Il 17 aprile scorso la Biblioteca comunale di Cori ha ricordato il poeta Elio Filippo Accrocca nel giorno nel quale avrebbe compiuto 91 anni. Da molti considerato romano, Accrocca è invece nato a Cori – e lì è ora sepolto – e la Biblioteca comunale è, giustamente, a lui intitolata. L’occasione del ricordo può dunque sembrare legata a una ragione locale.
Ma c’è una ragione più generale per la quale quel ricordo è stato non solo bello, ma anche necessario. Accrocca è infatti uno di quegli scrittori dei quali si tende a non parlare più. E invece è un poeta da rileggere, da studiare (si trova nelle antologie scolastiche? non lo so) e, semmai, ancora da scoprire nelle sue inesauribili – ma mai fini a se stesse – invenzioni linguistiche.
Proprio per questo ad Accrocca è necessario accostarsi con l’umiltà e la curiosità di chi si accinga a esplorare una regione sconosciuta, con la consapevolezza del rischio di perdersi nel dedalo delle numerose e diverse strade che questo poeta ha percorso (o anche soltanto tentato) e, infine, con la stessa pazienza e pervicacia con la quale lui ha lavorato nell’ambito della ricerca formale e si è avventurato negli universi di parole e di cose tra i più ricchi che la produzione poetica della seconda metà del Novecento ci abbia offerto.
In questa così mossa e variegata prospettiva, bisogna stare attenti a non farsi condizionare dagli esordi di questo poeta, fin troppo fortunati – verrebbe da dire -, con un’opera, Portonaccio (1949), presentata da Ungaretti e pubblicata dall’editore di poesia allora più importante in Italia, Scheiwiller di Milano. È infatti assolutamente necessario in questo caso, ancora più che in altri, che esordi pur così importanti non si costituiscano come una categoria di giudizio e, meno che mai, come una categoria di appartenenza. Quando Accrocca ha pubblicato Portonaccio, si era in piena età del neorealismo.
Erano gli anni nei quali la particolare forza degli eventi vissuti ispirava anche quegli autori che, provenienti dall’esperienza ermetica, potevano sembrare meno ricettivi rispetto al peso di una storia tanto ingombrante. Per quello che riguarda lo stesso Ungaretti, erano gli anni de Il dolore (1947), de La terra promessa (1950), di Un grido e paesaggi (1952); Eugenio Montale scriveva le poesie de La bufera e altro (1956); Salvatore Quasimodo pubblicava quelle traumaticamente nuove – per lui e per la lirica italiana – di Giorno dopo giorno (1947). Insomma, anche i poeti che avevano partecipato con maggiore intensità e coerenza alla stagione ermetica, come riconobbe Carlo Bo, accantonato per un momento il loro «antico patrimonio», sentirono l’obbligo di «far partecipare le cose alla lezione della nostra vita».
Figuriamoci i poeti più giovani, in particolare quelli della «generazione del ‘20». In loro l’urgenza di dire spingeva a tradurre in versi esperienze di vita e memorie di lotta, sofferenze passate e presenti, insomma, il difficile rapporto con la vita e con la realtà di anni assai duri che per loro erano anche stati quelli nei quali erano diventati uomini. Tra le altre, la voce di Accrocca si distingueva, secondo il giudizio del suo maestro-amico Ungaretti, in virtù di una «estrema tenerezza di fronte alla terribilità degli eventi», di una «tenerezza quasi silenziosa per la sua intensità di commozione davanti a inermi povere cose, a poveri esseri travolti». Un fatto era già certo, tuttavia, anche per Ungaretti: che la poesia di quel suo giovane allievo era «la più refrattaria a farsi attanagliare in regole che non fossero quelle reclamate dalla propria ispirazione».
La raccolta di Portonaccio esprime le certezze di un ventenne: l’orrore della guerra, la solidità dei rapporti umani, il trascorrere delle stagioni e delle generazioni. L’orizzonte del ponte sulla ferrovia è allora il primo orizzonte urbano che, nella storia poetica di Accrocca, assume un significato e, dunque, ha bisogno di dare parole tanto alla storia quanto alla vita quotidiana. Ma questo è, appunto, il “primo” orizzonte che questo poeta esplora. Portonaccio apre un ciclo che si conclude dieci anni dopo – dopo Caserma ‘50 (1951) e Reliquia umana (1955) – con Ritorno a Portonaccio (1959). Il «ritorno», la chiusura del ciclo, è già un’apertura al nuovo, e si risolve nella scoperta di una nuova certezza: l’amore per la vita che nasce, per la vita del figlio atteso e arrivato. Sono dieci anni di una difficile ricerca di equilibrio tra un’ispirazione diciamo così popolare – con il rischio di populismo facile (anche nello stile) sempre incombente sui giovani poeti di quel periodo – e l’eredità ungarettiana o meglio, come si dovrebbe ormai riconoscere, tra quella ispirazione popolare e una complessa eredità culturale che, attraverso la mediazione di Ungaretti, risaliva assai più indietro e recuperava echi profondi della nostra tradizione letteraria fino a Pascoli, fino a Leopardi e addirittura fino a Foscolo.
Il fatto è che, con la fine degli anni Cinquanta l’insufficienza degli strumenti formali del neorealismo si fa sempre più evidente e, tra i poeti che provenivano da quell’esperienza, proprio Accrocca, più di ogni altro, coglie il senso del lavoro della neoavanguardia e utilizza a pieno i contributi derivanti dalla sperimentazione sul linguaggio e sui linguaggi. Intendiamoci: Accrocca si guarda bene dall’aderire, per così dire, dall’esterno alla ricerca del «Gruppo ‘63». Egli è spinto da un’esigenza profonda di rivedere le proprie certezze, di recuperare sul piano del dubbio i valori in precedenza asseriti senza se e senza ma. Comincia allora, con la svolta segnata dalla raccolta Innestogrammi/Corrispondenze (1966), la lunga stagione delle «domande», terminata poi soltanto con la morte del poeta.
In quella raccolta Accrocca parte dalla constatazione che l’Io è «fatto di molti innesti», che si sdoppia (Innestogrammi, III), che ha un suo proprio tempo e un suo proprio spazio. Lo stesso orizzonte cittadino, nella raccolta Roma così (1973), assume contorni nuovi rispetto al decennio di Portonaccio, e si colloca dentro coordinate del tutto soggettive. Noi non sappiamo dove avrebbe condotto questo lavoro di ricerca intrapreso da Accrocca. Non lo sappiamo e non lo sapremo mai perché le domande che egli andava via via ponendosi assumono improvvisamente il tono e il contenuto delle domande più tragiche che un uomo possa rivolgere a se stesso sul senso della vita: quelle su una vita che non c’è più. La vita del figlio di Accrocca attesa e fatta poesia sin da quando prendeva forma nel ventre materno, e poi accarezzata e descritta nelle promesse e nelle speranze di futuro, si era fermata nel 1973 per un incidente di moto.
L’epoca delle domande, aperta dal dubbio sul linguaggio e sui linguaggi, sul rapporto tra linguaggio e verità, approda allora in questi anni al problema – insolubile – della verità tout court. Le domande dell’ultima sezione di Siamo non siamo (1974) – intitolata proprio così Domande – e quelle de Il superfluo (1980) hanno ormai questa dimensione: «Sei finalmente appagata, Negazione? / Sarò sempre tuo ospite, Tenebra? / Mai più risalirò da questo abisso?». È la dimensione della ricerca assoluta e, lo avvertiamo nel profondo quasi con un brivido, della ricerca dell’Assoluto. Questa ricerca è la vera «condanna per chi resta»: l’appello alla ragione; la lente della follia.
L’evento tragico che le poesie di quegli anni testimoniano come un interminabile e interminato verbale, non è solo un trauma: è una ruga profonda che segna la vita di Accrocca; un solco che si apre anche nel suo mondo poetico. Ormai nulla per lui sarà più come prima. La sua poesia degli anni Ottanta è infatti come un inesausto tentativo di risalire dall’abisso della non conoscenza, di recuperare con le parole un rapporto con il passato che gli consenta di accettare il presente. La stagione delle domande sfocia allora in quel lunghissimo dialogo-soliloquio che costituisce, con le poesie dell’ultimo ventennio, il più straordinario poema intimo che sia stato scritto nel Novecento da un poeta italiano. Esempi del genere si trovano solo nella poesia americana dei Beats, per esempio in Kaddish, il bellissimo poema scritto da Ginsberg tra il 1957 e il 1959 in morte della madre.
Qualcuno capirà perché riempi
di parole la pagina. Forse tenti
di ricolmare in qualche senso il vuoto
che fra te si frappone
e quella moto …
(Tergicristallo, da Lo sdraiato di pietra)
In questi versi si può forse raccogliere il senso ultimo del poema – chiamiamolo così, perché si tratta, lo ripeto, di ben più che di qualche raccolta di poesie – intitolato Lo sdraiato di pietra e dedicato al Babuino, a quella singolare statua mutila da cui prende il nome una delle vie più famose di Roma. Il sottotitolo di quel libro è: «Colloquio-soliloquio a tu per tu col “babuino” che è in noi».
Negli ultimi venti anni della sua vita Accrocca si è affaticato in dialoghi in cui, data la natura dell’interlocutore, abbiamo in realtà il perenne riproporsi di domande a se stesso sul senso dell’esistenza e, ancora una volta ma più drammaticamente che mai, sul senso della poesia: domande che ormai si esprimono in parole «al servizio del segno», in versi tipograficamente spezzati, come se fossero anch’essi alla ricerca di un porto di pace, di un luogo dove sostare pur senza ricevere – mai – una risposta.
Il Babuino, Via del Babuino diventano ora il nuovo orizzonte urbano di Accrocca, un orizzonte – l’ultimo – che fa tutt’uno con una figura, quella del figlio, sempre presente, spesso partecipe del dialogo-soliloquio. È un segmento nella «avventura del tempo», dove si rivelano e assumono senso i sedimenti della vita di un angolo di città: gli accumuli di spazzatura e di catrame; gli intonaci delle pareti; i sampietrini della strada che non si calpestano mai due volte.
Tempo e parola: è necessario soffermarsi su queste due dimensioni del rapporto tra il poeta e lo «sdraiato di pietra». Il tempo, fermato da quella moto, ha ora un enorme spessore nel passato, fluttua nel presente fino a identificarsi, in qualche misura, con la «corrente che fluttua sulla strada» della poesia La polvere (che trascrivo qui sotto) e si schiaccia addirittura nel futuro, in quello che il poeta chiama con lucida rabbia il «raggiro del futuro». La parola assume ora il senso magico che i pitagorici attribuivano al numero e il peso di un «bagaglio che dentro ti trascini», un bagaglio assai «più pesante di quello che si vede: / l’interno è ingombrante come il passato» (Quadrato della magia).
Ecco che tempo e parola si toccano e si contagiano: non è un caso forse che tra le ultime poesie de Lo sdraiato di pietra ve ne sia una, La durata, che cerca appunto di misurare il tempo della parola, la sua durata, la sua storia. Nel rapporto tra queste due dimensioni, la morte che ci ha portato via questo poeta ancora nel pieno della sua attività era una variabile possibile. L’interlocutore del Babuino, anzi, l’aspettava da tempo, ben sapendo che «la vita / […] non volta la sabbia delle clessidre» (La sabbia).
Ogni volta che rileggiamo quest’ultimo grande poema di Accrocca, le domande che il poeta si è posto per tanti anni ci toccano sempre più nel profondo, ci coinvolgono come se diventassero a poco a poco le nostre, come se da sempre avessimo voluto porle alla nostra intelligenza e al nostro cuore. Quelle domande sono una continua scoperta di bisogni della nostra anima, di prospettive del nostro pensiero. Quando, leggendo i suoi versi, ce le troviamo davanti come un’improvvisa necessità, allora ci sentiamo più ricchi. O forse, semplicemente, più uomini.
Questo è il grande dono della poesia di Accrocca.
Elio Filippo Accrocca, La polvere (da Lo sdraiato di pietra)
/… di un fiume si sa la destra e la sinistra
seguendo la corrente
ma una strada non ha
il verso decifrabile.
Nemmeno il presidente della Rai
ti conosce, non sa dove ti trovi,
ignora il grado della tua solitudine …/
Non sei che un guscio vuoto, Babuino,
creatore del nulla, irriconoscibile
involucro di elementi che formicolano
indaffarati nello specchio delle vetrine immobili:
la loro varietà sa di colore espanso
che una suola o un tacco può travolgere
inavvertitamente
senza ragione o scelta …
ma una traccia del nulla è già mistero
che contiene lo scotto di quel vuoto:
nella «vetrina»
ci sei anche tu, irriconoscibile, sdoppiato nel tempo,
oggetto dentro il raggio d’uno sguardo,
figura, sei persona, nome, età, forma, volto
che insegui con il margine dell’occhio
a catturare un simbolo
che non ha peso, che non ha misura
La tua velocità, buio, è superiore
a quella della luce …
Un’occhiata al rettangolo irregolare di cielo
di tanto in tanto per staccare lo sguardo
dalle strisce, ma la pupilla
è meccanismo terrestre,
sa di vincolo umano, d’esistenza
Tu ignori curve/sfere/ellissi,
le leggi si attrazione, le linee dell’universo,
sopporti appena i tagli del momento,
la tenerezza dei colori, i toni dell’altrui
modulazione, lo spazio tra le cose,
la mia voce che sorprende anche me
e questa è vita
che a millimetri annoveri decifrando
la corrente che fluttua sulla strada
enumerando volti che incornici sotto il vetro
delle tue parole,
offrendo tempo, un dono senza prezzo
che da solo disperderai dal tuo comune livello
con le mani inesistenti:
altra polvere non avrai che queste pagine …