta persone, è stato dedicato a un recital su Dino Campana, alla mia lettura e a quella del poeta siciliano (ma genovese di adozione) Angelo Guarnieri. In quelle ore, in altre decine di sale e di cortili la poesia, per una volta, la faceva da padrona.

Stereotipi della poesia

Giudizi e pregiudizi, tra tolleranza e indifferenza

C’è una tendenza a giudicare oggi la poesia con la stessa considerazione che a suo tempo dai conquistatori europei del Nuovo mondo veniva riservata alle religioni dei nativi o, più tardi, da parte dei piantatori (sempre europei e sempre nel Nuovo mondo) si accordava alle altre religioni degli schiavi provenienti dall’Africa: perdite di tempo alle quali si poteva anche accondiscendere, a condizione che riti e cerimonie non disturbassero le attività accreditate come “produttive” presso il buon senso comune e che restassero confinate in un ambito considerato di natura sub-umana, se non prettamente ferina.

Ecco, l’idea che si ha oggi comunemente della poesia è che sia una sorta di animismo sostanzialmente innocuo, ma da non diffondere perché la sua inutilità e improduttività sono comunque di cattivo esempio.

Questa tendenza è accompagnata da due pre-giudizi che sembrerebbero smentirla e invece decisamente la confermano. Entrambi derivano dal considerare la poesia, romanticamente (?), sinonimo di “eccesso”, di “sregolatezza”, di “sproporzione” rispetto alla normalità del reale e così via.

Capita così che si servano del concetto di poesia – come scrive Giancarlo Majorino ne La dittatura dell’ignoranza – «per tutto ciò che evoca grandezza, purezza, somma bravura eccetera, tant’è che, immergendoci nell’imbarazzo, si può sentir parlare di “poeta delle nevi”, di “poesia della pizza”, di ogni cantautore quale poeta. Trattandosi di un regime autoritario ponente al centro di tutto la merce, le cose, il potere e altre bellezze del genere, non stupiscono – conclude Majorino – tali attribuzioni idiote, testimonianti la non-conoscenza dello scrivere in versi» (p. 55).

Il secondo pre-giudizio porta addirittura alla pubblicità. Leo Hickman ha notato qualche mese fa sul “Guardian” (The rise of poetry in advertising, 2 dicembre 2009) che «molte aziende, incluso McDonald’s, si stanno orientando verso la poesia per pubblicizzare i loro prodotti» e si domanda (e domanda ad alcuni poeti) se questo sviluppo sia ben accolto. Le risposte che riceve non sono per la verità strettamente pertinenti, ma quello che colpisce nell’uso della “poesia” in pubblicità sono due cose: la strapotenza della rima e, ancora una volta, l’idea di “eccesso” e “sregolatezza”. Stereotipi da far riconoscere a tutti i costi, come una ballerina africana necessariamente ricoperta di banane.
In Italia, una fortunata campagna pubblicitaria di una nota azienda automobilistica, realizzata da un notissimo showman, si basava proprio sulla recitazione di una poesia da parte di un presunto poeta di lingua presuntivamente francese. Lui eccessivo e sregolato. La pubblicità ributtante, ma istruttiva.

Ora, il fatto è che nei casi citati da Hickman, in quello che ho appena ricordato (e certamente in tutti gli altri che non mi vengono in mente e che non conosco), quando si tratta di pubblicità, si parla di poesia proprio nel senso che io ho cercato di definire all’inizio. I poeti hanno, in pubblicità, la stessa funzione che ha una ben nota maschera di gorilla negli spot di un famoso aperitivo: si tollerano la sua invadenza e le sue battutacce proprio perché è un gorilla.

Ecco, questo è l’atteggiamento nei confronti della poesia: la parola giusta è “tolleranza”. Si può accettare, basta non esagerare. Guai a far sedere quel gorilla in mezzo a persone serie che hanno il loro da fare.

2010: il 24 e il 25 febbraio a Bussolengo, a Torino e a Genova

Prima di guardare. E dopo

Il 24 febbraio a Bussolengo e a Torino, e il 25 a Genova, due belle letture. Sono stati incontri di tipo molto diverso, ma con lo stesso titolo, Prima di guardare. E dopo. Il titolo, il filo che, nelle due occasioni, ha legato i testi, è tratto da un verso della poesia Hai ragione, Bruno che i libri. Ho scritto di recente (basta leggere qui) che «la poesia non descrive, agisce». Proprio questo carattere, insito nel suo stesso nome, fa sì che la poesia, senza farlo apposta, costituisca una sorta di punto di osservazione privilegiato. La realtà che essa non descrive, ma crea, è tutta mentale. Ed è, per questo, una poderosa istigazione a riflettere. Guardare da questo punto di osservazione può essere decisivo per chi vive in una società senza altra prospettiva che quella del “prodotto” e dell’efficienza. Il fatto è che, prima di guardare, tutti possono dire: «non lo sapevo». E dopo?
Sarà per questo che leggere poesia richiede sforzo. Non perché sia meno comprensibile della prosa, ma perché impegna, anche quando non sembra, a ripensare se stessi e il mondo.

Il luogo della rivelazione

Il 24 febbraio i miei amici di Torino e della Valle di Susa hanno voluto inserire un omaggio alle mie poesie nell’ambito delle celebrazioni del 150° anniversario della fondazione del liceo “Norberto Rosa” che ha le sue sedi a Susa e a Bussoleno. Tre scuole hanno partecipato alla festa e collaborato alla lettura. Oltre al liceo “Rosa”, l’istituto professionale “Galilei”, che ha curato la parte organizzativa e la conduzione della giornata, e il liceo “Teatro Nuovo”, liceo artistico con indirizzo teatrale. A Bussoleno la mattina (Sala polivalente) e a Torino nel pomeriggio (Teatro Alfieri) quattro studenti-attori del Liceo “Teatro nuovo” di Torino, Alice Baronio, Alberto Greco, Camilla Nigro e Luca Viola, con la regia di Enrico Fasella, hanno messo in scena, con un bell’accompagnamento musicale, i testi di quindici poesie tratte da La mente irretita e da I segnalibri di Berlino.

E i miei versi hanno cominciato un nuovo cammino. Ho già scritto (qui) che cosa significa ascoltare i versi “detti” e quale differenza ci sia tra questo ascolto e la lettura con gli occhi dalla pagina di un libro. Ho anche scritto quale emozione possa suscitare il mescolarsi della musica alla voce di chi legge: voce con voce, suono con suono, in un unico flusso di segni pur diversi tra loro.
Ma il cammino che la sperimentazione del Teatro nuovo ha fatto compiere ai miei versi è nuovo perché si è arricchito di un ulteriore universo di segni: del linguaggio gestuale. I gesti degli attori hanno aggiunto alla dimensione fonica quella spaziale, anzi, per la bravura del regista, hanno creato lo spazio adatto perché la dimensione fonica trovasse il suo luogo “naturale” per esprimersi. Unito al gesto, collocato in uno spazio che di volta in volta si espandeva ai quattro angoli del palcoscenico o si racchiudeva nel corpo dell’unico attore in quel momento recitante, ogni verso, più che detto, è stato “rivelato”, come se apparisse per cogliere lo spettatore impreparato di fronte a una emozione via via sempre più intensa.

E ora una citazione di chi ha reso possibili le letture del 24 febbraio, letture che – bisogna dire – non hanno avuto solo il momento dello spettacolo, ma anche quello della presentazione e della riflessione sui testi.

Enzo Marvaso ha curato con intelligenza creativa tutta l’organizzazione e ha retto, dal vivo, le fila dei due eventi. Roberto Scollo ha fornito una interpretazione critica acuta e di ampio respiro dei due libri dai quali sono state tratte le poesie. Germana Erba, direttrice del Teatro nuovo, ha immesso nella realizzazione dello spettacolo tutta l’energia che anima la sua passione di artista e di persona di scuola.

E il luogo della confidenza

Il 25 febbraio ho letto una decina di poesie edite e inedite alla Stanza della Poesia di Genova, diretta da Claudio Pozzani con Claudia Pastorino. Parlare di un’atmosfera completamente diversa rispetto a quella del giorno prima è davvero poco. La Stanza della Poesia è un piccolo spazio di una ventina di posti ricavato in un’ala di Palazzo ducale. È frequentato da habitués, lettori o autori di poesie, gente che di poesia ama parlare e che vuole capire.

In questo caso la mia voce non aveva altro accompagnamento che l’attenzione tesa di questo piccolo pubblico di habitués. Alla fine, senza aspettare che io lo chiedessi, ecco le domande, in particolare sulle suggestioni nate dalle poesie tratte da I segnalibri di Berlino. Poi tutti a sciamare verso i carruggi che stanno lì sotto, tranne la signora Pozzani, la mamma di Claudio. È stata lei a fermarsi per chiudere il pesante portone di legno di quel piccolo spazio di confidenza nella poesia.

La poesia non descrive, agisce

Postilla a una lettura sul paesaggio

L’altra sera sono stato invitato a leggere quattro o cinque poesie, nella saletta della Biblioteca comunale di Velletri. La lettura era nell’ambito di una manifestazione organizzata dal circolo “La Spinosa per l’Ambiente” e intitolata Prima che l’incanto sparisca. Si trattava di difendere uno straordinario “balcone” di Velletri affacciato verso sud, un “balcone” dal quale si vedono, da una parte, i monti Lepini e, dall’altra, il Circeo e le isole pontine. Nei giorni di foschia, le isole non si vedono più e tutto il resto sembra galleggiare su un’onda azzurra e appare come un incantesimo. Ora, il fatto straordinario è che questo “balcone” non si trova sul pendio di un colle fuori dalla città, ma si offre a chi passa lungo una delle vie del centro storico. Al suo posto, è prevista la costruzione di un parcheggio in parte interrato e in parte sopraelevato: tre piani destinati a oscurare per sempre una vista amata e celebrata – e dipinta – da pittori e vedutisti del Sette e dell’Ottocento e, soprattutto, cara a tutti gli abitanti di Velletri.

Il caso vuole che una delle mie poesie, Azzurro sprofondare (titolo originale Oggi che la pianura: si trova ne La mente irretita), sia stata scritta proprio in relazione a quel “balcone” e a quella vista. Da qui l’invito. Che ho accolto molto volentieri. Ora voglio solo aggiungere all’intervento che ho svolto in seguito a quell’invito, una postilla che, in poche parole (decisamente troppo poche), ho esposto anche ai presenti alla manifestazione.

Il fatto è che la poesia non descrive la realtà. Da questo punto di vista, qualche capzioso avrebbe potuto notare che la mia presenza lì era incongrua. In effetti la poesia, piuttosto, tramuta la realtà o, più semplicemente, la fa. Il verbo greco poiéin significa, per l’appunto, fare. E giustamente, in un intervento del 2004, Franco Loi ricorda: «Perché i greci l’han chiamata ‘fare’? Potevano chiamarla composizione o elaborato o racconto ecc. Ma, come sappiamo da Socrate, le parole antiche sono le più vicine alla sostanza e al senso delle cose. La poesia agisce».

Ed è proprio così. La poesia non descrive, ma «agisce». E in che cosa consiste il suo “agire”? Sembrerebbe complicato rispondere a questa domanda, ma basta dire che il suo “agire” consiste nel “creare”, perché, come è del tutto evidente, la poesia “fa” da nulla. Da questo suo “fare” partendo da nulla dipendono sia la sua profonda necessità di un rito (le regole, quando c’erano, o sempre, la musica) sia la sua assoluta inutilità.

Qualcuno potrà pensare che con questo carattere della inutilità della poesia sono un po’ fissato (basta guardare quello che ne ho scritto qui). Ma non è così. In questo caso deduco la sua inutilità dal dato di fatto che il suo “creare”, a differenza di quello che viene attribuito alla divinità o alla natura, non produce nulla. La poesia, insomma, viene dal e approda al nulla, ma lo fa attraverso un processo che è ben diverso da quello dell’esistere che ha, in quanto “esistenza” concreta, una fase in cui la realtà c’è e si percepisce. Si potrebbe dire che la poesia approda al nulla prima ancora di esistere e che proprio per questo è, più e oltre che una grande metafora dell’esistenza, il grande specchio dove possiamo vedere, in forma – per così dire – accelerata, il nostro divenire e restarne, al tempo stesso, affascinati e sconvolti.

E dunque, seppur certamente “inutile”, in particolare ai fini urbanistici propri di quella manifestazione, la mia presenza lì non era incongrua. Nei miei versi non c’è davvero una “descrizione” della pianura che si estende tra Velletri e il Circeo, ma quella pianura “creata” dalla poesia, proprio per il suo essere nulla, per il suo essere del tutto deresponsabilizzata da ogni rapporto con ciò che concretamente esiste, può suggerire all’immaginazione persino di più di quanto non possa fare, con la sua pur cangiante bellezza, la vista determinata e “fattuale” che si gode dal “balcone” di Velletri.

E, mi sembra, il pubblico lo ha avvertito.

Dov’è la poesia?

Tra i libri del decennio neppure un libro di poesia

La fine d’anno, si sa, è epoca di rendiconti. La fine del decennio induce spesso – verrebbe da dire: purtroppo – a rendiconti ancora più impegnativi.
In questa profluvie di giudizi decennali, sei esperti sono stati scelti da “Repubblica” per dire la loro sui dieci migliori libri del decennio appena trascorso. Naturalmente, sulle scelte di questi esperti si potrebbe discutere molto, come su qualsiasi “canone” (e sarebbe inutile: mi domando comunque perché a nessuno dei sei sia venuto in mente di segnalare quello che per me, certamente inesperto, è il libro più straordinario del decennio passato: Il seminatore, libro d’esordio – ma subito un capolavoro – del non giovane esordiente Mario Cavatore). Tuttavia ha ragione Valerio Magrelli (in Siamo poeti maledetti, la top ten ci è proibita, sulla stessa “Repubblica” del 19 dicembre 2009 che pubblicava i risultati dell’indagine) a non porsi il problema dell’uno o dell’altro dei libri scelti, quanto piuttosto la domanda: «perché non c’è neppure un libro di poesia?».

Magrelli si dichiara dell’idea «che, alla base di tutto stia una questione legata al puro sforzo. […] Infatti, tanto l’analisi quanto la narrazione immergono il lettore in un flusso potente e continuo, in una corrente di senso che lo trascina via quasi suo malgrado. Con la poesia, invece, accade il contrario. Qui, sta al lettore mettere in moto il testo. Sta a lui, e soltanto a lui, farsi forza, sospingerlo, azionarlo. È un tipo di lettura diverso, impegnativo e energetico, in quanto esclude ogni forma di passività».

Sono pienamente d’accordo. Ma credo che ci sia anche dell’altro.

Non dico niente di nuovo, ma si tratta di qualcosa che i nostri tempi hanno fatto maturare come non mai e alla quale ho l’impressione che non si possa, per ora, porre rimedio. Questo altro di cui parlo è l’assoluta inutilità della poesia. L’ha affermata con perentoria convinzione, come è noto, Eugenio Montale nel discorso pronunciato per la cerimonia di attribuzione del premio Nobel. Era il 1975 e Montale affermava che «uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi». Da questa considerazione faceva poi discendere la sua famosa affermazione: «In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile».

Ecco, io credo nella assoluta inutilità della poesia e nel fatto che essa sia una malattia endemica. E credo anche che, proprio per questi suoi due caratteri, non ci sia nessuno che, oggi, abbia voglia di collocarla in canoni e classifiche.
Essa è infatti una “inutilità” assolutamente non mercificabile. Non tanto perché non offre, di per sé, mezzi di sostentamento. E ben lo sapeva Montale che, nonostante la fama (anche precedente al nobel ricevuto), ha sempre dovuto vivere di altro che dei diritti d’autore dei suoi non molti libri di poesia. La non mercificabilità della poesia dipende oggi dal suo contrapporsi assoluto a ogni valore di “produttività”, cioè a quel valore che sembra porsi (ed è, di fatto, posto da quasi tutti) in cima alla scala dei valori sociali. Nello stesso discorso per il Nobel, Montale ricorda appena, di sfuggita («non ti curar di lor, ma guarda e passa» gli suggeriva Dante), coloro che, anche tra i colleghi italiani, lo avevano ritenuto inadatto per il premio accusandolo di «una produzione scarsa». Ma proprio questo, sempre più, rende incompatibile la poesia con i valori sociali affermati. Guarda tu! può anche succedere che un poeta sia grande non per quanto ha prodotto, ma per pochi grandissimi versi! Oggi il fatto di essere valutati per quanto produciamo e non per come viviamo ci viene presentato tutti i giorni come una rosea prospettiva del nostro tempo, con una tale tracotanza e da una tale maggioranza di italiani che non possiamo che soggiacere. Come segnalare, e a chi, che nel mondo «c’è un largo spazio per l’inutile» e che tentare di mercificare anche questo spazio è «uno dei pericoli del nostro tempo»?

Però, la poesia, oltre a essere inutile, è anche una malattia endemica. Non sfocia in epidemie, come l’influenza A, ma non si leva di torno. La sua inutilità si affaccia costantemente come una provocazione. Allora ci pensano gli “esperti”. Assumono, in questo caso, la funzione educativa rivendicata con forza, nel romanzo di Kaled Hosseini, dal padre del protagonista del Cacciatore di aquiloni. Il quale dava al figlio questo insegnamento, perché lo tenesse bene a mente: «Gli uomini veri non leggono versi e Dio ci scampi da quelli che li scrivono!». A dispetto di quell’insegnamento, il romanzo ci dice che Hassan continuò a leggere versi e a scriverne. Il problema delle malattie endemiche è che non si diffondono, ma neanche si estinguono.

E, a dispetto di tutti gli “esperti”, anche la poesia, tenuta lontana oggi dalla top ten, non si estinguerà. Le saranno alleati, consapevolmente o no, tutti coloro che, per proprio conto, per il senso e la dignità del proprio essere persone umane, difenderanno lo «spazio per l’inutile» da tutti i tentativi di mercificazione, da tutti i tentativi di renderlo utile.

Non è proprio l’inutilità che ci fa vivere (e morire) meglio?
Viva l’inutilità! E la poesia che ne è, credo, la più alta espressione.

Poesie da dire

Nel suo altro confondersi: una performance di voce e musica

Che le poesie dette siano diverse da quelle scritte è esperienza comune. Una esperienza che molti hanno conosciuto attraverso le letture dantesche di Benigni. Ma tutti noi sapevamo che ascoltare il ritmo del verso attraverso il medium di una voce è altra cosa rispetto al sentire quel ritmo dentro di te quando il medium di una pagina di versi consiste solo nei tuoi occhi.
Nel secondo caso è più forte la riflessione: la poesia la leggi per studiare a fondo tutto quello che di lei ti aspetta con calma lì sulla pagina.
Nel primo caso vince l’emozione: la poesia la ascolti per farla entrare dentro di te, nelle tue vene e, solo attraverso di esse, nel tuo cervello.

Edoardo Sanguineti ha detto (in una intervista a Donatella Coccoli, per “Left”, dell’ottobre 2008): «Io ho sempre pensato a una scrittura da eseguire, non solo quando scrivevo testi teatrali. Anche quando la scrittura poteva essere un testo poetico, io pensavo sempre a un’esecuzione vocale».
Credo che tutti i poeti pensano alle proprie poesie come poesie, se non proprio «da eseguire», almeno da dire. Per quanto mi riguarda, c’è forse qualcosa in più. Quando compongo i miei versi, io in un primo momento non li scrivo. Me li dico. Li imparo a memoria e me li ripeto mentalmente più volte fino a sentire battere il loro ritmo come qualcosa di vitale e di necessario, che mi appartiene. Soltanto allora prendo la penna e ne scrivo alcuni. Infine, mi siedo davanti al computer e li scrivo e riscrivo tutti mille volte fino a che anche le parole che vedo non suonano come quelle che mi ero dette.
Essere dette, avere una voce, appartiene quindi all’essenza stessa delle mie poesie.

Ma c’è qualcosa che riguarda tutte le poesie: quando il medium della voce si integra con la musica e la dizione diventa esecuzione (quella di cui parla Sanguineti), l’emozione sgorga ancora più forte e la capacità di penetrazione del verso si fa più incisiva.
Per questo, su impulso e con la collaborazione di Annalisa Spadolini (a destra nella foto), musicista e amante della poesia, dalla scorsa estate abbiamo cominciato a pensare alla preparazione di una performance di letture poetiche e musica. Si è unita a noi in questa avventura la chitarrista Simonetta Camilletti (a sinistra nella foto).
E a fine settembre la performance è stata realizzata.

È Nel suo altro confondersi. Le poesie che ho scritte sono diventate, a tutti gli effetti, poesie dette, eseguite. Il flauto di Annalisa e la chitarra di Simonetta non costituiscono infatti nella performance lo sfondo della lettura dei miei testi. Sono, anche per la bravura delle interpreti, altre voci che si confrontano e si uniscono al tempo stesso con la mia voce e la mia “presenza”.

Il titolo, Nel suo altro confondersi, lo abbiamo tratto dall’ultimo verso della poesia Azzurro sprofondare (qui anche nella bella traduzione francese di Danièle Robert) per sottolineare il tema del rapporto conoscitivo o affettivo con ciò che è “altro”. Questo tema, pur con qualche divagazione, lo abbiamo sviluppato in due parti. La prima, I giorni dell’isola e altri giorni, contiene una decina di poesie legate a questo tema e tratte da La mente irretita; la seconda, Berlino e le altre, porta questo stesso filo conduttore a legare altre poesie tratte sia da I segnalibri di Berlino sia da La mente irretita. In tutto una ventina di testi e tra questi anche alcuni inediti.

La prima a Velletri, il 26 settembre. Ci ha ospitati la sala dell’Antico casale di Colle Ionci, messa cortesemente a disposizione da Valeriano Bottini.
Una replica a Roma, nello straordinario Salone Borromini della Biblioteca Vallicelliana, l’11 novembre. Ospite, in questo caso, la direttrice, Maria Concetta Petrollo Pagliarani, coadiuvata dalla bravissima Valentina D’Urso che ha anche introdotto la performance.

2009: il 2 ottobre al Festival du Livre di Mouan-Sartoux

Nel corso dell’estate, come ho registrato in questo blog, le mie poesie hanno cominciato a viaggiare al di là delle Alpi. E, al ritorno dalle vacanze, ho trovato un invito a partecipare con una lettura al Festival du livre di Mouan-Sartoux.

Mouan-Sartoux è una deliziosa cittadina della Provenza, sulle colline che guardano verso Cannes, e il suo Festival è un susseguirsi di incontri e di dibattiti che si svolgono sì con un calendario ma anche con molta libertà negli spazi aperti tra bancarelle di libri usati e nuovi. Una bella atmosfera di festa e di confronto.

La lettura è stata bilingue. Mentre io ho letto i testi italiani di alcune poesie tratte dal mio libro La mente irretita, due poeti francesi (ma ottimi conoscitori dell’italiano), hanno letto le traduzioni, opera della bravissima Danièle Robert (ne parlo qui). Ad aiutarmi sono stati Laurent Léon (qui a fianco sulla destra), coordinatore per l’Italia della Primavera dei poeti, e Yves Hughes (a sinistra nella foto), dell’Associazione “Podio” di Grasse, una cittadina non distante da Mouan-Sartoux, famosa per le sue fabbriche di profumi.

2009: il 22 settembre all’anteprima di PoesiaFestival

Il 22 settembre, alle 21.00, al Centro culturale di via 1° maggio di Marano sul Panaro, lettura insieme ad Antonella Kubler. Roberto Galaverni ha presentato l’incontro, che si è svolto nell’ambito dell’Anteprima del PoesiaFestival dell’Unione Terre di Castelli in provincia di Modena. Qui il programma.
A Marano sul Panaro le iniziative del PoesiaFestival, fortemente volute dal sindaco, Emilia Muratori, sono seguite con straordinaria passione, competenza e spirito di servizio da Ada Pelloni, responsabile del Settore Istruzione, Cultura e Assistenza del Comune.

Devo spendere qualche parola sulla mia compagna di lettura. «Antonella Kubler – scrive Giorgio Bàrberi Squarotti nella Prefazione al bel libro Un alambicco, per favore – si è inventata un genere poetico di tenace originalità, nell’essenzialità del ritmo e delle figurazioni sì prosciugati, ma per più efficacemente allora offrire il passaggio del discorso dal quotidiano e dal minimo dell’esperienza, delle considerazioni, dei commenti, delle situazioni che ogni giorno si incontrano, fino alla sentenza suprema, alla rivelazione sublime del senso del mondo e della vita».

Antonella (nella foto qui a fianco) ha letto poesie da Un alambicco per favore (Genesi, 2008) e da Polverine (Book, 2006). Nelle sue brevi poesie il suono di ogni verso è come se si staccasse da una realtà che avevamo accanto, ma ci era sfuggita, per raggiungerci dopo un processo di purificazione che fa diventare ogni parola – e non di rado il verso è costituito da una sola parola – assoluta, totale. È la parola che porteremo con noi, che ci aiuterà a capire. Forse, proprio per quella sua qualità, non avremo il coraggio di pronunciarla, ma non fa niente. Quando leggiamo i versi si Antonella Kubler, sentiamo che a poco a poco cominciamo ad appartenere a loro.

Non bisogna lasciarsi ingannare dalla brevità delle sue poesie. Non sono piccole poesie, ma intense poesie. E non deve ingannare neanche la leggerezza, a volte ironica, di certi versi: è la leggerezza con la quale le parole rappresentano la vita (è giusto che sia così, ce lo ha insegnato Calvino), ma la cosa rappresentata – la vita – non per questo pesa di meno. Se i contenuti delle poesie di Antonella Kubler fossero di metallo, quel metallo avrebbe un peso specifico molto alto, statene certi.

La mia poesia Vicino al faro sul blog di Angèle Paoli

Un’immagine di Angèle Paoli

Dal 30 agosto il bellissimo blog della poetessa còrsa Angèle Paoli, Terres de femmes, ha pubblicato Vicino al faro, una poesia de La mente irretita tratta dalla sezione La vita dell’isola, con la splendida traduzione inedita di Danièle Robert, una nota biografica e una recensione. Terres de femmes dal 2004 ospita testi della migliore poesia europea contemporanea e importanti riflessioni critiche della stessa Paoli.

Il faro del quale parlo nella poesia è quello di Punta sottile che si trova all’estremità occidentale di Favignana e guarda l’altra isola dell’arcipelago, Marettimo.

«La musique de Michele Tortorici – scrive Angèle Paoli – saisit le lecteur dans une infinie douceur, l’enveloppe, l’entraîne dans ses rythmes, ses ruptures, ses vagabondages joyeux ou mélancoliques, la pureté de son phrasé. Profondeur de la réflexion, poésie de l’intime qui donne à penser avec retenue, élégance et délicatesse. Un mot magnifique de la langue italienne résume l’ensemble de ces qualités: Morbidezza».

Dieci poesie de La mente irretita su una rivista francese

È uscito il 30 maggio a Marsiglia “Il Particolare 19&20”, fascicolo di giugno 2008 (ma naturalmente con un anno di ritardo) di una originale rivista francese di «Art – Littérature – Théorie critique», per usare le parole del suo sottotitolo. Al primo posto, tra le molte sezioni e gli articoli che occupano le oltre duecentocinquanta pagine del fascicolo, La Pensée prise au piège, una sostanziosa antologia di dieci poesie tratte da La mente irretita, presentate con la traduzione a fronte di Danièle Robert (qui una recensione al fascicolo de “Il Particolare” con la citazione della traduzione della poesia Le parole che ho letto, tratta dalla sezione Come ogni giorno de La mente irretita).

Danièle Robert è autrice, tra l’altro de Le chants de l’aube de Lady Day (1993), straordinaria e appassionata biografia di Billie Holiday. Traduce dall’inglese, dal latino e dall’italiano. Nel 2007 ha ricevuto il prix Jules Janin dell’Académie française per la traduzione di Ovidio, Lettres d’amour, lettres d’exil.