Quando perderemo la nostra identità di italiani?

L’argomento non mi consente di essere breve. Me ne scuso sin d’ora

1. La paura degli “altri”

Da parecchio tempo si è insinuata nel senso comune di molti italiani (di tutti gli italiani? Spero proprio di no), una impostazione mentale tendenzialmente razzista. Essa deriva dalla visione degli “altri” che è sbandierata da alcune forze politiche della variegata destra italiana e che può essere riassunta in una battuta: degli “altri”, in quanto tali, bisogna avere paura, disprezzo, o entrambi.
Poiché si è insinuata nel senso comune, questa impostazione tende a contagiare anche quelli di noi che non sono di destra e che non sono razzisti. Anche chi non è razzista, per esempio, è portato a ritenere in buona fede che il massiccio afflusso di profughi da ogni parte del mondo nel nostro Paese causerà la perdita dei fondamenti della nostra cultura secolare e, infine, porterà inevitabilmente alla perdita totale della nostra identità di italiani. Tutto ciò nella convinzione che gli “altri” (questi “altri”, in particolare), ammesso che non siano cattivi, sono almeno incivili, incolti e, soprattutto, capaci di trasmettere questa inciviltà e incultura a chi si trova vicino a loro.

Eugène Delacroix, Attila suivi de ses hordes barbares foule aux pieds l’Italie et les Arts (particolare, 1847), Parigi, Palais Bourbon

Naturalmente, coloro che non sono razzisti e sono davvero in buona fede non limitano per questo pregiudizio la buona volontà nei confronti degli “altri” e continuano a considerare l’accoglienza, a seconda della prospettiva, un dovere morale o una necessità politica. Ciò non toglie che la loro testa venga dolorosamente rosa da un tarlo: quando tutti noi italiani perderemo la nostra identità? È una domanda senza alternative. La domanda non è: perderemo la nostra identità? Chi se la pone ha la certezza che la perderemo. Il suo solo dubbio riguarda: quando?
Ecco, con questo mio necessariamente non breve intervento vorrei tranquillizzare tutti coloro che si pongono questa domanda: possono stare tranquilli, quelli che sono in buona fede e quelli che non lo sono. Non hanno nessun bisogno di preoccuparsi per il futuro. La nostra identità, infatti, l’abbiamo già persa.
Quando l’abbiamo persa? Adesso. La causa di questa perdita non dipende e non dipenderà infatti dall’afflusso di profughi, per quanto smisurato e incontrollato esso possa essere o divenire. No! La causa è dipesa e dipende da noi e, in primo luogo proprio da tutte quelle forze culturali (o, per meglio dire, anti-culturali) e politiche (o, per meglio dire, anti-politiche) che ci spingono ad avere paura degli “altri” e fingono che quella paura serva a salvaguardare la nostra tradizione culturale che loro, per lo più, sono i primi a ignorare.

Ripassiamo un po’ di storia. Non è la prima volta che, nella storia del Mediterraneo, alcuni dei paesi che vi si affacciano sono stati “invasi” da ondate migratorie: ondate anche più smisurate e incontrollate di quelle odierne; e, inoltre, anche molto più violente. Per evitare di farla troppo lunga, ripassiamo soltanto un po’ della storia della penisola nella quale ci troviamo.
Ebbene, benché dominata per un certo periodo da uno degli imperi più potenti che la storia abbia conosciuto, la penisola nella quale ci troviamo è stata sottoposta, nei secoli dal quarto all’ottavo d.C., da una serie di “invasioni” di popoli diversi che hanno, tra l’altro, disintegrato quell’impero nella sua parte occidentale. Erano popoli interi, che via via hanno finito per schiacciare anche da un punto di vista numerico coloro che in questa penisola risiedevano da secoli, anzi da ben più di un millennio. Naturalmente, quel periodo, che nei nostri libri di storia è chiamato “Epoca delle invasioni barbariche”, nei libri di storia di questi altri popoli è chiamato “Völkerwanderungszeit“, cioè “Epoca della migrazione di popoli”. Popoli che, sì, erano stati spinti a quella migrazione di massa dalla forza della disperazione, ma che si erano fatti avanti anche con la forza delle armi perché erano stati attratti dalla ricchezza e dalla fertilità di un territorio che non aveva l’eguale nel resto del mondo conosciuto.
Quei popoli erano disposti a compiere viaggi durante i quali venivano decimati dalla mancanza di cibo, dalle malattie o dalle lotte contro altri popoli che facevano la stessa strada. Inoltre, una volta arrivati, erano disposti ad ammazzare e a farsi ammazzare, prima per installarsi su quel territorio che avevano così fortemente desiderato raggiungere e poi per non esserne cacciati dai sopravvenienti. Per secoli, negli stessi posti dove oggi facciamo sottili disquisizioni sull’accoglienza di gente disperata e disarmata, è andata così. In seguito sono arrivati anche, oltre agli invasori, via via nuovi dominatori. Questi erano formati da gruppi numericamente più modesti, forti più che altro per la potenza delle armi, e non avevano nessuna intenzione di sostituire i popoli già presenti sul territorio, ma semplicemente quella di sottometterli per godere delle ricchezze che essi producevano: per esempio, in Sicilia, si sono succeduti i domini degli arabi, e poi dei normanni e poi dei tedeschi e poi degli angioini e poi degli aragonesi. E gli stessi o altri altri domini si sono succeduti in altre parti della penisola. Una totale perdita di identità, dunque? Niente affatto.
Questo piccolo ripasso di storia ci è servito proprio perché, a più di un millennio di distanza dalla conclusione di quel “periodo di invasioni” o di quel “Völkerwanderungszeit“, possiamo constatare che in quei secoli non c’è stata nessuna perdita di identità. Anzi, alla fine di quel periodo di “invasioni” e di “domini” stranieri, l’Italia ha conosciuto una fioritura artistica, filosofica e letteraria ha pochi altri esempi nella storia umana. Era successo che i “barbari” avevano portato con sé nuove energie intellettuali e che queste avevano arricchito il patrimonio culturale della nostra penisola.

2. Tre potentissime forze culturali

A ottenere quel risultato, cioè a ottenere, in quel magico crogiolo di culture che fu il medioevo, la nascita dell’Italia moderna, agirono tre potentissime forze culturali, capaci al tempo stesso di mantenere la propria identità e di non snaturarsi nell’acquisire i più diversi apporti esterni. Ho parlato di forze culturali! Sì, culturali; solo culturali; niente armi, niente potere politico. Queste tre forze furono: la lingua; il diritto; l’immaginario collettivo. Vediamole una per una.

La potenza della lingua latina si basava su un lessico consolidato da oltre un millennio di uso quotidiano e da oltre sette secoli di grande letteratura: un lessico aperto a nuovi innesti che potevano facilmente prendere vita sul tronco una struttura grammaticale e sintattica relativamente semplice e, soprattutto, fortemente ancorata alla logica: ci sarebbero voluti i manuali di grammatica latina dell’Ottocento e, soprattutto, certi testi scolastici del Novecento per rendere illogica e incomprensibile una organizzazione della lingua in sé straordinariamente logica e chiara. Inoltre la lingua latina era fortificata da una – per i tempi – enorme diffusione della scrittura e dalla conseguente vastissima conservazione di testi scritti in quella lingua. La potenza della lingua latina fu tale che nessuno degli “invasori” prese mai in considerazione l’idea di imporre l’uso di una lingua diversa, cioè della propria. Semmai, gli “invasori” contribuirono ad arricchire quel lessico, già ricco, con nuovi termini adatti ai tempi: la parola “guerra”, che sostituì in quel periodo il latino “bellum”, la dice lunga a questo proposito.

Sulla potenza del diritto romano è quasi inutile spendere delle parole: tanto più sarebbe inutile da parte mia, che non sono uno specialista di questa materia. Ma sta di fatto che, dopo essere stato riordinato da Giustiniano e da Teodosio, esso era, semplicemente, “ius”. “Ius” la cui continuità fu garantita dal fatto che i popoli giunti in Italia avevano norme consuetudinarie non scritte [1] e che i Longobardi, cioè coloro che si fermarono in maniera definitiva nella penisola, avevano una concezione “personale” e non “territoriale” di quelle norme [2]. Il diritto romano, quindi, anch’esso con innesti vitali in un corpo già di per sé vitalissimo, continuò a essere non solo conosciuto, ma praticato per secoli, prima di riapparire nell’insegnamento delle Universitates intorno al XIII secolo.

Che cosa ne è di due forze culturali così potenti come la lingua e il diritto nell’Italia di oggi? Ne vogliamo parlare?
Centinaia di docenti universitari hanno ammesso, in un documento di un anno fa, che la lingua italiana è ignorata per lo più dai giovani italiani che si iscrivono alle varie facoltà, cioè da coloro che hanno concluso il ciclo completo degli studi e che dovrebbero conoscerla meglio degli altri. Numerose indagini internazionali dimostrano da decenni che due terzi circa degli italiani, qualunque sia il loro titolo di studio, non riescono a comprendere, nella loro lingua, un periodo, anche semplice, se esso contiene più di una informazione. Di conseguenza, ammetto con dolore che due terzi degli italiani non sono in grado di comprendere questo mio intervento.
Il diritto, a sua volta, appare ridotto a un coacervo di norme tra le quali neppure il legislatore riesce più a districarsi, tanto da sbagliare in moltissimi casi a redigere il testo di nuove leggi che vanno ad ammassarsi disordinatamente sulle precedenti. Né, per la verità, mi sembra che si possa individuare all’orizzonte un nuovo Giustiniano o un nuovo Teodosio.

La potenza dell’immaginario collettivo, del quale non a caso parlo per ultimo, fu ancora maggiore di quella della lingua e del diritto.

Locandina della prima parte del film di Fritz Lang “Die Nibelungen” (1924)

I popoli che si succedettero via via nelle varie ondate migratorie avevano il loro, di immaginario: non di rado avevano un’epica legata alle loro origini consolidata in poemi trasmessi oralmente. Tuttavia la loro tradizione culturale non cancellò la forte e articolata complessità dell’immaginario collettivo “latino”. Questo immaginario, nel quale era a suo tempo confluito quello di origine greca, era capillarmente diffuso in tutti gli strati sociali, quindi anche tra gli analfabeti. Ciò era dovuto sia a una straordinaria, millenaria circolazione orale della poesia epica sia alla estesissima – seppure più recente – divulgazione, anch’essa in gran parte orale, attraverso la chiesa, dell’immenso patrimonio biblico. I nuovi popoli, di conseguenza, non poterono fare a meno di acquisire l’immaginario collettivo già presente e di farlo proprio. Omero (in latino), Virgilio, e con essi l’intera mitologia classica, così come la Bibbia non sparirono dall’orizzonte dei saperi dei popoli originari della penisola italiana, ma vi si radicarono sempre più: non perché fossero conosciuti con correttezza filologica, ma proprio perché furono traditi, male interpretati, e tuttavia conservati e diffusi come portatori di immagini: da Ulisse a Enea, l’immagine dell’eroe “astuto” e quella dell’eroe “fondatore”, insieme alle altre mille immagini di quel patrimonio immenso, dalla “forza di Achille” alla “follia d’amore” di Didone, dalla “fierezza nella sconfitta” di Ettore alla “saggezza” dei grandi vecchi come Priamo, Anchise, Evandro, hanno attraversato il medioevo e hanno penetrato le teste dei popoli che in quel periodo avevano “invaso” l’Italia. Così come Abramo e Mosè, l’arcangelo Gabriele e la “sacra famiglia”, la stessa fine del mondo e il giudizio universale, tutte immagini che, più ancora di quelle “classiche” ispirarono in particolare le arti visuali. Non c’era aspetto della vita umana che non trovasse un suo possibile rispecchiamento in quell’immensa raccolta di immagini e nei valori che esse portavano in sé. Un rispecchiamento che poteva essere – e veniva, di fatto – percepito non soltanto da pochi intellettuali, ma da tutti coloro che in una piazza, sul sagrato di una chiesa durante la festa del patrono, dal pulpito durante la messa, in una bettola durante una bevuta, o in altre mille occasioni di vita collettiva avevano sentito una voce che, nelle forme più diverse, aveva presentato loro quei personaggi e quegli eventi, collocati “fuori del tempo”, ma sempre pronti a essere “figura” o “simbolo” di qualcosa che accadeva “nel tempo”, “in quel tempo”.
Fino al Novecento, l’immaginario collettivo legato all’epoca classica, al patrimonio biblico e quello in seguito legato alla Commedia dantesca e, ancora dopo, all’epica ariostesca e tassesca, è stato fondante del nostro modo di pensare, proprio in quanto il primo ha attraversato quei secoli che per un certo periodo qualcuno ha considerato “bui” ed è penetrato ampiamente e profondamente nelle teste dei popoli che, in quei secoli, avevano “invaso” l’Italia. La stessa onomastica italiana ne è stata, fino a circa mezzo secolo fa, un esempio probante: da ragazzo io conoscevo personalmente persone che si chiamavano Ettore o Achille (tra queste il carissimo e, purtroppo, da tanto tempo compianto Achille Tartaro); quello che molti anni più tardi diventò un carissimo amico di famiglia si chiamava Omero e il marito di sua figlia si chiama Paride. Altrettanto si può dire dei nomi Orlando e Angelica. A questa constatazione si deve aggiungere che, dal più raffinato degli intellettuali fino al più rozzo degli analfabeti, tutti i genitori che mettevano quei nomi sapevano bene a che contesto di tradizioni culturali essi facevano riferimento. Si trattava di un comune modo di sentire innervato da un comune modo di sapere.

3. L’immaginario collettivo dissolto e la perdita dell’identità

Ecco perché qui, benché sia perfettamente consapevole di quanto forte sia stato nei secoli l’apporto della lingua e del diritto alla costruzione della nostra identità di italiani, io voglio parlare dell’immaginario collettivo, anzi – lasciatemi fare questo gioco di parole – dell’immaginario connettivo, di quell’immenso patrimonio di immagini che ha tenuto legata insieme la fantasia di tutti coloro che sono vissuti in questa parte del mondo: la fantasia di colti e di incolti, di studiosi e di studenti, di appartenenti a tutti i ceti sociali; e, soprattutto, la fantasia di un popolo diviso fino a un secolo e mezzo fa in decine di stati e staterelli. Ed ecco perché qui io voglio rammaricarmi del fatto che quell’immaginario collettivo e connettivo si è dissolto. Ciò non è accaduto di certo per colpa dei profughi che “invadono” il nostro paese né per altre cause esterne. Ora vi racconto.

Fabrizio Frizzi, attuale conduttore de “L’eredità”

Nel mio racconto comincio con il rivelare che sono un assiduo spettatore di un quiz televisivo, L’Eredità, un quiz nel complesso ben congegnato, soprattutto nell’ultima versione con le sfide lessicali tra concorrenti, e concluso con un piccolo gioco geniale, la Ghigliottina, non a caso suggerito parecchi anni fa, come esercizio mentale, da Umberto Eco[3]. Ora, in un gioco di quiz, i quiz sono molti e, tra questi molti, per una scelta degli autori che decisamente condivido, ne L’Eredità, alcuni riguardano proprio il nostro immaginario collettivo. Ebbene, le domande su argomenti relativi al nostro immaginario collettivo sono quelle con la percentuale più bassa di risposte esatte, in particolare quando mancano le risposte multiple e i concorrenti la soluzione devono trovarla da soli.
Faccio due esempi non proprio recenti, ma molto significativi. Primo. Alla domanda (senza risposte multiple) su chi costruì il cavallo di Troia, quattro concorrenti sui quattro che erano in gioco in quel momento (il 100% dunque!) non hanno saputo rispondere: tre hanno preferito tacere; uno ha sparato un nome a caso che evidentemente associava in qualche modo a Troia e questo nome era Ettore: un Ettore resuscitato e autolesionista, evidentemente. Quanto è vero che tante volte, come diceva Dante, «tacere è bello». Come piccola postilla a questo primo esempio aggiungo la risposta di una concorrente che ha collocato la composizione dell’Iliade al tempo di Augusto e quella, recentissima, di un’altra concorrente che, alla domanda sull’eroe che fuggì da Troia portando sulle spalle il padre Anchise, ha risposto «Achille». Ma, a proposito di Dante – e senza dimenticare Ulisse –, ecco il secondo esempio. Alla domanda su quale personaggio dantesco avesse affermato «fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza», aiutato da quattro risposte tra le quali c’era (ovviamente) quella giusta, il primo concorrente interpellato ha optato per la risposta «Farinata degli Uberti».
Potrei fare altri mille esempi di risposte sconclusionate di questo genere e, tra questi, molti riguarderebbero la pressoché generale ignoranza dei testi biblici vetero e neotestamentari. Non posso però fare a meno di ricordare l’originalità di un concorrente che, alla domanda su quali segni avesse Gesù Cristo sulle mani dopo la crocifissione, ha risposto, anziché le stigmate, «i calli» (testuale! Infatti ho usato le virgolette). Ma mi fermo qui. Gli esempi che ho fatto e quelli che non ho fatto mi servono semplicemente per affermare (cioè: «dare per certo», come spiega il Vocabolario Treccani) che in un campione “scelto” della popolazione italiana, in un campione derivato da un casting in base al quale immagino che molti vengano esclusi, beh, in quel campione “scelto” di popolazione, viene generalmente ignorato ciò che in un campione di analfabeti della generazione di mio nonno sarebbe stato conosciuto da tutti.
Come ciò è potuto accadere? Come siamo arrivati a questo punto? Da un secolo a questa parte certe letture si sono trasferite dalle piazze, dalle chiese e dalle bettole nelle aule scolastiche e, da oltre mezzo secolo a questa parte, la frequenza delle aule scolastiche è stata resa obbligatoria prima fino a quattordici anni e ora fino a sedici. Poiché quegli argomenti ai quali ho fatto riferimento come esempi di contenuti del nostro immaginario collettivo fanno parte dei programmi scolastici avremmo dovuto avere un effetto opposto: ciò che un tempo era parte di un immaginario esteso sì, ma privo di consapevolezza, di temporalità e di rapporti con il resto della “cultura generale”, sarebbe dovuto diventare la solida base fatta di immagini di un universo conoscitivo riempito di “testi” (nel senso più ampio del termine: “testi” verbali, iconici, etc.) e spiegato dalla scienza (cioè dalla capacità di trovare nella natura e nella rappresentazione di essa propria del pensiero dei rapporti di causa ed effetto). E invece nel corso di questo ultimo secolo quell’immenso patrimonio collettivo si è dissolto. La scuola non ha fatto il suo dovere? Può darsi, anzi, certamente è così. La società degli adulti non ha fatto il suo dovere? Può darsi, anzi, certamente è così. Se dovessi affrontare queste questioni il mio intervento, già troppo lungo, si trasformerebbe in un trattato. Ma io qui non voglio fare analisi, voglio affermare (cioè, ripeto, «dare per certa») una realtà che è sotto gli occhi di tutti: quel patrimonio si è dissolto, è sparito senza lasciare traccia. Noi abbiamo totalmente perso la nostra identità. Non la perderemo tra poco o tra molto tempo, per colpa di “altri”: l’abbiamo già persa, per colpa nostra, adesso.
Quando ero bambino (parlo degli anni Cinquanta del secolo scorso), un tipo che aveva più o meno l’età di mio nonno (generazione all’incirca del 1880), un analfabeta un po’ strambo che frequentava il porto di Favignana, faceva a voce alta sproloqui ai quali nessuno prestava attenzione, ma io sì: parlava non di rado degli eroi omerici (penso dunque che avrebbe risposto senza esitazione alla domanda su chi aveva ideato il cavallo di Troia o a quella sull’eroe che da Troia era fuggito portando sulle spalle il padre Anchise) e molto spesso recitava una dietro l’altra parecchie ottave dell’Orlando furioso, naturalmente nella versione in dialetto siciliano propria dell’Opera dei pupi. In quelle occasioni, mio padre, dopo che anche lui, trattenuto da me, si era fermato a sentire quel vecchio, in primo luogo concludeva, sempre nella versione dei pupari siciliani, un episodio che quel tipo strambo aveva magari lasciato a metà e, in secondo luogo, se ricordava le ottave originali dell’Ariosto (il che accadeva piuttosto spesso), me le recitava lì per lì; infine, se non le ricordava, quando tornavamo a casa, me le leggeva da una vecchia edizione del Furioso presente nella biblioteca di mio nonno insieme con i grandi classici e con I reali di Francia di Andrea da Barberino. Mio nonno era un sottufficiale di marina, non so che titolo di studio avesse, tuttavia non era né un laureato né un intellettuale; ma anche lui conosceva perfettamente le vicende tanto degli eroi omerici quanto dei paladini di Francia. Insomma, negli anni Cinquanta del secolo scorso, un analfabeta mezzo pazzo di circa settant’anni, mio nonno (con i limiti culturali che ho già detto) e mio padre (laureato in lettere e divoratore di libri) partecipavano dello stesso patrimonio di sapere collettivo: loro tre, come altri milioni di italiani, avevano un sapere in comune, avevano un patrimonio immenso di immagini in comune. In ciò consisteva la potenza di quell’immaginario collettivo. Per questo io l’ho chiamato immaginario “connettivo”.
Noi abbiamo fatto sì che quell’immaginario collettivo e connettivo sparisse. Ne siamo pienamente responsabili: non chiedetemi come abbiamo fatto. Certo nessun rifugiato, nessuna massa di rifugiati ci ha mai spinti a compiere una mostruosità del genere. L’abbiamo fatta noi questa mostruosità. Ed è per questo che ora affermo, di nuovo: come “italiani” non abbiamo più nessuna identità. Sarebbe bene non dare la colpa ad “altri”. E magari provvedere.


[1] Il primo codice scritto fu quello contenuto nell’Editto del re longobardo Rotari (643), un editto non a caso scritto in latino anche se con forti influenze longobarde.
[2] Le norme venivano cioè applicate su base etnica e i cosiddetti “Romani” potevano quindi seguire quelle del diritto romano.
[3] Umberto Eco, La nostra ghigliottina quotidiana, in “L’Espresso”, 4 aprile 2008.