Perché sto con i partigiani

Quando, alla metà degli anni Trenta del secolo scorso, il fascismo raggiungeva la sua massima punta di consenso nel nostro Paese, in quello stesso Paese c’erano uomini e donne che resistevano, che opponevano al fascismo il proprio pensiero libero, diffondevano le proprie idee – spesso diverse tra loro, ma questa era una ricchezza in più – e rischiavano per questo la vita o pativano nelle carceri la repressione. Altri uomini e altre donne, con gli stessi ideali, con le stesse diversità e con gli stessi rischi, rappresentavano all’estero un’Italia che non si piegava, un’Italia che guardava, nonostante tutto, con fiducia alla prospettiva della democrazia. In virtù della loro azione, tutto il mondo sapeva che l’Italia non era solo quella di Mussolini.
Quando poi, per la scelta sciagurata intervenire nella guerra a fianco del nazismo, l’Italia fu trascinata al tempo stesso nel baratro di una sconfitta sanguinosa e, con la complicità dei Savoia in fuga, nel fango della totale perdita di dignità nazionale, allora quegli italiani e quelle italiane sono riusciti a raccogliere, attorno a sé e attorno alla prospettiva che rappresentavano, altre forze, soprattutto giovani, e a trasformare un’azione intellettuale e di propaganda ideale in una resistenza armata. Ancora una volta, tutto il mondo sapeva e constatava che l’Italia non era solo quella amica dei nazisti e neppure solo quella ignominiosamente fuggita da Roma al momento dell’armistizio.
Oggi è soprattutto questa difesa a viso aperto della dignità del paese che ci resta come eredità morale e spirituale della lotta e del sacrificio dei partigiani. Una dignità affermata – e questo è stato determinante – sia contro i nazisti sia, tanto più, nel rapporto con gli Alleati, che si trovarono a fare i conti non con “bande” armate, ma con gruppi politicamente forti che pretesero, per esempio, di avere nelle loro mani la resa dell’esercito nazista nelle grandi città del nord.

Dopo la guerra, nei confronti dei paesi che l’avevano vinta, l’Italia poté non arrossire di vergogna. Ma poté valersi anche di un altro vantaggio che era stato portato dal modo con il quale la sua dignità era stata difesa: il fatto che essa fosse stata realizzata in nome di tutti gli italiani. Mentre i Savoia scappavano, i democristiani, i socialisti, i comunisti, gli azionisti non si sottrassero al dovere di combattere tutti insieme, anche con quei monarchici (e non furono pochi) che, a differenza del re, amavano il paese ed erano pronti a sacrificarsi. Un impegno comune e unitario nel quale vennero sospese, non certo dimenticate, le diversità e le contrapposizioni. E difatti, come è naturale che avvenisse, le contrapposizioni, anche aspre, sono riprese nell’Italia democratica che questi uomini e queste donne hanno riconsegnato agli italiani dopo la guerra e dopo la approvazione della più condivisa (e, forse, della più bella) costituzione al mondo.
Se l’Italia ha attraversato quasi settant’anni di momenti esaltanti e di momenti difficili, di crisi economiche e sociali e di riprese, comunque sempre alla pari e insieme al resto del mondo democratico, lo deve a loro.

È per questo che sto con i partigiani, in questo periodo buio nel quale da molti anni la dignità del nostro paese è stata di nuovo in gioco e deve quindi essere riaffermata a testa alta e senza tentennamenti di sorta. È per questo che guardo al loro esempio, alla loro capacità di stare insieme e, una volta stabilite le regole della democrazia, di scontrarsi, sì, ma con rispetto reciproco e, soprattutto, con rispetto di quelle regole. È per questo che sto con i partigiani e che, in particolare nel giorno di quella che io considero la vera festa dell’unità d’Italia, il 25 aprile, cerco di non dimenticare – e di non far dimenticare – quello che hanno fatto.

Non ho la consuetudine delle auto citazioni e i lettori abituali di questo blog lo sanno bene. Tuttavia, mi sarà permesso in questa occasione trascrivere qui una poesia alla quale sono molto legato (è tratta dal mio libro La mente irretita, Manni, 2008). Ho fatto l’insegnante per buona parte della mia vita e ho pensato, leggendo e rileggendo le Lettere dei condannati a morte della Resistenza, che molti di loro avevano la stessa età degli alunni che io mi trovavo in classe tutti i giorni. A questi giovani, a quelli che hanno combattuto nella Resistenza e ai miei alunni nei quali ho sempre voluto che si rispecchiasse quell’amore per la libertà, è dedicata questa poesia il cui stesso titolo, Alunni, non lascia dubbi.

Michele Tortorici, Alunni (da La mente irretita, Manni, 2008)


Rileggendo
le Lettere dei condannati a morte della Resistenza

Alunni vi avrei voluti nell’ora
che vi ha sommersi la storia,
che vi ha affrancati la vostra
temeraria purezza,
che vi ha innalzati la speranza
nella parola che s’invera
come un giuramento.

Alunni vi avrei amati per potere
imparare la fede che attraversa
la morte come un’onda
di piena penetrata
nel mare. Vi avrei cercati per dare
inaspettate risposte alle troppe
impazienti pagine che ho letto. Vi avrei
attesi perché non si chiudesse
il portone della scuola e avrei scavato
per voi macerie di futuro
in offerta d’amore.

Avreste forse anche voi
prestato la vostra fede alle parole
che ho fatto scorrere sui banchi, ai versi
di libertà, alle note a piè di pagina sull’uomo
che s’infutura e che s’india; avreste
forse anche voi bevuto l’inganno
propizio di umani simulacri
senza professione di modernità.

Alunni vi avrei abbracciati per ricevere
il vostro contagio, per raccogliere
le lettere che avete scritto e custodirle
nell’archivio della scuola. Lì
un altro insegnante dopo secoli
d’inettitudine avrebbe scoperto
le pagine nascoste e portato
a nuovi alunni le vostre
parole per inverarle ancora
come un giuramento.