La poesia non descrive, agisce

Postilla a una lettura sul paesaggio

L’altra sera sono stato invitato a leggere quattro o cinque poesie, nella saletta della Biblioteca comunale di Velletri. La lettura era nell’ambito di una manifestazione organizzata dal circolo “La Spinosa per l’Ambiente” e intitolata Prima che l’incanto sparisca. Si trattava di difendere uno straordinario “balcone” di Velletri affacciato verso sud, un “balcone” dal quale si vedono, da una parte, i monti Lepini e, dall’altra, il Circeo e le isole pontine. Nei giorni di foschia, le isole non si vedono più e tutto il resto sembra galleggiare su un’onda azzurra e appare come un incantesimo. Ora, il fatto straordinario è che questo “balcone” non si trova sul pendio di un colle fuori dalla città, ma si offre a chi passa lungo una delle vie del centro storico. Al suo posto, è prevista la costruzione di un parcheggio in parte interrato e in parte sopraelevato: tre piani destinati a oscurare per sempre una vista amata e celebrata – e dipinta – da pittori e vedutisti del Sette e dell’Ottocento e, soprattutto, cara a tutti gli abitanti di Velletri.

Il caso vuole che una delle mie poesie, Azzurro sprofondare (titolo originale Oggi che la pianura: si trova ne La mente irretita), sia stata scritta proprio in relazione a quel “balcone” e a quella vista. Da qui l’invito. Che ho accolto molto volentieri. Ora voglio solo aggiungere all’intervento che ho svolto in seguito a quell’invito, una postilla che, in poche parole (decisamente troppo poche), ho esposto anche ai presenti alla manifestazione.

Il fatto è che la poesia non descrive la realtà. Da questo punto di vista, qualche capzioso avrebbe potuto notare che la mia presenza lì era incongrua. In effetti la poesia, piuttosto, tramuta la realtà o, più semplicemente, la fa. Il verbo greco poiéin significa, per l’appunto, fare. E giustamente, in un intervento del 2004, Franco Loi ricorda: «Perché i greci l’han chiamata ‘fare’? Potevano chiamarla composizione o elaborato o racconto ecc. Ma, come sappiamo da Socrate, le parole antiche sono le più vicine alla sostanza e al senso delle cose. La poesia agisce».

Ed è proprio così. La poesia non descrive, ma «agisce». E in che cosa consiste il suo “agire”? Sembrerebbe complicato rispondere a questa domanda, ma basta dire che il suo “agire” consiste nel “creare”, perché, come è del tutto evidente, la poesia “fa” da nulla. Da questo suo “fare” partendo da nulla dipendono sia la sua profonda necessità di un rito (le regole, quando c’erano, o sempre, la musica) sia la sua assoluta inutilità.

Qualcuno potrà pensare che con questo carattere della inutilità della poesia sono un po’ fissato (basta guardare quello che ne ho scritto qui). Ma non è così. In questo caso deduco la sua inutilità dal dato di fatto che il suo “creare”, a differenza di quello che viene attribuito alla divinità o alla natura, non produce nulla. La poesia, insomma, viene dal e approda al nulla, ma lo fa attraverso un processo che è ben diverso da quello dell’esistere che ha, in quanto “esistenza” concreta, una fase in cui la realtà c’è e si percepisce. Si potrebbe dire che la poesia approda al nulla prima ancora di esistere e che proprio per questo è, più e oltre che una grande metafora dell’esistenza, il grande specchio dove possiamo vedere, in forma – per così dire – accelerata, il nostro divenire e restarne, al tempo stesso, affascinati e sconvolti.

E dunque, seppur certamente “inutile”, in particolare ai fini urbanistici propri di quella manifestazione, la mia presenza lì non era incongrua. Nei miei versi non c’è davvero una “descrizione” della pianura che si estende tra Velletri e il Circeo, ma quella pianura “creata” dalla poesia, proprio per il suo essere nulla, per il suo essere del tutto deresponsabilizzata da ogni rapporto con ciò che concretamente esiste, può suggerire all’immaginazione persino di più di quanto non possa fare, con la sua pur cangiante bellezza, la vista determinata e “fattuale” che si gode dal “balcone” di Velletri.

E, mi sembra, il pubblico lo ha avvertito.

Dov’è la poesia?

Tra i libri del decennio neppure un libro di poesia

La fine d’anno, si sa, è epoca di rendiconti. La fine del decennio induce spesso – verrebbe da dire: purtroppo – a rendiconti ancora più impegnativi.
In questa profluvie di giudizi decennali, sei esperti sono stati scelti da “Repubblica” per dire la loro sui dieci migliori libri del decennio appena trascorso. Naturalmente, sulle scelte di questi esperti si potrebbe discutere molto, come su qualsiasi “canone” (e sarebbe inutile: mi domando comunque perché a nessuno dei sei sia venuto in mente di segnalare quello che per me, certamente inesperto, è il libro più straordinario del decennio passato: Il seminatore, libro d’esordio – ma subito un capolavoro – del non giovane esordiente Mario Cavatore). Tuttavia ha ragione Valerio Magrelli (in Siamo poeti maledetti, la top ten ci è proibita, sulla stessa “Repubblica” del 19 dicembre 2009 che pubblicava i risultati dell’indagine) a non porsi il problema dell’uno o dell’altro dei libri scelti, quanto piuttosto la domanda: «perché non c’è neppure un libro di poesia?».

Magrelli si dichiara dell’idea «che, alla base di tutto stia una questione legata al puro sforzo. […] Infatti, tanto l’analisi quanto la narrazione immergono il lettore in un flusso potente e continuo, in una corrente di senso che lo trascina via quasi suo malgrado. Con la poesia, invece, accade il contrario. Qui, sta al lettore mettere in moto il testo. Sta a lui, e soltanto a lui, farsi forza, sospingerlo, azionarlo. È un tipo di lettura diverso, impegnativo e energetico, in quanto esclude ogni forma di passività».

Sono pienamente d’accordo. Ma credo che ci sia anche dell’altro.

Non dico niente di nuovo, ma si tratta di qualcosa che i nostri tempi hanno fatto maturare come non mai e alla quale ho l’impressione che non si possa, per ora, porre rimedio. Questo altro di cui parlo è l’assoluta inutilità della poesia. L’ha affermata con perentoria convinzione, come è noto, Eugenio Montale nel discorso pronunciato per la cerimonia di attribuzione del premio Nobel. Era il 1975 e Montale affermava che «uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi». Da questa considerazione faceva poi discendere la sua famosa affermazione: «In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile».

Ecco, io credo nella assoluta inutilità della poesia e nel fatto che essa sia una malattia endemica. E credo anche che, proprio per questi suoi due caratteri, non ci sia nessuno che, oggi, abbia voglia di collocarla in canoni e classifiche.
Essa è infatti una “inutilità” assolutamente non mercificabile. Non tanto perché non offre, di per sé, mezzi di sostentamento. E ben lo sapeva Montale che, nonostante la fama (anche precedente al nobel ricevuto), ha sempre dovuto vivere di altro che dei diritti d’autore dei suoi non molti libri di poesia. La non mercificabilità della poesia dipende oggi dal suo contrapporsi assoluto a ogni valore di “produttività”, cioè a quel valore che sembra porsi (ed è, di fatto, posto da quasi tutti) in cima alla scala dei valori sociali. Nello stesso discorso per il Nobel, Montale ricorda appena, di sfuggita («non ti curar di lor, ma guarda e passa» gli suggeriva Dante), coloro che, anche tra i colleghi italiani, lo avevano ritenuto inadatto per il premio accusandolo di «una produzione scarsa». Ma proprio questo, sempre più, rende incompatibile la poesia con i valori sociali affermati. Guarda tu! può anche succedere che un poeta sia grande non per quanto ha prodotto, ma per pochi grandissimi versi! Oggi il fatto di essere valutati per quanto produciamo e non per come viviamo ci viene presentato tutti i giorni come una rosea prospettiva del nostro tempo, con una tale tracotanza e da una tale maggioranza di italiani che non possiamo che soggiacere. Come segnalare, e a chi, che nel mondo «c’è un largo spazio per l’inutile» e che tentare di mercificare anche questo spazio è «uno dei pericoli del nostro tempo»?

Però, la poesia, oltre a essere inutile, è anche una malattia endemica. Non sfocia in epidemie, come l’influenza A, ma non si leva di torno. La sua inutilità si affaccia costantemente come una provocazione. Allora ci pensano gli “esperti”. Assumono, in questo caso, la funzione educativa rivendicata con forza, nel romanzo di Kaled Hosseini, dal padre del protagonista del Cacciatore di aquiloni. Il quale dava al figlio questo insegnamento, perché lo tenesse bene a mente: «Gli uomini veri non leggono versi e Dio ci scampi da quelli che li scrivono!». A dispetto di quell’insegnamento, il romanzo ci dice che Hassan continuò a leggere versi e a scriverne. Il problema delle malattie endemiche è che non si diffondono, ma neanche si estinguono.

E, a dispetto di tutti gli “esperti”, anche la poesia, tenuta lontana oggi dalla top ten, non si estinguerà. Le saranno alleati, consapevolmente o no, tutti coloro che, per proprio conto, per il senso e la dignità del proprio essere persone umane, difenderanno lo «spazio per l’inutile» da tutti i tentativi di mercificazione, da tutti i tentativi di renderlo utile.

Non è proprio l’inutilità che ci fa vivere (e morire) meglio?
Viva l’inutilità! E la poesia che ne è, credo, la più alta espressione.

Poesie da dire

Nel suo altro confondersi: una performance di voce e musica

Che le poesie dette siano diverse da quelle scritte è esperienza comune. Una esperienza che molti hanno conosciuto attraverso le letture dantesche di Benigni. Ma tutti noi sapevamo che ascoltare il ritmo del verso attraverso il medium di una voce è altra cosa rispetto al sentire quel ritmo dentro di te quando il medium di una pagina di versi consiste solo nei tuoi occhi.
Nel secondo caso è più forte la riflessione: la poesia la leggi per studiare a fondo tutto quello che di lei ti aspetta con calma lì sulla pagina.
Nel primo caso vince l’emozione: la poesia la ascolti per farla entrare dentro di te, nelle tue vene e, solo attraverso di esse, nel tuo cervello.

Edoardo Sanguineti ha detto (in una intervista a Donatella Coccoli, per “Left”, dell’ottobre 2008): «Io ho sempre pensato a una scrittura da eseguire, non solo quando scrivevo testi teatrali. Anche quando la scrittura poteva essere un testo poetico, io pensavo sempre a un’esecuzione vocale».
Credo che tutti i poeti pensano alle proprie poesie come poesie, se non proprio «da eseguire», almeno da dire. Per quanto mi riguarda, c’è forse qualcosa in più. Quando compongo i miei versi, io in un primo momento non li scrivo. Me li dico. Li imparo a memoria e me li ripeto mentalmente più volte fino a sentire battere il loro ritmo come qualcosa di vitale e di necessario, che mi appartiene. Soltanto allora prendo la penna e ne scrivo alcuni. Infine, mi siedo davanti al computer e li scrivo e riscrivo tutti mille volte fino a che anche le parole che vedo non suonano come quelle che mi ero dette.
Essere dette, avere una voce, appartiene quindi all’essenza stessa delle mie poesie.

Ma c’è qualcosa che riguarda tutte le poesie: quando il medium della voce si integra con la musica e la dizione diventa esecuzione (quella di cui parla Sanguineti), l’emozione sgorga ancora più forte e la capacità di penetrazione del verso si fa più incisiva.
Per questo, su impulso e con la collaborazione di Annalisa Spadolini (a destra nella foto), musicista e amante della poesia, dalla scorsa estate abbiamo cominciato a pensare alla preparazione di una performance di letture poetiche e musica. Si è unita a noi in questa avventura la chitarrista Simonetta Camilletti (a sinistra nella foto).
E a fine settembre la performance è stata realizzata.

È Nel suo altro confondersi. Le poesie che ho scritte sono diventate, a tutti gli effetti, poesie dette, eseguite. Il flauto di Annalisa e la chitarra di Simonetta non costituiscono infatti nella performance lo sfondo della lettura dei miei testi. Sono, anche per la bravura delle interpreti, altre voci che si confrontano e si uniscono al tempo stesso con la mia voce e la mia “presenza”.

Il titolo, Nel suo altro confondersi, lo abbiamo tratto dall’ultimo verso della poesia Azzurro sprofondare (qui anche nella bella traduzione francese di Danièle Robert) per sottolineare il tema del rapporto conoscitivo o affettivo con ciò che è “altro”. Questo tema, pur con qualche divagazione, lo abbiamo sviluppato in due parti. La prima, I giorni dell’isola e altri giorni, contiene una decina di poesie legate a questo tema e tratte da La mente irretita; la seconda, Berlino e le altre, porta questo stesso filo conduttore a legare altre poesie tratte sia da I segnalibri di Berlino sia da La mente irretita. In tutto una ventina di testi e tra questi anche alcuni inediti.

La prima a Velletri, il 26 settembre. Ci ha ospitati la sala dell’Antico casale di Colle Ionci, messa cortesemente a disposizione da Valeriano Bottini.
Una replica a Roma, nello straordinario Salone Borromini della Biblioteca Vallicelliana, l’11 novembre. Ospite, in questo caso, la direttrice, Maria Concetta Petrollo Pagliarani, coadiuvata dalla bravissima Valentina D’Urso che ha anche introdotto la performance.

2009: il 2 ottobre al Festival du Livre di Mouan-Sartoux

Nel corso dell’estate, come ho registrato in questo blog, le mie poesie hanno cominciato a viaggiare al di là delle Alpi. E, al ritorno dalle vacanze, ho trovato un invito a partecipare con una lettura al Festival du livre di Mouan-Sartoux.

Mouan-Sartoux è una deliziosa cittadina della Provenza, sulle colline che guardano verso Cannes, e il suo Festival è un susseguirsi di incontri e di dibattiti che si svolgono sì con un calendario ma anche con molta libertà negli spazi aperti tra bancarelle di libri usati e nuovi. Una bella atmosfera di festa e di confronto.

La lettura è stata bilingue. Mentre io ho letto i testi italiani di alcune poesie tratte dal mio libro La mente irretita, due poeti francesi (ma ottimi conoscitori dell’italiano), hanno letto le traduzioni, opera della bravissima Danièle Robert (ne parlo qui). Ad aiutarmi sono stati Laurent Léon (qui a fianco sulla destra), coordinatore per l’Italia della Primavera dei poeti, e Yves Hughes (a sinistra nella foto), dell’Associazione “Podio” di Grasse, una cittadina non distante da Mouan-Sartoux, famosa per le sue fabbriche di profumi.

2009: il 22 settembre all’anteprima di PoesiaFestival

Il 22 settembre, alle 21.00, al Centro culturale di via 1° maggio di Marano sul Panaro, lettura insieme ad Antonella Kubler. Roberto Galaverni ha presentato l’incontro, che si è svolto nell’ambito dell’Anteprima del PoesiaFestival dell’Unione Terre di Castelli in provincia di Modena. Qui il programma.
A Marano sul Panaro le iniziative del PoesiaFestival, fortemente volute dal sindaco, Emilia Muratori, sono seguite con straordinaria passione, competenza e spirito di servizio da Ada Pelloni, responsabile del Settore Istruzione, Cultura e Assistenza del Comune.

Devo spendere qualche parola sulla mia compagna di lettura. «Antonella Kubler – scrive Giorgio Bàrberi Squarotti nella Prefazione al bel libro Un alambicco, per favore – si è inventata un genere poetico di tenace originalità, nell’essenzialità del ritmo e delle figurazioni sì prosciugati, ma per più efficacemente allora offrire il passaggio del discorso dal quotidiano e dal minimo dell’esperienza, delle considerazioni, dei commenti, delle situazioni che ogni giorno si incontrano, fino alla sentenza suprema, alla rivelazione sublime del senso del mondo e della vita».

Antonella (nella foto qui a fianco) ha letto poesie da Un alambicco per favore (Genesi, 2008) e da Polverine (Book, 2006). Nelle sue brevi poesie il suono di ogni verso è come se si staccasse da una realtà che avevamo accanto, ma ci era sfuggita, per raggiungerci dopo un processo di purificazione che fa diventare ogni parola – e non di rado il verso è costituito da una sola parola – assoluta, totale. È la parola che porteremo con noi, che ci aiuterà a capire. Forse, proprio per quella sua qualità, non avremo il coraggio di pronunciarla, ma non fa niente. Quando leggiamo i versi si Antonella Kubler, sentiamo che a poco a poco cominciamo ad appartenere a loro.

Non bisogna lasciarsi ingannare dalla brevità delle sue poesie. Non sono piccole poesie, ma intense poesie. E non deve ingannare neanche la leggerezza, a volte ironica, di certi versi: è la leggerezza con la quale le parole rappresentano la vita (è giusto che sia così, ce lo ha insegnato Calvino), ma la cosa rappresentata – la vita – non per questo pesa di meno. Se i contenuti delle poesie di Antonella Kubler fossero di metallo, quel metallo avrebbe un peso specifico molto alto, statene certi.

La mia poesia Vicino al faro sul blog di Angèle Paoli

Un’immagine di Angèle Paoli

Dal 30 agosto il bellissimo blog della poetessa còrsa Angèle Paoli, Terres de femmes, ha pubblicato Vicino al faro, una poesia de La mente irretita tratta dalla sezione La vita dell’isola, con la splendida traduzione inedita di Danièle Robert, una nota biografica e una recensione. Terres de femmes dal 2004 ospita testi della migliore poesia europea contemporanea e importanti riflessioni critiche della stessa Paoli.

Il faro del quale parlo nella poesia è quello di Punta sottile che si trova all’estremità occidentale di Favignana e guarda l’altra isola dell’arcipelago, Marettimo.

«La musique de Michele Tortorici – scrive Angèle Paoli – saisit le lecteur dans une infinie douceur, l’enveloppe, l’entraîne dans ses rythmes, ses ruptures, ses vagabondages joyeux ou mélancoliques, la pureté de son phrasé. Profondeur de la réflexion, poésie de l’intime qui donne à penser avec retenue, élégance et délicatesse. Un mot magnifique de la langue italienne résume l’ensemble de ces qualités: Morbidezza».

Dieci poesie de La mente irretita su una rivista francese

È uscito il 30 maggio a Marsiglia “Il Particolare 19&20”, fascicolo di giugno 2008 (ma naturalmente con un anno di ritardo) di una originale rivista francese di «Art – Littérature – Théorie critique», per usare le parole del suo sottotitolo. Al primo posto, tra le molte sezioni e gli articoli che occupano le oltre duecentocinquanta pagine del fascicolo, La Pensée prise au piège, una sostanziosa antologia di dieci poesie tratte da La mente irretita, presentate con la traduzione a fronte di Danièle Robert (qui una recensione al fascicolo de “Il Particolare” con la citazione della traduzione della poesia Le parole che ho letto, tratta dalla sezione Come ogni giorno de La mente irretita).

Danièle Robert è autrice, tra l’altro de Le chants de l’aube de Lady Day (1993), straordinaria e appassionata biografia di Billie Holiday. Traduce dall’inglese, dal latino e dall’italiano. Nel 2007 ha ricevuto il prix Jules Janin dell’Académie française per la traduzione di Ovidio, Lettres d’amour, lettres d’exil.

2009: il 26 giugno alla Biblioteca civica di Rivoli

Il 26 giugno la Biblioteca civica di Rivoli si è riempita di poesia. “La Primavera dei poeti” (direttore artistico e coordinatore Laurent Léon, rappresentante in Italia dell’evento nazionale francese “Le Printemps des poètes”) ha riunito due poeti francesi di Grasse, Brigitte Broc e Yves Hugues, la poetessa cubana Velia Lechuga Rey e due italiani, Eleonora Manzin, presidentessa onoraria dell’associazione “Les Drôles” e chi scrive (che ha presentato due poesie tratte da La mente irretita). Ha letto Piero Leonardi, accompagnato da Katia Zunino (arpa e percussioni). La Biblioteca ha curato l’organizzazione con Claudia Murabito.

Mentre, fuori dalla Biblioteca, la giornata piovosa si concludeva con un crepuscolo umido e poi con una notte piuttosto fredda, l’arpa di Katia Zunino ha creato, nella sala di lettura, una calda e diffusa emozione. Il pubblico ha seguito le parole dei poeti, in un arcobaleno di tre lingue diverse, come sospeso, come se non ci fosse altro lì attorno che il suono di quelle parole – dette dai poeti e dette dalla voce profonda e gentile di Piero Leonardi – e di quella musica.

Non c’era un posto vuoto.

Nella quarta di copertina del programma c’era l’invito «Scrivi una poesia e fai un regalo». E qualcuno scriveva.

Alla fine, dopo due ore, nessuno voleva uscire.

Mario Lunetta: La forma dell’Italia

Un poema di idee

Questi versi sono un processo, un viaggio e una visione […].
È un «poema da compiere» […] non finito, non finibile, come l’orrore che viviamo.
Il filo principale è quello del percorrimento della penisola, il compendio storico-geografico della catastrofe definitiva […].
Non si può aver compreso il testo e non fare nulla.
La poesia ci chiama in causa, il testo ci cita come testi.
(Dalla Prefazione di Francesco Muzzioli)

In un momento nel quale si sente esaltare la virtù di un «utilizzatore finale» contrapposta al vizio (e al possibile reato) di un inevitabile e speculare ‘avviatore iniziale’ (sarà giusto chiamarlo così?), leggere La forma dell’Italia è come cambiare paese: una sensazione al tempo stesso di esilio e di diverso punto di osservazione, quindi di prospettiva radicalmente diversa da quella alla quale, purtroppo, siamo abituati. Quale italiano onesto non ha pensato, in questi tempi, di “andare in esilio”, di starsene per un po’ lontano da questo paese per respirare un’aria diversa? E, se poi non lo ha fatto, questo si deve proprio al suo essere un italiano onesto. D’altro canto, è la stessa dedica del libro di Lunetta («alla memoria di mio padre Vincenzo e di mia madre Carolina, italiani onesti») a suggerirci questa prospettiva.
«E Foscolo, l’Ugone Niccolò dice soltanto / (Lettera apologetica) “Quanto all’Italia d’oggi, / a me pare fatta cadavere” – nient’altro. // Questa è la forma dell’Italia nelle ore / che stiamo vivendo come passeri strozzati». Se non ce lo dicesse la data posta a suggello del poemetto («Roma e altrove, 2007-2008») e se non ne avessimo già letto ampie anticipazioni circa un anno fa, La forma dell’Italia potrebbe sembrarci un instant book.
Ma, anche attraverso l’esplicita citazione foscoliana posta quasi a conclusione del libro, l’autore, a ogni buon conto, ci avverte che non è così. Dunque non è solo una questione di date, ma è, direi, il carattere originario di questo libro. Il poema di Lunetta è, infatti, un poema di idee e non di fatti. E, in quanto di idee, non può adattarsi a essere di attualità, ma, semmai, d’occasione nel senso più alto che questa espressione ha assunto da quando che Goethe ha definito tutta la sua poesia come «poesia d’occasione». A questo si aggiunga il fatto che queste idee hanno il peso – e lo spessore – di una lunga storia personale e di una lunga storia del pensiero. Pensiero civile, si diceva una volta e si aggiungeva: da Dante al Foscolo.

Ecco il testo completo della mia recensione.

La letteratura italiana nell’orizzonte europeo

Usciti nel 1993, i due volumi de La letteratura italiana nell’orizzonte europeo, destinati in particolare alla scuola secondaria di secondo grado, hanno avuto una risonanza inusuale per un libro scolastico, fino a ricevere una recensione (per la verità ambigua, ma firmata niente meno che da Pierluigi Battista) sulla prima pagina di “Tuttolibri”.
In realtà, hanno avuto una discreta fortuna in ambito scolastico, ma ne hanno avuta una maggiore in ambito universitario, con numerose adozioni anche (forse soprattutto) all’estero, in particolare nelle università degli Stati Uniti.

Dall’Introduzione degli autori

È noto che Eugenio Montale, nel discorso tenuto a Stoccolma nel 1975 per il conferimento del premio Nobel, definì la poesia un «prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo». E non si può negare che, soprattutto se ci si colloca nella prospettiva del lettore disinteressato (che non sia un critico, che non sia un intellettuale, che non sia egli stesso un autore), i caratteri attribuiti dal poeta genovese alla poesia si possono considerare propri dell’intero mondo delle lettere. Il fatto è però che la storia dell’umanità e – per quel che ci riguarda – quella della nostra penisola stanno lì a dimostrare che, a differenza di tanti prodotti «utili», le lettere, pur se hanno avuto alti e bassi di qualità, non hanno quasi mai conosciuto «crisi di produzione» né «cessazione di attività» ; neppure in epoche storiche durante le quali la costruzione di un «libro» – su cartapecora, su carta di papiro, su lamine o tavolette dei più svariati materiali –, la sua duplicazione e la sua diffusione dovevano fare i conti con enormi difficoltà tecniche. Ma, allora, perché darsi tanto da fare per un «prodotto assolutamente inutile»?
Qui sta il punto: proprio la loro inutile godibilità colloca le lettere tra quegli aspetti dell’esistenza umana che – in una graduatoria discendente dall’amore fino alla partita di pallone – sono in grado di trasformare l’attraversamento di una «valle di lacrime» in un piacevole soggiorno.

Preleva il testo integrale dell’introduzione