Postilla a una lettura sul paesaggio
L’altra sera sono stato invitato a leggere quattro o cinque poesie, nella saletta della Biblioteca comunale di Velletri. La lettura era nell’ambito di una manifestazione organizzata dal circolo “La Spinosa per l’Ambiente” e intitolata Prima che l’incanto sparisca. Si trattava di difendere uno straordinario “balcone” di Velletri affacciato verso sud, un “balcone” dal quale si vedono, da una parte, i monti Lepini e, dall’altra, il Circeo e le isole pontine. Nei giorni di foschia, le isole non si vedono più e tutto il resto sembra galleggiare su un’onda azzurra e appare come un incantesimo. Ora, il fatto straordinario è che questo “balcone” non si trova sul pendio di un colle fuori dalla città, ma si offre a chi passa lungo una delle vie del centro storico. Al suo posto, è prevista la costruzione di un parcheggio in parte interrato e in parte sopraelevato: tre piani destinati a oscurare per sempre una vista amata e celebrata – e dipinta – da pittori e vedutisti del Sette e dell’Ottocento e, soprattutto, cara a tutti gli abitanti di Velletri.
Il caso vuole che una delle mie poesie, Azzurro sprofondare (titolo originale Oggi che la pianura: si trova ne La mente irretita), sia stata scritta proprio in relazione a quel “balcone” e a quella vista. Da qui l’invito. Che ho accolto molto volentieri. Ora voglio solo aggiungere all’intervento che ho svolto in seguito a quell’invito, una postilla che, in poche parole (decisamente troppo poche), ho esposto anche ai presenti alla manifestazione.
Il fatto è che la poesia non descrive la realtà. Da questo punto di vista, qualche capzioso avrebbe potuto notare che la mia presenza lì era incongrua. In effetti la poesia, piuttosto, tramuta la realtà o, più semplicemente, la fa. Il verbo greco poiéin significa, per l’appunto, fare. E giustamente, in un intervento del 2004, Franco Loi ricorda: «Perché i greci l’han chiamata ‘fare’? Potevano chiamarla composizione o elaborato o racconto ecc. Ma, come sappiamo da Socrate, le parole antiche sono le più vicine alla sostanza e al senso delle cose. La poesia agisce».
Ed è proprio così. La poesia non descrive, ma «agisce». E in che cosa consiste il suo “agire”? Sembrerebbe complicato rispondere a questa domanda, ma basta dire che il suo “agire” consiste nel “creare”, perché, come è del tutto evidente, la poesia “fa” da nulla. Da questo suo “fare” partendo da nulla dipendono sia la sua profonda necessità di un rito (le regole, quando c’erano, o sempre, la musica) sia la sua assoluta inutilità.
Qualcuno potrà pensare che con questo carattere della inutilità della poesia sono un po’ fissato (basta guardare quello che ne ho scritto qui). Ma non è così. In questo caso deduco la sua inutilità dal dato di fatto che il suo “creare”, a differenza di quello che viene attribuito alla divinità o alla natura, non produce nulla. La poesia, insomma, viene dal e approda al nulla, ma lo fa attraverso un processo che è ben diverso da quello dell’esistere che ha, in quanto “esistenza” concreta, una fase in cui la realtà c’è e si percepisce. Si potrebbe dire che la poesia approda al nulla prima ancora di esistere e che proprio per questo è, più e oltre che una grande metafora dell’esistenza, il grande specchio dove possiamo vedere, in forma – per così dire – accelerata, il nostro divenire e restarne, al tempo stesso, affascinati e sconvolti.
E dunque, seppur certamente “inutile”, in particolare ai fini urbanistici propri di quella manifestazione, la mia presenza lì non era incongrua. Nei miei versi non c’è davvero una “descrizione” della pianura che si estende tra Velletri e il Circeo, ma quella pianura “creata” dalla poesia, proprio per il suo essere nulla, per il suo essere del tutto deresponsabilizzata da ogni rapporto con ciò che concretamente esiste, può suggerire all’immaginazione persino di più di quanto non possa fare, con la sua pur cangiante bellezza, la vista determinata e “fattuale” che si gode dal “balcone” di Velletri.
E, mi sembra, il pubblico lo ha avvertito.